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LA SEZIONE DI VITTORIO ZECCHIN ALLA MOSTRA Made in Italy: quando l'arte insegna a fare impresa

 

Galleria d'arte e d'antiquariato

 

ALTRE PROPOSTE DELLO STUDIO

VITTORIO ZECCHIN (1878-1947)

VOLUME I

 UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI VENEZIA

 Ca’ Foscari

 Dipartimento di Storia e Critica delle Arti

Facoltà di Lettere e Filosofia

 Corso di laurea in Lettere ad Indirizzo Artistico

 

TESI DI LAUREA

 

PER UN CATALOGO DELL'OPERA DI

VITTORIO ZECCHIN (1878-1947)

di Marco Mondi

 

Relatore Ch.mo prof. Lionello Puppi

Laureando: Marco Mondi

Matricola    n § 715200

 Anno accademico 1991/92

INDICE

 Volume I.

 I.     Prefazione                                                 p.      8

 II.    Venezia europea                                       p.     12

III.   Vittorio Zecchin                                        p.     15

 IV.    Un giovane di Murano                             p.     16

 V.     La Venezia a cavallo del secolo e la Venezia di Vittorio Zecchin                      p.     23

 VI.    Le influenze secessioniste e orientaleggianti, le prime opere di Zecchin              p.     42

VII.   Gli anni di Ca' Pesaro                               p.     55

 VIII.  Un artista tra le due Guerre                     p.    117

 IX.    Esempi di tecnica pittorica e grafica         p.    164

 X.     Zecchin poeta e scrittore                          p.    200

 XI.    Rassegna storico-critica                           p.    265

 XII.   Esposizioni                                              p.    286

 XIII.  Opere fuori catalogo                                p.    292

 XIV.   Opere citate dalle fonti                           p.    294

 XV.    Nota biografica                                      p.    299

 XVI.   Bibliografia                                             p.    320

 

Volume II

 I.     Schede dipinti                                             p.      2

 II.    Schede opere su carta: - disegni                 p.    179

 - tecniche miste      p.    584

 

Volume III

 I.     Schede mosaici                                                     p.      1

 II.    Schede vetri                                                         p.     11

 III.   Schede arazzi, stoffe e ricami                                p.    214

IV.    Schede mobili                                                     p.    308

 V.     Schede stampe e cartoline                                   p.    330

 VI.    Schede opere varie                                             p.    354

 VII.   Schede opere attribuite                                       p.    398

VIII.  Schede opere attribuibili                                     p.    412

  

Volume IV

 I.     Tavole dipinti                                                       p.      2

  

Volume V

 I.     Tavole opere su carta: - disegni                            p.      2

  

Volume VI

 I.     Tavole opere su carta: - disegni                            p.      2

 - tecniche miste                 p.    122

 

Volume VII

I.     Tavole mosaici                                                      p.      2

II.    Tavole vetri                                                          p.     10

  

Volume VIII

I.     Tavole arazzi, stoffe e ricami                                 p.      2

II.    Tavole mobili                                                        p.     74

III.   Tavole stampe e cartoline                                     p.     85

IV.    Tavole opere varie                                              p.    101

Volume IX

 I.     Tavole opere attribuite                                          p.      2

 II.    Tavole opere attribuibili                                        p.     16

  

 

Prefazione

   Affrontando il lavoro di tesi nel tentativo di dare una esaustiva visione dell'opera di Vittorio Zecchin, al di là delle comprensibili difficoltà incontrate nel trattare una produzione così variegata e varia, dispersa principalmente in numerose collezioni private, ho avuto l'opportunità di ben approfondire un periodo storico e un gruppo di artisti, quelli di Ca' Pesaro, i quali rappresentano un tassello fondamentale della cultura figurativa italiana di primo Novecento e, nonostante ciò, oggi ancora spesso trascurati e sovente ingiustamente ignorati.

  La Biennale e soprattutto la giovanile foga capesarina che, grazie alla stessa “Istituzione-diga”, poteva polemizzare con ciò che in Italia più rappresentava una cultura ormai sorpassata, hanno fatto sì che su Venezia, per un decennio almeno, convergessero le attenzioni più accorte di tutta una nazione. Ed è su questa falsariga che ho cercato di focalizzare la personalità artistica di Vittorio Zecchin. Infatti, se pur il nostro fu, a fronte di altri artisti decisamente più rilevanti, una figura talvolta meno incisiva, le sue opere, sia nella pittura quanto e soprattutto nelle arti applicate, hanno per me rappresentato un importante segnale della concreta volontà anche sua di dare un forte e profondo scossone all'arte e all'artigianato locali arenati allora ad una ormai attardata cultura ottocentesca. Solo così mi è sembrato di poter rianalizzare la sua produzione artistica liberandola dall'appellativo ricorrente di mera decorazione, facendola essere ciò che è veramente stata: arte innovativa.

  Particolarmente importante m'è parso il suo contributo al rilancio qualitativo ed economico di alcuni settori dell'artigianato veneziano, dove lo Zecchin non fu certo un pioniere, ma sicuramente un accorto artista-designer non poi idealmente così lontano da altre personalità europee che s'impegnarono, com'era nell'esigenza del momento, facendo delle cosiddette arti minori il fulcro dei loro interessi artistici.

  Procedendo nel mio lavoro ho sentito più volte la necessità di debordare da una precisa linea storico-critica nella valutazione dell'operato di Zecchin. Dapprima, perché numerosi mi son sembrati i collegamenti con le situazioni artistiche e artigianali più diverse giustificate in parte dalla polidirezionalità dell'attività del nostro; poi, perché si faceva sempre più forte in me la convinzione dell'importanza che gli artisti di Ca' Pesaro ebbero nel panorama culturale non solo veneziano, ma italiano, degli inizi del nostro secolo. E Zecchin, nei gloriosi anni dell'istituzione veneziana, alle sue vicende e alle sue vicissitudini fu sempre profondamente legato. Ho cercato quindi, anche se solo con brevi cenni, di sottolineare quei momenti e quelle situazioni che mi sono parse più rilevanti e spesso più trascurate di un gruppo d'artisti che non fu mai un movimento artistico, e che, forse proprio per questo, fu più aperto a quanto succedeva in Europa andando ben oltre come portata ai confini naturali di un agglomerato di isole, accettando, affiancando e corroborando le nuove tendenze artistiche di tutta una nazione.

 
 

Venezia europea 

"Non poteva più attendere"

 (J. Joyce, Dedalus)

   Lo scenario della cultura veneta e veneziana nella fattispecie, storicamente così spesso isolato e chiuso nella sua turris eburnea non solo geografico-lagunare, si presenta all'alba del nuovo secolo come uno dei più fertili centri di attività artistica e critica che vi fu dato di trovare in quel momento in Italia. E' nell'humus veneziano che vennero ad abbeverarsi i futuristi nella loro polemica contro il "chiaro di luna"; così come, qualche anno prima, il dannunziano Stelio Effrena accompagnò il feretro del musicista Wagner, vero tripode di tutto il decadentismo europeo, sulle acque della defunta Serenissima. Prese di posizione apparentemente contraddittorie, vissero ed anzi si corroborarono reciprocamente trovando in Venezia uno tra i centri più adatti della penisola per dar sfogo o far da culla alle proprie idee.

  La decisa volontà dell'artista, sia questo pittore o scrittore, poeta o musicista, di affacciarsi sullo scenario dell'arte europea e con essa instaurare un continuo e libero scambio, fu una delle caratteristiche peculiari di tutta la prima metà del nostro secolo. E si pensi, da un lato, all'importanza del ruolo svolto dalle numerose riviste letterarie e non, e, dall'altro, al diffondersi nelle maggiori città italiane delle esposizioni internazionali d'arte. La creazione della Biennale veneziana nel 1895, <<prima apertura dell'arte italiana in uno scenario europeo>> (1), rappresentò la prima tappa in senso moderno per l'arte italiana come inevitabile successione di quanto era andato maturando per tutto l'Ottocento nella maggior parte della penisola e, in modo particolare, proprio nella città lagunare.

 

Note

1 - GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino 1965, p. 11.

 

(FOTO)

Vittorio Zecchin con i famigliari.

 

(FOTO)

Vittorio Zecchin.

 

Un giovane di Murano  

<<Virtù del fuoco!>>

(G. D'Annunzio, Il fuoco)

   Nato a Murano il 21 maggio del 1878, Vittorio Zecchin fu uno di quegli artisti la cui terra d'origine, la bella isola del vetro, la città e la laguna, <<Catedral/ che ga per sofito/ el cielo/ e per altar Venezia>>, rappresentarono un legame tanto abbarbicato nel suo animo da leggersi a chiare lettere in ogni sua opera. E la sua opera perderebbe di significato, cadrebbe nella mera decorazione, se la si immaginasse al di fuori dal contesto veneziano.

  In essa vi è il continuo riflettersi di una Venezia profondamente amata e profondamente sentita: l'incanto magico, fatato, di una città da "mille e una notte"; la trasparenza, il riflesso e il luccichio dell'acqua; le raffinate eleganze di una cortigiana inclinata <<sotto la pompa dei suoi monili>>; la laguna misteriosa che fa <<specio a le stele>>; il grande passato artistico, pittorico, dove più che il Veronese, si sente l'intenso cromatismo vivariano.

  Nelle sue opere si scorge una visione mistica, fiabesca della vita, quasi una fuga in un paradiso perduto, in una Venezia da sogno. Una evasione onirica che trova, però, nella cultura artistica lagunare d'inizio secolo il suo naturale insediamento, dando così vita ad un progressivo reinserimento del sogno nella realtà, concreta e pratica, dei più diversi settori artigianali riportati a proporre i tradizionali oggetti di uso comune come vere e proprie opere d'arte.

  Figlio di un vetraio muranese, Luigi, il giovane Zecchin ebbe, nei primi anni di vita, un diretto contatto con l'arte che rese la sua isola famosa in tutto il mondo. Un contatto che, se da un lato poteva esaltare la fantasia e la gioia di un bambino nel vedere creare con un soffio un oggetto dalle magiche trasparenze (quanto meno incantate sarebbero state le sue pitture altrimenti!), dall'altro gli permise d'avere una giovanile cognizione dei problemi e delle difficoltà di un settore artigianale ancora fortemente legato ad una gloriosa tradizione secolare, che ne rappresentava il vincolo stesso. Vittorio Zecchin, vivendo e crescendo dentro, sin da bambino, al mestiere di vetraio ben potè rendersi conto dei limiti e delle potenziali possibilità di una attività ricca di creatività e, cosa molto importante, intuirne le principali difficoltà pratiche.

  Dagli anni Settanta dell’Ottocento, la lavorazione del vetro nell'isola ebbe una vivace ripresa ma, fino a qualche anno prima, questo, come altri settori dell'artigianato veneziano, versava in un profondo ristagno economico e artistico.

  Per gli artigiani muranesi del vetro, la prima metà del XIX secolo fu un momento pieno di difficoltà e di crisi profonda (1). Chiusi nella gelosa custodia della loro tecnica ed avversi alle novità tecnologiche, sordi al mutato gusto e timorosi della concorrenza straniera, i vetrai muranesi costruirono pian piano i presupposti di quella depressione che caratterizzerà in modo tanto acuto i primi trent'anni del secolo (2).

  L'inizio del XIX secolo presentò quindi la grande novità, per il mercato europeo, della decadenza del vetro veneziano (assieme a Murano, altri centri europei si trovarono in gravi difficoltà) e, con la nuova tendenza ad organizzare industrialmente la produzione, l'ascesa del cristallo colorato inglese e del cristallo di Boemia (quest'ultimo, grazie all'Austria, prodotto anche a Murano –3).

  Una ditta milanese, la "Fratelli Marietti", fondata nel 1826 a Murano per la produzione seriale del vetro comune (lastre, bottiglie, bicchieri, ecc.), fu l'unica eco che si ebbe nell'isola della rivoluzione industriale (4). Per il resto, le vetrerie muranesi cessarono quasi del tutto la produzione di vetri "fini" e soffiati: i pochi vetri soffiati furono vetri incolore e scadenti. Di scarsa qualità e quantità, fu pure la fabbricazione delle piastre vitree colorate usate per l'intarsio dei mobili o di altri oggetti. Gli unici rami della vetreria toccati solo parzialmente dalla crisi, furono quelli della produzione delle conterie e dei lavori a lume (5).

  Solo attorno agli anni Trenta si avvertì una certa ripresa delle tecniche abbandonate. Conseguenza sicuramente dovuta al mutato gusto della clientela internazionale, ora più interessata alla ricerca e raccolta dei bei vetri veneziani del passato. Da questo stimolo prese l'avvio l'imitazione dei pezzi antichi, che diventò una delle note più caratteristiche di tutta la restante produzione vetraria dell'Ottocento.

  L'imitazione dell'antico, spesso legata al mercato dei falsi, fu l'incentivo che spinse i maestri vetrai ad una vera e propria sfida per la riconquista ed il superamento, in capacità esecutiva, degli antichi metodi di lavorazione (6).

  In una tradizione che giunge sino ai nostri giorni, l'imitazione, secondo il gusto stilistico del momento, propose veri e propri revival artistici. Accanto alla continua riscoperta e scoperta delle tecniche antiche e nuove, venne rilanciato il vetro quattrocentesco, cinquecentesco e barocco, greco, romano, paleocristiano ed islamico. Pure in questo settore, l'Ottocento sfoggiò tutto il suo eclettismo.

  Non tardarono, dall'imitazione, le variazioni formali e decorative, spesso originali, delle opere eseguite. E su questa strada si direzionarono i maestri più capaci che, assimilato un notevole bagaglio tecnico, riuscirono a proporre l'artigianato a livello artistico.

  Superata la metà del secolo, Murano ebbe i primi sintomi di una ripresa economica. Furono fondate numerose nuove vetrerie, che in pochi anni ottennero prestigio internazionale e in ogni settore, dal mosaico al soffiato, dalle conterie alle piastre vitree, vi fu un aumento qualitativo e quantitativo della produzione. Nel 1861, in pieno revival artistico, sotto il coordinamento dell'abate Vincenzo Zanetti, promotore di altre importanti iniziative per Murano, come l'apertura della Scuola Festiva di Disegno (1862) e l'organizzazione della prima Esposizione Vetraria Muranese (1864), fu fondato il Museo Vetrario, con opere archeologiche e muranesi del passato (7). In un diverso clima politico-sociale, dopo l'unità d'Italia, molteplici furono le condizioni economiche e finanziarie favorevoli di cui tutto il Veneto potè godere (8). Dagli anni Settanta, l'artigianato artistico del vetro muranese ebbe il suo momento di maggiore successo internazionale.

  E' in questo clima di ripresa economica che il giovane Zecchin vide dal padre modellare quel vetro a cui solo molto tempo dopo si dedicherà con tutto il suo impegno. Ebbe modo, in quegli anni, prima con gli occhi del bambino e poi con la foga adolescenziale, se non di individuare e capire le motivazioni di un ristagno artistico dell'artigianato del vetro muranese (in termini qualitativi di originalità e adeguamento alle nuove tendenze culturali), di percepire almeno la presenza di una tradizione troppo vincolante proprio perché interpretata principalmente sotto il limite della copia, se pur virtuosamente eseguita (9). Potè sentire la doppia valenza della ripresa di un settore artigianale che ben rifletteva l'andamento generale di tutta una cultura divenuta provinciale: una crisi produttiva superata in parte dal punto di vista quantitativo e di conseguente riscontro economico, e un perdurare di crisi qualitativa che costringeva l'arte del vetro, per i più, ad una attività essenzialmente artigianale.

  E' attraverso l'artigianato della sua isola che Zecchin, dunque, muove i suoi primi passi nell'arte, ed è attraverso questa chiave di lettura che devono essere viste le sue diverse esperienze artistiche. Il suo ritorno alle arti applicate, mai dimenticate nemmeno quando i suoi interessi erano prevalentemente rivolti alla sola pittura, fu la naturale conseguenza del suo animo artistico, che vedeva chiaro, per una tradizione quasi congenita in un giovane cresciuto a Murano, lo stretto legame tra arte ed artigianato e sentiva forte l'esigenza di rompere le barriere di quanto aveva fatto sì che l'una fosse più elevata e nobile dell'altra. Da giovane, egli sentì la crisi dell'artigianato, dell'arte della sua isola, e a questa reagì.

  Certo non potè focalizzare subito le motivazioni di quella diffusa inquietudine ed incertezza che accompagnarono i suoi primi passi nell'arte, ma di questo ne subì le conseguenze. La famiglia lo costrinse a intraprendere studi tecnici, quando egli forse avrebbe preferito seguire le orme del padre. Modo, questo, per allontanare il figlio da un lavoro artigianale che più di tanto non prometteva e vero sintomo di profonda crisi interiore di un'arte. A questo, Zecchin s'oppose con impeto tutto giovanile e, come ricorda Vittorio Pica, <<più che alle sue esortazioni verbali, lo dovette alla sua scoraggiante ed incorreggibile svogliatezza addimostrate>> (10) se i suoi genitori si convinsero e accettarono che abbandonasse gli studi tecnici per iscriversi all'Accademia di Belle Arti della città.

 

Note

(1) - Gli ultimi decenni del Settecento mostrarono le prime battute d'arresto di un'industria penalizzata dal nuovo gusto neoclassico che, prediligendo il bel vetro colorato agli ormai ripetitivi pezzi veneziani, declassò questi ultimi gradualmente da arte ad artigianato.

2 - La dominazione straniera contribuì non poco ad alimentare le difficoltà che portarono all'oblio di gran parte del patrimonio tecnico-decorativo acquisito nel passato. Infatti, la soppressione delle corporazioni artigiane nel 1806, sotto il regime francese (che solo sporadicamente per taluni fu un incentivo), e le pesanti tasse imposte dal governo austriaco sull'importazione delle materie prime e sull'esportazione dei prodotti finiti, anche per salvaguardare la propria produzione vetraria, furono alcuni dei motivi che pregiudicarono una continuazione proficua dell'attività a pieno ritmo e che, proprio nella loro chiusura, in una difficile produzione rallentata, fecero cadere dimenticate le tecniche artistico-decorative del passato.

3 - GIOVANNI MARIACHER, L'Arte del Vetro, Verona 1954.

4 - ROSA BAROVIER MENTASTI, Crisi e rinascita ottocentesca, in Mille Anni di Arte del Vetro a Venezia, Venezia 1982.

5 - ASTONE GASPARETTO, L'Ottocento, in Mille Anni di Arte del Vetro a Venezia, Venezia 1982.

6 - Dapprima lenta e difficile, perché pochi i maestri ancora capaci nelle tradizionali tecniche, e nel soffio a mano volante in particolare, l'imitazione dell'antico portò a momenti di eccezionale ripresa economica e ad esecuzioni tanto raffinate da poter rivaleggiare con i più bei pezzi dei secoli precedenti.

7 - ASTONE GASPARETTO, L'Ottocento, in Mille Anni di Arte del Vetro a Venezia, Venezia 1982.

8 - GIANDOMENICO ROMANELLI, Venezia nell'Ottocento, in Venezia nell'Ottocento, Milano 1983.

9 - E, sotto forma particolare, la situazione del vetro veneziano non si discostava di molto dal procedere delle altre espressioni artistiche dell'ambiente lagunare.

10 - L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, catalogo a cura di VITTORIO PICA, Galleria Pesaro, Milano, 1923, p. 9.

 

 La Venezia a cavallo del secolo e la Venezia di Vittorio Zecchin 

<<…di tredici secoli di ricchezza e gloria,

 non rimangono che ceneri e pianto>>.

 (G.G. Byron, Ode to Venice)

 

  Come s'è già detto, la scelta di Vittorio Zecchin d'intraprendere gli studi accademici, non trovò l'appoggio della famiglia. Anzi i genitori avrebbero preferito egli avesse continuato gli studi tecnici ai quali era stato indirizzato. Nonostante ciò, a sedici anni, nel 1894, si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Venezia e viene ammesso all'anno Preparatorio.

  La critica ha troppo spesso frettolosamente licenziato l'arte di Zecchin giudicandola come raffinata decorazione di stampo klimtiano. Zecchin fu, in effetti, per certi versi klimtiano, ma tale giudizio, che può anche calzare per la sua pittura, se questa viene isolata dal contesto culturale e artistico nel quale è stata concepita, diventa restrittivo nel momento in cui pittura e soprattutto alcune intuizioni geniali nelle arti applicate (dal 1915 in poi, non dimentichiamolo, Zecchin dipinse piuttosto poco) vengono reinserite nel loro habitat naturale, vale a dire la Venezia d'inizio secolo. Zecchin diventa allora un innovatore e, nel suo genere, un vero caposcuola.

  La situazione cultural-artistica della Venezia di fine secolo, la Venezia in cui Zecchin visse, sotto molti aspetti si presenta simile a quella di altre città italiane; sotto altri aspetti, invece, del tutto particolare. Ed è, a mio avviso, partendo da una tale analisi culturale che Zecchin, e molti altri suoi colleghi che si mossero nell'orbita capesarina, e talvolta con rilevanza ben più incisiva rispetto al nostro, può essere giustamente riconsiderato e rivalutato. Zecchin, inoltre, come muranese sentì molto più di altri il clima stagnante dei vari settori artigianali: del vetro in modo particolare e delle arti applicate in generale. Bisogna quindi tener conto, oltre al dilagante tradizionalismo di fine Ottocento nelle arti veneziane, anche del suo diretto influsso in quelle arti cosiddette minori, proprio perché è a queste che Zecchin dedicò una gran parte dei suoi maggiori sforzi creativi.

  L'ambiente artistico dell'Accademia veneziana che il giovane Zecchin incontrò negli ultimi anni del secolo, presentava lo stesso scenario da “pomposo teatro”, visto in chiave didattica, che caratterizzava la mondanità salottiera dei palazzi alla moda, della Piazza e dei Giardini (dal 1895) di una città che viveva ormai essenzialmente del suo passato e che pur si stava preparando ad entrare nel nuovo secolo.

  Se la stessa penisola italiana, per tutto l'Ottocento, fu provincia, e non solo per l'arte che, da Canova in poi non ebbe più voci di tanta risonanza europea, ma un po' per tutto quello che fa di una nazione uno stato di rilevanza internazionale, Venezia rappresentò sicuramente uno tra gli esempi più emblematici del perdurare di una tradizione secolare profondamente radicata in ogni sua espressione artistica o di altro genere. La stessa caduta, cent'anni prima, della Serenissima Repubblica aveva portato solo parzialmente quelle trasformazioni sociali che in altre città italiane s'erano fatte ben più sentire. Sì, Venezia entrò, sotto la dominazione straniera, in una dimensione sociale più moderna, con cambiamenti che ne ribaltarono il modo di vita sotto ogni aspetto, e vide anche, pian piano, delinearsi quelle metamorfosi che la portarono ad essere la città che oggi spesso vive ancora; d'altro lato, però, continuò ad essere, in un contesto sicuramente diverso, l'antica Repubblica con la sua aristocrazia e le sue abitudini di vita. L'Ottocento rappresentò per Venezia un lungo periodo impregnato di indispensabili esperienze che prepararono la città ad entrare, e solo nel nuovo secolo, in una dimensione veramente moderna. Ed è, infatti, solo nei primi decenni del Novecento, almeno per l'arte, che la città uscì dalla tradizione ottocentesca e assunse le capacità di valutare in senso nuovo il suo enorme bagaglio storico-artistico; e Zecchin fu, in questo senso, artista del Novecento che seppe guardare la sua città con occhio ben diverso da quello che alla fine del secolo aveva incontrato nell'ambiente dell'Accademia veneziana.

  All'Accademia, Zecchin mostrò infatti ben poco interesse per coloro che furono i caposcuola dell'arte veneziana di fine Ottocento. Seguì nel 1897 un corso sul paesaggio tenuto da Guglielmo Ciardi, ma a fine anno non si presentò agli esami e non passò quindi il corso. Fu probabilmente più interessato allea spiegazioni di un "decoratore" come Augusto Se zanne, il quale, nelle sue lezioni, si dilungava sovente sulle particolarità tecniche ed esecutive delle arti maggiori applicate. Tant’è vero che, nel 1899, fu ammesso al 1° Speciale Ornato, tenuto dallo stesso Sezanne, che gli valse il premio, come anche l'anno successivo, per l'Ornato. Sin dall'Accademia, quindi, Zecchin si sentì affascinato più che dalla pomposa pittura del momento, da un'arte più sobria, proprio perché‚ il suo scopo non era solo il soggetto dell'opera in se stesso ma, semmai, l'opera stessa allargata al contesto in cui doveva essere inserita.

  Egli fu, in pittura, soprattutto un grande decoratore e fu attraverso queste ricerche figurative che giunse gradualmente alle arti applicate. Come l'Accademia fu per lui un'esperienza essenzialmente didattica, anche la sua pittura, in un certo senso, per anni lo impegnò a sperimentare soluzioni formali e compositive che staranno poi alla base delle successive invenzioni create per stoffe, mobili o mosaici. La stilizzazione delle figure e degli oggetti a cui arrivò nella pittura, era l'unica via che gli potesse permettere di trasferire gli stessi temi su superfici innanzitutto diverse dalla tela, e che quindi pure tecnicamente richiedevano per forza determinate soluzioni; poi, che giustificassero il superamento di un contenuto di forme il cui scopo era l'utilità decorativa, la raffinatezza ed eleganza compositiva legata ad un contesto reale e non di solo contenuto, e, qualora avesse dovuto trattare un contenuto, questo era elaborato attraverso invenzioni fantastiche e fiabesche, la cui ideazione stessa era concepita ancora una volta servendosi del soggetto da trattare per giungere a risultati utili al suo pratico inserimento in un contesto applicativo. In un certo senso,alla luce delle sue successive realizzazioni nel campo delle arti applicate, egli si servì della pittura così come un pittore si serve del disegno, uno scultore del bozzetto o un architetto del progetto. Zecchin entrò nel “sogno” attraverso invenzioni fantastiche della realtà, seppur mai così totalmente chiuse in un universo a se stante da dover rompere definitivamente con la realtà stessa, perché era in questa, alla fine, che le sue opere dovevano trovare la loro collocazione e a questa, quindi, tornavano ad essere legate. Egli fu decadente in pittura ed indubbiamente, sotto alcuni aspetti, influenzato da Klimt, ma era un artista che apparteneva oramai ad una generazione nuova, che aveva saputo vivere un clima artistico servendosi di esso, una volta raggiunta una certa maturità creativa, per scopi diversi e a seconda delle esigenze del momento. Il percorso seguito da Zecchin per liberarsi dalle pastoie di una cultura ottocentesca divenuta anacronistica, fu particolare, è vero, ma non poi così dissimile da quello che altri artisti avevano intrapreso per vie diverse.

  All'Accademia egli trovò solo parzialmente un ambiente veramente vivo di creatività come quello che troverà nelle sale di Palazzo Pesaro. La Venezia ufficiale di fine-inizio secolo, era ancora troppo legata ad una “realtà” divenuta ormai effettivamente "immaginaria". L'arte ufficiale era arte per una società mondana, di una società da salotto, la quale avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di non rinnegare la propria stessa esistenza, divenuta oramai fuori tempo, fuori dal tempo “contemporaneo”; una società disposta a tutto pur di continuar a mantenere la propria posizione, privilegiata da secoli. Nel 1871, Camillo Boito annotava: <<La grandezza dell'arte veneziana vecchia è un impiccio alla beltà dell'arte veneziana nuova. I pittori non hanno l'animo di rompere la catena della tradizione; non hanno l'animo di guardare il vero in faccia>> (1). Sono gli anni in cui l'arte veneziana, spinta anche dal Realismo veristico, proposto pure nel teatro (strettamente legato a quello goldoniano), e stimolato anche da un nuovo genere artistico com’era quello della fotografia, intenta a cogliere quegli aspetti di una Venezia minore prima trascurata, cambiò il soggetto delle sue rappresentazioni. Da un'arte ancora impegnata a raffigurare scene di carattere storico-mitologico, si passò a raffigurare <<soggetti trattati modestamente. [...]mentre dalle imitazioni non poteva venire che una pittura pretenziosa e vana, da codesto avveduto studio della natura potrà nascere forse una pittura moderna, forte di nuova vita>> (2). In realtà, spesso si trattò di un semplice cambio di soggetto, così come un paesaggio può essere cambiato davanti all'obiettivo di una macchina fotografica. Non era certo cercando gli angoli più reconditi e sconosciuti di una realtà sovente accettata solo se vista dalla finestra panoramica dell'arte, purché questa ne potesse garantire con sufficiente distacco una nuova finzione, che poteva nascere l'arte moderna. Anzi, ancora una volta, esaurito quel genuino e “vero” filone artistico praticato con sentimento da una ristretta schiera di pittori, che da noi, a partire sostanzialmente dagli anni Settanta, si spinse pressoché allo scadere del secolo, l'esasperazione dei nuovi temi portò ad una nuova “astrazione” della realtà. Venezia, in un modo tutto suo, si preparava ad entrare nell'estetizzante cultura decadente che, nelle isole della laguna, trovò il suo humus ideale. Fu soprattutto attraverso il Verismo realistico, che la città entrò in una prima, nuova e vera dimensione europea. Guardare al vero fino al punto di esasperarlo; cercare la Venezia minore perché sembrava questa la Venezia più vera per coglierla nei suoi aspetti più intimi fino a gettarla, di volta in volta, in una visione sempre più immaginaria e fittizia; ripercorrere l'esempio degli antichi interpretandolo non più con la copia ma, prima, seguendo le teorie liberatorie del Positivismo, che voleva far vedere con gli occhi del vero la realtà di tutti i giorni, e poi nella stessa reazione al “potere” scientifico. L'enorme bagaglio del passato artistico e storico “scoprì” una nuova esaltazione, ben più esasperata della romantica visione di una città della quale non rimanevano <<che ceneri e pianto>>. Ci si distolse dal vero proprio guardando al vero, si trascurarono volutamente le bellezze della città illudendosi  così di liberarsi dal vincolo della tradizione, senza accorgersi che, come rileva acutamente Proust, <<[...]poiché a Venezia sono opere d'arte, cose magnifiche, quelle che si incaricano di fornirci le impressioni famigliari della vita, col pretesto che la Venezia di certi pittori è freddamente estetica nella sua parte più celebre, rappresentarne solamente gli aspetti miserabili, dove scompare quel che ne fa lo splendore, e, per renderla più intima e vera, farla assomigliare ad Aubervilliers, significa falsarne il carattere. Fu il torto di artisti anche grandissimi, per una reazione naturale verso la Venezia fittizia dei cattivi pittori, di essersi rivolti unicamente alla Venezia (che essi stimavano più realistica) degli umili 'campi', dei 'rii' abbandonati>> (3).

  Insomma, l’arte veneta di fine secolo, come d’altronde gran parte dell’arte italiana, riuscì ad andar oltre il Realismo attraverso la sua stessa esasperazione ed esagerazione, tornando a farcirlo con un’ulteriore vena romantica (in fondo costantemente presente in tutto il nostro Ottocento) fino a spingerlo alle soglie, se non dentro, una nuova arte moderna: lo stesso Futurismo di Filippo Tommaso Martinetti, in fondo, con il suo grido di <<uccidiamo il chiaro di luna!>>, non rientrava ancora in un retaggio di natura romantica! 

  Entrare nell'arte moderna per la società veneziana d'allora, e per tanta altra parte d'Italia, significava abbandonare tutto quanto dava senso all'esistenza stessa di un ceto sociale privilegiato, e ciò non era possibile. Ogni cultura ha la sua arte: l'aristocrazia e l'alta borghesia di fine Ottocento non potevano rinunciare alle regole che da sempre avevano governato i loro modi di vita. Il Decadentismo rientrava ancora nella loro logica ed in effetti fu accolto a piene lettere; fu anzi attraverso esso che vennero elusi problemi ed esigenze di una società nuova, ricca di nuovi fervori. La realtà sociale poteva essere evasa nel sogno, sublimata o elusa ma non certo cambiata.

  Spesso, accanto al tradizionalismo di fine Ottocento, si associò una ristrettezza di vedute che impedì un rapido e pieno riconoscimento della rivoluzione artistica che altrove trovò solide basi in una vera e propria rivoluzione sociale. Ma l'Italia, e Venezia soprattutto, non ebbe mai quei profondi ribaltamenti sociali che avevano coinvolto intere nazioni all'estero, decine e decine di anni prima. In termini diversi, ciò che era successo in Inghilterra, Francia o Germania tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo, in Italia si fece sentire in modo incalzante solo alla fine dell'Ottocento. Per tutto il secolo scorso, la nostra nazione dovette cercare di risolvere prevalentemente problemi di assetto interno e di indipendenza nazionale, e solo localmente si trovò ad affrontare esigenze che preludevano ad una società veramente diversa. I primi grandi capovolgimenti di ordine sociale da noi si manifestarono, com'era logico, nelle grandi metropoli industrializzate del nord negli ultimi anni del secolo. Per più di cento anni si mantennero, quindi, praticamente integre quelle divisioni sociali che garantirono la continuazione decisionale ad un’élite di persone la quale ben sapeva a cosa doveva opporsi per conservare i privilegi che da sempre godeva. La ristrettezza di vedute nell'accettare talune soluzioni in campo artistico non fu un limite, perché questa era ben cosciente, voluta e si potrebbe quasi dire, imposta.

  Gli ultimi due decenni del secolo portarono l'Italia a scoprire problemi nuovi e ad allinearsi alla nuova ondata di intensi conflitti politico-sociali che invase allora l'intera Europa. La classe dirigente si sentì minacciata dall'avanzare della nuova e brulicante massa proletaria vista come nel famoso Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Minacciata, la borghesia “aristocratico-intellettuale” si chiuse in una gelosa difesa della propria posizione, opponendosi alle teorie del Positivismo e alla sua fiducia nel potere liberatorio della scienza. Si cercò, pertanto, di fuggire la realtà vagheggiando ora una esasperata ricerca estetica e un raffinato culto del bello, ora un ricorrere al simbolo per esprimere l'"inesprimibile", ora un drammatico confronto tra il dato oggettivo e quello soggettivo, in una dimensione creativa di reazione al Realismo ed in una evasione fantastica, allusiva o magari onirica (non ci si dimentichi che questi sono gli anni in cui Freud scoprì la psicanalisi e che, attraverso Trieste, questa penetrò anche in Italia).

  Ci si immerse in una ricerca estetica estremamente intellettualistica, ricorrendo al simbolo. L'esaltazione di questo, in una artificiosa ed eccentrica concezione mistica della poetica, sfoggiò nel Decadentismo, che attinse a piene mani nella sensazione di tragica inquietudine e senso di solitudine dovuti alla frattura tra artista e società in un morboso e raffinato vagheggiare del disfacimento e della morte.

  In pieno clima simbolico-decadente, l'Italia pian piano s'aggiornò alle più nuove tendenze artistiche europee. Recepì le teorie di William Morris e gli stilemi dell'Art Nouveau, reagì all'eclettismo ottocentesco e osannò un’ansiosa ricerca del nuovo, perseguì moduli espressivi che permettessero di manifestare il fondo inespresso della realtà e aderì alla concezione mistica della poetica, accolse il rigore scientifico della percezione cromatica e si accostò all'universo delle avanguardie storiche e di coloro che ne posero i presupposti.

  Tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, la poetica decadente dilagò in tutt'Italia. Sulla scia del poeta-vate Gabriele D'Annunzio, vero propulsore di gusto e cultura in tutta la penisola, risuonò ovunque il suo mito estetico: <<Bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui>> (4). <<Habere non haberi>>: il consiglio paterno dato ad Andrea Sperelli diventò regola per tanti giovani d'Italia.

  Non strettamente legato al Decadentismo, il primo movimento artistico che affiancò con talune opere la nuova realtà di rottura nell'assetto sociale, fu il Divisionismo che, non a caso, fu lungamente criticato dai contemporanei (5). Una parte di esso, oltre ad esprimersi con una tecnica pittorica del tutto nuova e che non a caso farà da fondamento a tante ricerche figurative d'inizio secolo, s'interessò dei veri problemi sociali che iniziavano a coinvolgere ormai una certa parte d'Italia. Per questo, non ebbe certo il favore dell’allora classe dirigente e, d'altra parte, era logico pensare che mai l'alta borghesia e l’aristocrazia potessero accettare opere come il già citato famoso Quarto stato. Il soggetto di certi dipinti divisionisti minacciava tanto quanto la stessa classe proletaria. I problemi che venivano evidenziati non erano quelli della donnina che chiede l'elemosina ai bordi di una strada, come appariva in tanta altra pittura contemporanea, che si limitava così semplicemente a rilevare quanto da sempre succedeva: per la prima volta si consideravano le esigenze di una nuova classe sociale, chiamata a testimoniare la nuova epoca storica che si affacciava alle porte della nazione. Venezia, sotto taluni aspetti, diventò, non solo dal punto di vista geografico-lagunare, un'isola dove si cercò di combattere, e spesso in prima linea, l'avanzare di una nuova realtà, ma fu sicuramente per un decennio il luogo dove si concentrò, a livello artistico, una delle più accese querelle che il nostro secolo ricordi.

  Venezia si presentava come il punto ideale per opporsi alla dilagante avanzata delle esigenze sollevate da una nuova epoca storica: la laguna rappresentava un cuscinetto sufficiente per poterla isolare dai problemi sociali che coinvolgevano le altre grandi metropoli italiane; la tradizione artistica della città, più che in ogni altro luogo, influenzava, condizionava e vincolava il sorgere di una qual si voglia nuova e pericolosa tendenza artistica (6); il clima di mondanità, che la città viveva e aveva vissuto per tutto il secolo quale centro d'attrazione turistico e balneare (7), nonché meta affascinante di tutti gli artisti e il bel mondo europeo (8), ben calzava con la volontà di mantenere vive tutte le tradizionali necessità di una classe sociale privilegiata. Se la città lagunare ebbe, dal punto di vista artistico, tanta risonanza, fu proprio perché se una reazione al tradizionalismo in Italia doveva sorgere, questa non poteva partire che da Venezia (9).

  Il principale evento che giocò un ruolo fondamentale per tutta la cultura artistica della prima metà del secolo a Venezia fu la creazione dell'Esposizione Internazionale d'Arte. L'inaugurazione della Biennale, nel 1895, in concomitanza con l'ufficiale celebrazione del 25° anniversario di matrimonio tra re Umberto I e la regina Margherita, rappresentò il punto d'arrivo più importante di tutta una serie di precedenti esperienze espositive nazionali (1), <<legate alla formazioni di nuovi musei destinati all'arte moderna>> (11). Le manifestazioni delle prime Biennali, che furono <<uno spettacolo allora incomparabile>> di richiamo mondano <<nella cornice unica della città>>, esercitarono una forte attrazione sui giovani come Zecchin, <<lusingati di poter spaziare in campo internazionale e di far propri gli apporti che venivano di lontano, mentre c'era nell'aria un'attesa di rinnovamento, un anelito diffuso, per i più inspiegabile, non circostanziato e preciso; ma si attendeva la spinta dagli artisti 'ufficiali' dell'epoca, mentre il 'mondo nuovo' doveva apparire attraverso quegli artisti che ebbero il coraggio di rompere la cerchia>> (12)

  Le Esposizioni dei Giardini si rivelarono subito essere, al di là del clima artificiosamente estetizzante, celebrazioni artistiche dalla duplice valenza. Da un lato rappresentarono la finestra aperta sul panorama artistico europeo tanto agognata dall'Italia intera e sulla quale furono immediatamente puntati gli occhi accorti degli intellettuali; e da essa presero spunto molte altre istituzioni che di lì a pochi anni vennero fondate nelle maggiori città della penisola. Dall'altro lato, però, e basta sfogliare i cataloghi dei primi decenni e scorrere l'elenco delle personalità invitate (13) rappresentò la principale istituzione italiana alla quale fu demandato il compito di avallare un indirizzo social-artistico che doveva consolidare la cultura figurativa di una ben determinata classe dirigente.

  La risoluta cernita artistica che le Biennali praticarono, non può, a mio avviso, essere semplicemente considerata un errore di scelta o una ristrettezza di vedute e <<la storia delle prime>> Esposizioni considerata semplicemente <<la storia delle occasioni mancate>> (14): fu un deciso tentativo, ben cosciente, di far sopravvivere una tradizionalismo artistico che era anche l'unico, nelle sue mille sfaccettature, a poter essere acclamato dalla società che allora gestiva, a tutti gli effetti, l'organizzazione del l'Istituzione stessa. Non fu solo la scelta di una cultura che non poteva vedere oltre la propria concezione, ma fu pure una volontà di scelta ben precisa, che impedì di andare al di là di una tradizione che altrimenti avrebbe portato a rinnegare tutti quei valori che costituivano le colonne portanti di un determinato modo di vivere (15).

  Tutto quanto avvenne a Venezia nei primi due decenni del nuovo secolo, dimostra come a scontrarsi furono, sotto i gonfaloni di uno o l'altro artista o gruppo d'artisti, due culture il cui compromesso non era assolutamente facile da raggiungere, perché l'esistenza di una stava agli antipodi dell'esistenza dell'altra: una doveva ritardare quanto più la nascita dell'altra, la quale non sarebbe potuta sorgere se non dalle ceneri della prima.

  Le conseguenze di questa situazione di fervore ed inquietudine artistico-sociale, portarono nel giovane Zecchin quelle incertezze che lo costrinsero a ritardare, di anno in anno, la sua piena dedizione all'arte. Già da bambino fu spinto dai genitori ad abbandonare l'arte del vetro proprio perché‚ questo settore, diventato solo artigianato a seguito di quanto s'è cercato prima di accennare, poco garantiva al figlio agiatezza e tranquillità economica. Anche all'Accademia, Zecchin si sentì probabilmente sopraffatto da tutta una serie di imposizioni che ponevano gli stessi vincoli all'arte che già aveva avuto modo di riscontrare a Murano. L'arte non era libera, ma doveva sottostare ai voleri di una società che ne controllava ogni canale dal quale sarebbe potuta emergere con nuova forza.

  All'Accademia, trionfavano le splendide vedute di Guglielmo Ciardi e del "ciardismo", le enfatiche scene popolane di Ettore Tito e Cesare Laurenti, le struggenti e commoventi invenzioni veristico sentimentali di Luigi Nono e Alessandro Milesi. Di tutto questo Zecchin non s'interessò poi molto, anche se ne fu indubbiamente influenzato, com'era ovvio ed inevitabile. Quell'arte, che sembrava vivere oramai fuori dal tempo, dovette gettarlo in profondo stato di ripensamenti su quello che avrebbe voluto fare come artista e come uomo. Si sentì isolato e con alle spalle una famiglia sempre scontenta della sua scelta. E' per questo forse che, alla fine dell'anno accademico del 1901, al quale risulta iscritto al 3° Speciale Ornato, non si presentò agli esami e abbandonò definitivamente l'Accademia senza mai diplomarsi. La pittura ufficiale non gli dava alternativa se non di fare ciò che tutti, a livelli più o meno elevati, già facevano. Sicuramente più interessante dovette trovare la frequentazione dei musei e soprattutto le periodiche visite alle Esposizioni della Biennale.

  Delle opere che Zecchin eseguì durante gli studi all'Accademia, non si sa nulla o quasi. E' facile supporre che dovettero essere una serie di prove dove la sua attenzione era rivolta, più che ad un preciso orientamento stilistico, ad una volontà di apprendimento tecnico dell'arte del dipingere o di lavorare con altro materiale. Opere che probabilmente rientravano nel gusto didattico che i suoi maestri dalla cattedra divulgavano.

  Ma quel che più importa, era sottolineare l'ambiente e la cultura artistica della Venezia di quegli anni, la città che fu la culla di Zecchin e di tutti gli altri artisti che saranno, per naturale reazione al tradizionalismo ufficiale, tra gli antesignani dell'arte italiana moderna: una Venezia dove l'arte fu spinta ad una idealizzazione sia del "vero" che, per paradosso, attraverso le cernite dei Giardini, del "simbolo" stesso; una Venezia che dal 1895 si vide immersa in una realtà europea, se pur manipolata, e per la prima volta si sentì uscire dai rii della provincia con la possibilità di gettarsi e far propria una dimensione artistica internazionale.

 

Note

1 - CAMILLO BOITO, La pittura d'oggi a Venezia, agosto 1871.

2 - CAMILLO BOITO, in Nuova Antologia, 1874.

3 - MARCEL PROUST, La fuggitiva, 1925.

4 - GABRIELE D'ANNUNZIO, Il piacere, 1989.

5 - Il Divisionismo non fu in fondo un vero e proprio movimento artistico unitario: i suoi artisti si conoscevano tra loro forse più per nome che per vera amicizia o comunanza di idee. Fu una reazione artistica che sorse spontanea e praticamente del tutto autonoma dal contemporaneo Pointillisme francese che, maturato su basi tanto diverse, se pure le fonti furono spesso le stesse, anche a Parigi, tolta una ristrettissima cerchia di intimi, iniziò ad essere visto solo dai primi anni del Novecento (da una conferenza tenuta sul Divisionismo -La fortuna critica del Divisionismo e i suoi protagonisti-

dalla dottoressa Annie Paule Quinsac nel giugno del 1990, a Palazzo delle Albere di Trento).

6 -  <<[...]l'arte veneziana vecchia è più pericolosa della romana, della fiorentina, della lombarda, di quella delle altre scuole italiane, perché è più sensuale. In faccia ai quadri veneti[...] si resta semplicemente adescati[...] L'artista e l'ignorante si lasciano sedurre nell'istesso modo dalle lusinghe di codest'arte sirena>> (CAMILLO BOITO, in Nuova Antologia, 1871).

7 - Il Lido di Venezia ebbe soprattutto tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, grazie alle scelte politiche esercitate dal sindaco Filippo Grimani, il suo momento di maggior successo europeo, che fu una vera e propria "esplosione mondana" (GIANDOMENICO ROMANELLI, Venezia nell'Ottocento, in Venezia nell'Ottocento, Milano 1983).

8 - Per tutto l'Ottocento Venezia fu meta agognata e tappa fondamentale del "viaggio in Italia" di artisti e celebrità giunte da ogni parte del mondo.

9 - Gli stessi Futuristi infatti, corroborati dalla retorica di Filippo Tommaso Marinetti, scelsero Venezia e la sua Torre dell'Orologio (dalla quale, il 27 aprile del 1910, gettarono il famoso proclama contro la “Venezia passatista") per dare inizio alla loro "incendiaria" polemica. <<Quando gridammo: 'uccidiamo il chiaro di luna!' noi pensavamo a te, vecchia Venezia fradicia di romanticismo... Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che pure noi amammo e possedemmo in gran sogno nostalgico[...] Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, ed innalziamo fino al cielo l'imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo; per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture. Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata!>> (FILIPPO TOMMASO MARINETTI, Discorso contro i veneziani, 1910).

10 - La prima idea di costituire a Venezia un'istituzione espositiva a carattere biennale, nacque nelle  salette del Caffè Florian grazie soprattutto a tre personaggi, che ne lanciarono la proposta: Riccardo Selvatico, poeta e letterato nonché‚ sindaco della città; Antonio Fradeletto, accademico dalle rilevanti capacità organizzative; Giovanni Bordiga, filosofo con propensioni politiche. I tre ebbero ben presto l'appoggio di un altro illustre personaggio, il futuro sindaco Filippo Grimani. L'esperienza che aveva suggerito l'idea, fu l'Esposizione nazionale di pittura e scultura tenuta in città nel 1887. Così, il 19 aprile 1893, in una seduta del Consiglio comunale, il sindaco Selvatico presentò la delibera con la quale si stanziava una somma annua destinata per <<[...]istituire una Esposizione biennale artistica nazionale, da inaugurarsi il 22 aprile 1894, assegnando il premio di diecimila lire alla migliore e degna opera d'arte esposta, premio da intitolarsi del Comune di Venezia a ricordo delle Nozze d'argento delle LL.MM. Umberto e Margherita>>. Non venne rispettata la scadenza e fu grazie al pittore Bartolomeo Bezzi che, su suo insistente suggerimento, fu deciso che la mostra avesse un carattere non nazionale ma internazionale e il regolamento ricalcasse quello dell'allora famosa Secessione di Monaco. Nella riunione del 30 marzo 1894, il Consiglio comunale deliberò l'internazionalità dell'istituenda Esposizione e di rinviarne l'inaugurazione al 30 aprile 1895, data dalla quale si fa normalmente iniziare la vita dell'Ente (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982).

11 - GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965.

12 - GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965.

13 - <<La Biennale nasceva[...] vecchia>> (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982).

14 - PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982.

15 - Così, ben poteva passare lo scandalo del quadro "maledetto" di Giacomo Grosso, anzi diventare addirittura un affare lucroso portandolo in tournée per il mondo; certo bastava che lo scandalo restasse tra il fumo dei salotti (e l'opera sicuramente non fu dipinta per altri scopi), chiacchierato pure da tutti ma sotto la veste decisamente solo mondana.

  

Le influenze secessioniste e orientaleggianti, le prime opere di Zecchin 

<<Rapiti da un'angoscia sublime,

nel metallo del feretro vedevano

riflettersi i loro volti fraterni>>.

(G. D'Annunzio, Il fuoco)

   Abbandonata, nel 1901, l'Accademia di Belle Arti, Vittorio Zecchin, spinto probabilmente anche dalla famiglia, per alcuni mesi trovò lavoro come impiegato al Comune di Murano, che allora era municipio indipendente da Venezia. Gli anni che seguirono gli studi accademici furono un periodo, se pur breve, durante il quale Zecchin trascurò la sua vocazione artistica dedicandosi alla ricerca di un lavoro come tanti altri, che gli permettesse di vivere. Dopo l'impiego al Comune, dove probabilmente non si trovò a suo agio, lavorò per qualche anno in una delle tante officine vetrarie dell'isola.

  E' questo un ritorno al vetro non così voluto o desiderato da diventare una vera esperienza artistica nel settore. Resta indubbio, però, che in quegli anni egli si sentì per la prima volta personalmente coinvolto in una realtà artigianale che ora poteva valutare dall'interno. Imparò, da garzone, le cose elementari dell'arte del vetro: quelle di cui da sempre aveva sentito parlare e che ora provava direttamente. Fu forse un momento di riflessione, durante il quale poté cogliere le vaste possibilità espressive del settore e al medesimo tempo quelli che erano i vincoli in cui lo stesso, da anni, ristagnava.

  Raggiunta una certa stabilità nel lavoro, riprese a dipingere ed eseguì, nel 1903, il suo Autoritratto (Tav. 2a), l'opera con la quale si fa generalmente partire la sua attività artistica. Lo splendido ritratto, volutamente abbozzato e non concluso, risente ancora della contemporanea pittura lagunare, anche se, per talune soluzioni, non mi sembra azzardato affermare che il dipinto pare essere poco "veneziano". Non si legge infatti un colore o un modo di fare in genere strettamente legato ad uno dei maestri di fine Ottocento operanti in città. Forse alcuni sottili legami possono essere fatti con la ritrattistica di Giacomo Favretto, ma l'opera appare già immersa in una visione artistica diversa, più nuova. Solo la luce, che colpendo da destra e illuminando metà del volto, ricorda certi bagliori limpidi e freschi che si scorgono nelle parti in sole di alcune opere di Guglielmo Ciardi, è forse il risultato delle ore di lezione sul paesaggio seguite all'Accademia. Ma la luce stessa, in fondo, si mostra già più vicina, magari perché la fonte è la medesima, a certi modi di fare che saranno proprie, ad esempio, di un artista, più giovane di Zecchin, come Guido Cadorin. Per il resto, e guardando soprattutto le soluzioni di un certo schematismo con cui sono trattate le forme, il dipinto

ha un sapore che sa di secessionismo, di un secessionismo non tanto austriaco ancora, al quale si accosterà solo successivamente, ma piuttosto tedesco. Nel concepire l'autoritratto, forse Zecchin s'è fatto influenzare dalle opere, e diverse di queste erano di pittori di gusto mitteleuropeo, viste alla Biennale di quell'anno, esposte alla Mostra Internazionale del Ritratto Moderno, e dai dipinti presentati nelle sale dedicate alla Mostra personale di Arnold Böcklin.

  Libero quindi, fin dalle primissime opere, dai virtuosismi pittorici veneziani di fine secolo, Zecchin si accostò così a quella che era in fondo la tendenza dominante di un certo tipo di cultura lagunare, quella, se si vuole, più internazionale e che le prime Biennali stesse portarono avanti. L'apertura europea, infatti, che la città aveva operato con le Esposizioni dei Giardini aveva seguito, come lo stesso Bartolomeo Bezzi aveva suggerito prima ancora della creazione dell'Istituzione (1), più l'indirizzo della Germania e di Vienna, che quello parigino. Artisti come Cesare Laurenti, Ettore Tito o Marius De Maria, ma in seguito, oltre al nostro, Teodoro Wolf Ferrari, Guido Cadorin o Felice Casorati, avevano prestato particolari attenzioni all'arte secessionista di stampo mitteleuropeo. E ben più numerose erano alla Biennale le presenze degli artisti stranieri che, in qualche modo, erano i portavoce di questa tendenza d'avanguardia rispetto a quelle degli artisti dell'altra vera capitale dell'arte mondiale, Parigi (2).

  L'autoritratto del 1903 rappresenta una chiave di lettura fondamentale per quelle che furono le sue prime esperienze artistiche. Con esso, infatti, Zecchin mostrò di sentire il fascino di un'arte più moderna e di saper recepire validi spunti dalle opere che venivano esposte ai Giardini. Preparò le basi sulle quali innalzerà poi le sue cattedrali pittoriche. Accostandosi alla pittura di gusto secessionista, oltre a trovare una via per uscire dal tradizionalismo conosciuto all'Accademia, fece proprio un genere artistico dalle molteplici sfumature: un genere artistico dove si conciliava una sorta di evasione dalla realtà verso il mondo del simbolo con una pittura disposta ad accostarsi agli stilemi di un pacato e raffinato gusto orientaleggiante.

  Questo dipinto è, per un lato, ancora legato alla ritrattistica di stampo realistico; ma dall'altro mostra alcune soluzioni che vanno oltre il tradizionale Realismo. L'impostazione stessa della figura, vista di fronte, è libera da ogni sorta di ricerca compositiva che ne sforzi soluzioni enfatiche per esprimere un sentimento o uno stato d'animo; allo stesso tempo non è tralasciata un'indagine psicologica. La frontalità, esalta l'inquietudine interiore della figura, che trova, proprio nella composizione estremamente equilibrata e bilanciata dal punto di vista costruttivo, in contrasto col modo con cui viene trattata la luce, le sue note più alte ed originali. La grande chiazza di color bianco della veste, si stacca con forza dallo sfondo scuro e immerge il dipinto in una atmosfera già in un certo senso simboleggiante. Il volto, coronato dalla chioma che sfuma e si confonde con le pennellate della superficie sottostante, trovando un parziale equilibrio con la ricca e schematica barba, emerge con forza icastica dalla tela. La luce, che inonda con ampie e violente campiture di colore chiaro, modellate pure queste con un elegante rigore schematico, la parte destra del volto, sottolinea l'attenzione posta allo sguardo degli occhi, che diviene il vero fulcro attorno al quale tutta gira l'opera. Il rapporto tra effigiato e spettatore è diretto ma distaccato; l'opera appare a primo acchito di efficacia realistica, tuttavia ad un successivo esame affiora lo studio meditato che distacca la persona ritratta dalla realtà e la getta in un universo psicologico impenetrabile. Non vi è nessun richiamo al simbolo o ad una vera evasione in un mondo artificioso; si legge solo il silenzioso suggerire una dimensione esistenziale particolare che prelude, per certi versi, alla ricerca onirica, fiabesca delle successive opere.

  Lo stesso il ritratto femminile (Tav. 2b) dipinto sul verso di questa tela, e ascrivibile allo stesso anno, evidenzia la volontà d'accostarsi ad una pittura più internazionale. Pure esso costruito su di una composizione studiata, nonostante la rotondità paffutella che ha sicuramente sapore veneziano (a ben guardarlo, richiama alla mente addirittura certe incipriature settecentesche), appare ad un tempo ormai, in un certo senso, distaccato da quei modi di fare che erano propri di certi pittori della generazione precedente.

  Un'altra opera, di un momento poco più tardo, mostra soluzioni simili ottenute attraverso una via che può sembrare poco conciliabile con l'autoritratto visto. Con la caricatura, nel dipinto Le furberie de sior Lunario (Tav. 8), Zecchin attua un distacco analogo a quello appena visto dalla cultura veneziana del momento. Se prima s'era servito di spunti tratti da un'arte di stampo secessionista, nel piccolo dipinto, tutto giocato a veloci pennellate stese decise sulla tavola, il distacco dalla realtà avviene per mezzo della distorsione, della deformazione caricaturale. La necessità per Zecchin era trovare una dimensione creativa diversa, di reazione sotto certi aspetti. La prerogativa allusiva della caricatura, ricca di un ironico sarcasmo del tutto giocoso e bonario nelle sue opere, gli permise di intraprendere un allontanamento dal reale partendo proprio dal reale.

  In quest'opera come, e soprattutto, nelle splendide caricature in collezione Costantini a Murano, le quali sono probabilmente da anticipare di qualche anno nella datazione, la ricerca espressiva si serve dell'analisi ironico-critica per poter entrare in un campo in un certo senso più libero, dove l'artista può dar sfogo alla propria creatività senza dover sottostare a particolari costrizioni figurative. Libero da questi vincoli, la mano dell'artista si può sbizzarrire, con un vero e proprio senso del divertimento, in ricerche compositive originali ed allusive. La linea si esibisce in eleganti e raffinate sinuosità di sapore spesso già Liberty, e il colore in contrasti cromatici armoniosi che preludono alle successive opere di carattere simbolista.

  E' interessante a questo punto, più che fare un riferimento alle stupende caricature settecentesche di Anton Maria Zanetti, richiamare alcune opere dello stesso genere che il più giovane Arturo Martini, all'incirca negli stessi anni, andava realizzando. Certo, l'animo inquieto e ribelle permise al giovane scultore trevigiano d'intraprendere una ricerca espressiva ben più incisiva di quella del nostro, con risultati sicuramente tanto più originali. In un certo senso, però, pur partendo da basi culturali diverse, anche a Martini la caricatura servì ad aiutare la rottura nei confronti di una visione artistica sorpassata, che aveva un valore ormai solo didattico, preparandolo gradualmente a recepire spunti tra i più vari e a maturare una propria originalità creativa. Le soluzioni figurative di Martini, in ogni caso, sono ben lontane da quelle di Zecchin, anche se talvolta si possono ravvisare alcune vicinanze, che rimangono però solo esteriori. Più simile è invece proprio il processo mediante il quale i due artisti si avvicinano ad esperienze comuni sviluppando percorsi artistici profondamente diversi.

  Accanto al genere di opere fin qui visto, Zecchin produsse anche tutta una serie di piccoli quadretti sicuramente più legati alla tradizione pittorica veneta (Tavv. 4 - 7). Sono piccoli dipinti, eseguiti tra il 1903 e il 1907, il cui soggetto rientra pienamente nel gusto fine ottocentesco di riesumare scenette di vita a carattere settecentesco, con donnine e personaggi in ampie vesti e dalla chioma folta immersi in paesaggi, che è poi uno dei modi in cui viene spesso risolto un certo tipo di Liberty a Venezia (3). Opere sicuramente minori, le quali rivelano però due aspetti interessanti: il primo, è proprio come viene risolto il paesaggio o lo sfondo che, pur essendo spesso un po' ingenuo, immerge le figure in una atmosfera da sogno e sotto certi aspetti simbolista, tanto da ricordare artisti come Gustave Moreau e Odilon  Redon, diventando così forse il legame più diretto con le sue successive opere pittoriche; il secondo aspetto interessante, è l'uso di una tecnica pittorica dal tocco rapido e veloce, eseguita con un mescolarsi di colori fiammeggianti che, sfumando e sfocando i contorni delle figure e del paesaggio, creano particolari effetti coloristici che, non sempre accompagnati di una adeguata qualità esecutiva, fanno pensare che Zecchin guardasse ad opere decisamente diverse da quelle che generalmente si considerano le fonti dalle quali egli attinse. L'uso stesso di questo modo di dipingere, allude al sogno, e i richiami che possono venire alla mente, oltre al svolazzante "fa presto" della pittura veneziana di fine secolo, che dagli splendidi tocchi di Favretto si spinse sino alle romantiche composizioni di una Emma Ciardi, ad esempio, o agli influssi scapigliati che giungevano in città anche attraverso una pittura già diversa, come quella di un Mancini, sono certe soluzioni di influenza impressionista. A Venezia, all'inizio del secolo, dovevano sicuramente essere attive, e forse non solo attraverso la Biennale (con la quale si dovrà attendere Vittorio Pica affinché l’arte francese approdi veramente n città), influenze di stampo impressionista. Se infatti queste opere di Zecchin rivelano dei punti di contatto, pur solo esteriori, con i modi di trattare il colore di un Renoir (4) o, più ancora, di un Bonnard, altri giovani artisti, e pure artisti della generazione precedente, in questi stessi anni si mostrano influenzati dagli artisti dell'oltralpe francese. Basta ricordare, ad esempio, alcune piccole vedute di Venezia che Umberto Moggioli dipinse tra il 1907 e il 1909: sembra quasi che il giovane artista trentino, sicuramente uno dei più dotati pittoricamente tra tutti gli artisti del momento, possa aver visto direttamente già da allora le opere di Claude Monet (5) o di Paul Signac.

  Vittorio Zecchin, quindi, appare, in questi primi anni di attività artistica, pronto a recepire spunti culturali tra i più diversi senza, in fondo, perdere una sua coerenza di base.

  Un ulteriore incontro fondamentale per la sua arte, fu quello con le opere di Gustav Klimt alla Biennale del 1910. Ma prima del 1910, un'altro incontro lo aiutò a maturare un linguaggio artistico personale che lo porterà a recepire l'influenza klimtiana in modo particolare e non da semplice epigono. La Biennale del 1905 segnò per Zecchin quello che fu forse il suo primo contatto con un genere d'arte veramente consono al suo spirito di sognatore muranese. Ai Giardini furono esposti, nelle sale olandesi, quattro dipinti e diversi disegni ed incisioni di Jan Toorop. Il pittore dal mistico esotismo fu, come annota Vittorio Pica nella presentazione alla mostra del 1923 a Milano (6), una vera rivelazione.

  L'attività artistica del nostro fu fino a questo momento quasi solo amatoriale; ovvero dopo la delusione dell'esperienza accademica, Zecchin per qualche anno sembrò rinunciare al fulgido sogno dell'arte e le sue prove pittoriche, significanti per capire la sua successiva evoluzione, rimasero episodi marginali. La sua vocazione artistica non gli impedì, in ogni caso, di frequentare musei e mostre e, come visto, dall'elaborarne influenze e spunti di diversa origine. E si diceva che fu all'Esposizione dei Giardini del 1905 che si deve far risalire uno dei momento fondamentali nelle sue scelte artistiche: quando, cioè, si trovò ad ammirare e a sognare davanti alle opere di Toorop. L'incontro, risvegliò in lui la volontà di dedicarsi nuovamente all’arte, di riprovare a fare dell'arte il proprio lavoro e la propria vita. Le tele, i disegni, le incisioni del geniale pittore dal mistico simbolismo, suscitarono nel nostro gli stimoli che da tempo andava ormai cercando e che trovò a volte, senza mai però tanta seduzione.

  <<Jan Toorop, oriundo dell'isola di Giava nelle Indie Olandesi, aveva tutte le qualità per accendere la fantasia di Zecchin: era nato in Oriente e attraverso l'impressionismo fiammingo di Ensor e l'astrazione di Seurat aveva trovato la via al simbolismo letterario che si accosta alla poesia di Maeterlinck e di Verhaeren>> (7). La visione delle opere dell'artista giavanese, aiutò Zecchin a focalizzare il percorso artistico che avrebbe intrapreso. Riscoprì, in una chiave nuova, il gusto orientaleggiante delle città e della sua isola, da sempre legate ad una cultura che vede l'Oriente mescolarsi all'Occidente fin nelle sculture e nei  mosaici delle  chiese di Murano, fin nei colori accesi delle tavole dei Vivarini. Entrò nell'atmosfera di un sogno mistico rimasto sino ad ora latente.

  Da questo, momento i suoi tentativi pittorici, che lo porteranno alle tele presentate alla sua prima partecipazione capesarina, assunsero un sapore dove <<sono palesi le correnti spiritualistiche che avevano fatto da ponte tra il realismo dell'Ottocento e il simbolismo più intimista, di ispirazione romantica e mistica: c'era già l'avvio a quella astrazione e a quell'impennata verso nuove strade che indirizzò nella stessa via alcuni dei giovani più sensibili maturatisi a Ca' Pesaro[...] Nelle sale della Biennale erano passati dai preraffaelliti inglesi a Gustavo Moreau a Whistler a Odilon Redon fino alle nuove esperienze della pittura giapponese [8] e giavanese; dall'afflato lirico ed angelicato di Burne-Jones, commissario per la Gran Bretagna, alla stilizzazione lineare tipica dell'Art Nouveau>> (9).

  L'ondulata sinuosità della linea nei lavori di Jan Toorop, e in modo particolare di un'opera come Le tre spose, che influenzerà alcune tele di soggetto religioso portate alle prime esposizione di Ca' Pesaro, fu la vera tentazione che sedusse Zecchin. Finalmente aveva trovato un linguaggio artistico che ben poteva conciliare l'attrazione del sogno orientale (che caratterizzò l'intera epoca) con il suo modo di vedere e sentire l'esotismo, ovvero attraverso la millenaria tradizione delle sua città e in modo particolare della sua isola. Le soluzioni suggerite dal pittore olandese, si prestavano ad una lettura che poteva essere accostata alle opere che da sempre avevano incantato e acceso la sua fantasia: le patere, le vetrate, i mosaici tante volte ammirati nelle chiese di San Pietro e di San Donato a Murano, trovavano un loro senso nella sinuosità delle linee armoniche dalle esasperate ondulazioni serpentine delle composizioni dell'artista giavanese. Una linea che poteva contornare e coronare soluzioni cromatiche accese e che, per quanto possa sembrare poco riscontrabile, mostrava assonanze ed incisività paragonabili al disegno nelle opere dei Vivarini: pittori di Murano dei quali Zecchin, da sempre, fu un entusiasta ammiratore e, guardando i suoi disegni anche dei momenti di maggior maturità, abile "imitatore". Ancora, Toorop rappresentò agli occhi di Zecchin quel punto fondamentale di passaggio tra le influenze secessioniste, di cui pure sentì, e  continuerà a sentirne, il fascino, e un universo dove il simbolo era inteso come mezzo di evasione in una artificiosità che verteva più verso una dimensione onirica ed immaginaria del mondo oggettivo, che verso una sensuale ed inquieta, sofferta fuga nella scoperta delle travagliate sensazioni emotive interiori.

  Zecchin venna così ad attuare nelle sue opere una progressiva stilizzazione della forma attraverso una linea che racchiude colori, caratterizzati sempre d'un loro calore e d'una loro trasparenza vitrea, inventando composizioni che sono sì debitrici nei confronti di una cultura che giungeva dall'esterno, ma che egli sa far propria e sa proporre e sviluppare in una città che come Venezia continuava ufficialmente ad accettare solo un tardo Realismo ottocentesco, trascinatosi ancora fiero nel nuovo secolo.

  Il merito di Zecchin, anche quando subirà l'influenza di Klimt, fu quello d'aver saputo uscire dalle pastoie di una cultura anacronistica oramai anche per la stessa Venezia e cercare, per una via suggerita ma che sa adattare al contesto artistico lagunare, d'entrare in una concezione artistica più moderna e, nel suo genere in questi primi anni, praticamente unica in città, che lo condurrà con grande coscienza critica alle arti applicate.

 

Note

1 - Vedere nota 10 a p. 38.

2 - <<Il gusto accademico era più rivolto a Vienna e Monaco che a Parigi. Questa è la ragione per cui gli impressionisti tardarono clamorosamente il loro ingresso... In confronto, alcuni artisti dell'area espressionistica mitteleuropea furono più precoci nella loro apparizione alle Biennali[...] Ma va tenuto conto che a Venezia il gusto era sempre stato rivolto, anche per ovvie ragioni politiche, verso l'ambiente secessionistico>>. (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982).

3 - E si pensi solo alle figurine e alle maschere, tanto raffinate quanto alla moda, di un artista come Umberto Brunelleschi che, se pur non veneziano, molti contatti ha avuto con la città.

4 - Alla Biennale del 1903, Auguste Renoir, assieme ad altri Impressionisti, fu presente con qualche rara opera.

5 - Claude Monet fu in effetti a Venezia, e per la prima volta tra la fine del settembre 1908 e il mese di dicembre dello stesso anno, dipingendo 29 dipinti di soggetto veneziano.

6 - L'Arte Decorativa Moderna - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di VITTORIO PICA, Galleria Pesaro, Milano, 1923.

7 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Venezia, Palazzo Pesaro, aprile-maggio 1981, Milano, 1981.

8 - Nel dal 1897 la Biennale propose una "Mostra d'arte antica giapponese".

9 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Venezia, Palazzo Pesaro, aprile-maggio 1981, Milano, 1981.

 

 Gli anni di Ca' Pesaro 

 <<Tutta l'arte è allo stesso tempo simbolo e

 superficie, chi scende al di sotto della

superficie lo fa a proprio rischio e pericolo>>.

(O. Wilde, Il ritratto di Dorian Gray)

   Il periodo compreso tra gli anni delle prime mostre di Palazzo Pesaro e quelli immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, segnò un momento di fondamentale importanza per la cultura artistica lagunare. Venezia, per un decennio circa, assunse un ruolo di primissimo piano per l'arte italiana, diventando uno dei centri più fervidi della cultura d'avanguardia nazionale e attirando su di sé l'attenzione di quanti allora auspicavano un allineamento della nostra arte alle tendenze più moderne del panorama artistico internazionale.

  Il polo istituzionale attorno al quale gravava tutto quanto successe in città in quegli anni fu l'Esposizione Internazionale dei Giardini. La Biennale presentava diverse e molteplici sfaccettature da costituire l'humus ideale per il generarsi e il moltiplicarsi di nuove tendenze artistiche saldamente abbarbicate nel nuovo secolo. Come già s'è detto, le Esposizioni, attirando a loro artisti e mondanità giungenti un po' da tutta Europa (1), rappresentavano l'avamposto di tutta la cultura di una società tradizionalista di stampo ottocentesco che voleva mantenere integre le proprie esigenze e divenne, proprio per questo nel giro di breve tempo, la naturale istituzione a cui le nuove tendenze d'avanguardia, veneziane innanzitutto ma anche italiane, dovevano reagire e, di conseguenza, contestare. In città, prima della guerra, solo polemizzando con la Biennale e sperando in un cambiamento delle sue scelte artistiche (cambiamento che, sottolineo, avrebbe significato per la classe dirigente d'allora l'accettare o, per lo meno, l'adeguarsi ad una nuova realtà culturale e di vita), la nuova generazione poteva sperare d'esprimersi liberamente. Ed era alla Biennale che i giovani, nonostante la polemizzata "chiusura", potevano ammirare spesso importanti capolavori e, in ogni caso, sentire l'ondata delle nuove tendenze d'avanguardia europee. L'Esposizione dei Giardini rimaneva, inoltre, pur sempre il luogo più ambito dove poter raggiungere il tanto desiderato riconoscimento sociale e rappresentava quindi una meta indispensabile da raggiungere.

  Alla vigilia del centenario della Biennale veneziana, bisogna riconoscere che uno dei suoi più alti meriti fu permettere l'esistenza, non formalmente ma come fucina d'arte moderna, di Ca' Pesaro, ovvero quella che a mio avviso può essere fondatamente ritenuta l'altra parte della Biennale stessa. Non c'è dubbio che Ca' Pesaro e i suoi artisti, senza il continuo paragonarsi e distaccarsi da ciò che i Giardini rappresentavano, non sarebbero potuti essere ciò che sono stati e, se ancora oggi quei giovani antesignani dell'arte italiana sono sovente troppo spesso trascurati dalla vasta critica, ciò è dovuto alla mancanza di un ufficiale riconoscimento del profondo legame, pur sofferto, esistito tra le due istituzioni cittadine. E' da sperare che la Biennale del 1995 riesca a sottolineare con sufficiente chiarezza quanto avvenne in quegli anni di cultura artistica italiana a Venezia.

  Il 31 gennaio del 1899 si spense l'illustre Felicita Bevilacqua La Masa. L'accorta duchessa lasciò per testamento, redatto l'anno prima, al comune di Venezia la poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto che ivi vi si tenessero <<esposizioni permanenti di arte ed industrie veneziane. [...]specie per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciuti e sfiduciati non hanno i mezzi da farsi avanti e sono sovente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli ed incettatori che sono i loro vampiri>> (2). Altre clausole del testamento prevedevano la trasformazione in studi e ricoveri, per quei <<giovani artisti>>, di una parte del palazzo e di un'altra parte da destinarsi ad essere affittata allo scopo di garantire un reddito per il funzionamento dell'"Opera".

  La "Fondazione Bevilacqua La Masa", esistente sulla carta sin dal 1905 (3), dovette attendere il concorso per direttore della Galleria Internazionale d'Arte Moderna (4), che prevedeva anche la funzione di segretario dell'"Opera", per avere un ordinatore ed iniziare a tutti gli effetti la propria attività (5). Vincitore del concorso indetto fu il Giovane ferrarese Nino Barbantini, allora ventitreenne, il quale capì subito l'opportunità che gli si offriva di dare inizio ad una intensa attività artistica giovanile.

  Come la Biennale (6), anche la Fondazione Bevilacqua La Masa (7) e la Galleria Internazionale d'Arte Moderna (8), sottostavano alle decisioni direzionali del comune di Venezia (9). Le Esposizioni palatine furono sempre condizionate, e uno dei grandi meriti di Barbantini fu quindi l'aver saputo portar avanti idee artistiche moderne riuscendo a mediare continuamente tra quelle che erano le esigenze di Ca' Pesaro e quelle che invece erano le esigenze comunali, che a livello artistico si risolvevano quasi sempre con i voleri di Fradeletto (10), segretario sino al 1920 della Biennale. L'intento iniziale fu quello di fare della Fondazione un organismo legato all'Istituzione artistica principale dove, alla fin fine, potevano ripiegare ad esporre quei giovani che, anche per vere e proprie esigenze di spazio (11), non erano accolti ai Giardini (12).

  Persona estremamente attiva, sin dal 1908 Nino Barbantini riuscì ad allestire le prime due mostre, delle quali purtroppo non esistono cataloghi.  <<Con una mossa abile e intelligente, Barbantini aveva fatto “invitare” anche artisti allora già molto noti come Guglielmo Ciardi, Pietro Fragiacomo, Cesare Laurenti, Alessandro Milesi e altri. [...]si preoccupava perciò di pubblicizzare le mostre di Ca' Pesaro>> (13).

  In una Venezia dove l'arte contemporanea d'allora era per il grande pubblico quasi esclusivamente l'Esposizione dei Giardini, uno dei primi problemi da risolvere fu far conoscere le mostre palatine (14). Per i giovani artisti, al contrario, Ca' Pesaro apparve subito come una possibilità insperata d'esporre i propri lavori e quindi un'iniziativa di cui vennero subito a conoscenza (15). Alle prime mostre del 1908, non furono molti i giovani della nuova generazione ad esporre, ma ce ne furono, e per alcuni addirittura ne fu negato l'accesso (16). Vittorio Zecchin quell'anno non inviò alcuna opera, ma conosceva già l'iniziativa di Ca' Pesaro. I legami con i colleghi conosciuti durante gli studi all'Accademia non furono mai recisi. Era con alcuni di loro che usava frequentare le esposizioni dei Giardini e con loro sicuramente vide la mostra palatina del 1908.

  Le prime due mostre tenute a Ca' Pesaro, non ebbero nulla di particolare da poter disturbare la Biennale di Antonio Fradeletto (17): se pur la nascita della nuova Fondazione artistica non fu vista, si dall'inizio, di buon occhio (18), le sue prime due mostre sembrarono avallare le scelte artistiche dell'istituzione maggiore e corroborarne, anzi, la presa di posizione tradizionalista. Furono le mostre del 1909 a portare le prime vere ventate di gioventù nelle sale del palazzo sul Canal Grande, iniziando a contrastare la chiusura artistica dei Giardini. L'attenzione di tutti comunque, quell'anno, era rivolta all'VIII Esposizione Internazionale d'Arte. Scrisse Ardengo Soffici, il "toscano maledetto", come era soprannominato a Venezia: <<Monet, Degas, Cézanne, Toulouse-Lautrec, sono questi i pittori e gli scultori che il signor Fradeletto avrebbe dovuto supplicare con le mani in croce per indurli a mostrare nella sua Venezia che cosa vuol dire arte moderna e quali siano le aspirazioni e le espressioni dell'anima occidentale rinnovellata>> (19). La Biennale fu dunque deludente e, a contrario, la foga giovanile che regnava nelle sale di Ca' Pesaro suscitò subito gran clamore e speranze (20) anche fuori della stessa città. La querelle tra le due istituzioni, che assunsero toni sempre più polemizzanti e accesi negli anni successivi, era così ufficialmente iniziata.

  Una caratteristica, a mio avviso, di importanza fondamentale per Ca' Pesaro, evidenziata sin dalle prime esposizioni, fu che nelle sue sale accolse un gruppo di giovani artisti i quali non furono mai un movimento artistico. Era la conseguenza più logica per un'istituzione sorta con l'esplicita volontà di ospitare quei giovani <<sconosciuti e sfiduciati che non hanno i mezzi da farsi avanti>>. Questo ebbe il significato di una vera e propria apertura ad una visione artistica più moderna: le mostre palatine furono la culla delle più diverse tendenze e manifestazioni figurative, le quali trovarono un corroboramento reciproco sorretto principalmente dalla giovanile foga di far arte innovativa. Nel decennio che rese glorioso il nome della Fondazione, artisti dalla formazione, dalla tempra e dagli esiti differenti si trovarono ad operare uno affianco all'altro, accomunati dall'esigenza di rompere definitivamente con la tradizione provinciale in cui, a Venezia in modo particolare, si era immersi. Fu una vera fucina che sfoggiò, e per la quale passarono, alcuni tra coloro che saranno gli artisti più significativi della prima metà del nostro secolo. Le porte di Ca' Pesaro, non rappresentando un unico movimento artistico, non vennero mai chiuse alle nuove tendenze artistiche che andavano maturando nell'Italia intera. Ca' Pesaro assunse il ruolo di palestra dove i giovani artisti poterono esercitarsi, nei loro primi anni di attività, per poi proseguire autonomamente la loro ricerca espressiva. Anche in tutto questo devono essere ravvisate, in parte, le cause della “diaspora" che seguì la fine della Prima Guerra Mondiale, quando vennero a mancare le motivazioni basilari che sussistevano prima dell'evento bellico.

  Le mostre di Ca' Pesaro del 1909, per le quali, come l'anno precedente, non esistono dei veri e propri cataloghi, furono tre. La partecipazione che suscitò maggior interesse, assieme a quella di Umberto Poggioli (21), fu quella, come ricorda Gino Damerini (22), di Ugo Valeri (23), artista  che, in qualche modo, era riuscito ad esporre, negli anni precedenti, anche alla Biennale. Vittorio Zecchin partecipò sin dalla prima mostra di primavera di quell'anno. Delle opere esposte, però, non si sa nulla: dai documenti risulta solo il suo nome tra la lista dei partecipanti. Alla mostra d'estate si presentò con quattro dipinti ad olio: Visioni, Le vergini del fuoco, Impressione e Angelicus. Alla mostra d'autunno, espose Libellule, Le vergini degli alberi, Pavoni, Silenzio e un bozzetto. Purtroppo, non sono riuscito a rintracciare alcuna di queste opere. E' comunque da supporre che questi primi dipinti delineassero una personalità artistica già definita in Zecchin. Le influenze della pittura di Toorop, come pure nelle opere che presenterà l'anno successivo (24), dovettero essere palesi. E' interessante notare, in ogni caso, come le sue opere, pur non avendo forse una così alta qualità pittorica, fossero le prime e le uniche, quell'anno, ad evidenziare una ricerca estetica del tutto particolare. Gli influssi secessionisti prima e quelli di Toorop subito dopo, assieme probabilmente a quelli di altri artisti come lo stesso Galileo Chini, che alla Biennale del 1907 era stato uno dei curatori ed esecutori della singolarissima sala dell'"Arte del Sogno", e l'attrazione sempre viva verso il mondo orientale, servirono al nostro per creare una serie di composizioni distaccate dal tradizionalismo di fine secolo e già immerse in una realtà immaginaria, simboca ed allusiva che dovette essere la sola, nel suo genere, rappresentata a Ca' Pesaro e dovette di conseguenza suscitare un certo interesse, sia tra gli artisti che tra i visitatori.

  Il 1910 fu un anno di estrema importanza per Ca' Pesaro. La Biennale, anticipata di un anno per evitare la concomitanza con l'esposizione internazionale di Roma del 1911, si rivelò, da un lato, una chiusura nei confronti della nuova arte giovane (25), particolarmente accentuata proprio perché quell'anno vennero soppresse le sale regionali ed istituita la "Sala della gioventù" (26); dall'altro lato, però, presentò tre importanti mostre: la retrospettiva di Courbet, la personale di Renoir e l'individuale di Klimt, che furono uno spiraglio di novità e speranze (27) per i giovani artisti ed intellettuali dell'epoca (28). Ca' Pesaro quell'anno, prima con la mostra di primavera, poi con quella dell'estate, presentò un'insieme di iniziative che definirono nettamente la linea di contrasto e di polemica nei confronti dell'altra istituzione artistica cittadina (29). Sicuramente, l'evento che suscitò maggiore risonanza fu l'aver ospitato nelle sale palatine la mostra personale di Umberto Boccioni (30), vista come vera e propria provocazione (31). Le opere che Boccioni presentò, nonostante l'infuocata propaganda di Filippo Tommaso Marinetti, erano più futuriste nella lettera che nella sostanza (32). Ciò non toglie che Ca' Pesaro si mostrò aperta là dove la Biennale aveva categoricamente sbarrato le porte. Il Futurismo come manifestazione artistica (33), non fu mai abbracciato dai giovani capesarini, come essi non furono mai così spavaldi nell'attaccare la tradizione, pure se il gruppo andava prendendo sempre più iconnotati di netto stampo secessionista. Anzi, si pensi solo a Burano e come quest'isola diverrà sempre più una specie di Bretagna veneziana (34). Vi fu un naturale affiancamento, dovuto alla vicinanza di ideali, alla sentita esigenza, sia per il gruppo palatino che per il movimento marinettiano, di rompere con il vincolo di un'arte anacronistica.

  Alla mostra primaverile di Ca' Pesaro, Vittorio Zecchin si presentò con quattro dipinti a olio: Getzemani, I.N.R.I., Gli angeli che difendono il Paradiso Terrestre e Mattino. Il dipinto Getzemani (Tav. 16), mostra fino a che punto Zecchin avesse recepito e fatte proprie le influenze di Toorop. Estremamente equilibrata dal punto di vista compositivo, l'opera evidenzia come l'artista abbia saputo adattare gli influssi orientalisti della sinuosa linea dell'olandese ad un espressionismo di stampo nordico, e non certo veneziano, di fine secolo. La costruzione pone l'accento sulla figura di Cristo, che appare ossuta e smunta al centro di un dipinto concepito come una sorta di pala d'altare. E' la visione di un mondo cristiano inteso in chiave mistica. La spettrale figura che domina le scena, trova un suo equilibrio ascensionale esaltato dalle figure sottostanti le quali, dando un primo accenno di moto vorticoso, guidano l'occhio di chi osserva in un percorso definito che, se non rigorosamente chiuso nel ritmo, obbliga a percorrere più volte la linea che ha il suo inizio e la sua fine nello straziante urlo, o lamento, del teschio in basso sulla destra: il pietoso volto del Cristo diviene l'altro capo della linea. Una volta colta l'opera nel suo insieme, lo sguardo insiste, ritmicamente, a soffermarsi sul teschio e poi a scivolare attraverso la linea tracciata dalle "femmine" sulla destra, indemoniate rappresentanti infernali del dolore terreno, sino all'altro teschio esibito, che introduce alla bianca figura del Messia e a proseguire in alto, fino al volto, visto quasi come una sacra sindone. Le figure sulla sinistra, allargano e rendono sinuosa la tormentata linea del percorso. Un espressionismo, nel trattare le figure e i teschi, che ricorda Ensor, calca la nota tragica della prima metà del dipinto; mentre serafica appare la parte superiore, vista bidimensionalmente su di un paesaggio che trae spunto dalla realtà per divenire simbolico, riproponendo un più entropico, se pur deciso, percorso simile.

  Zecchin, con quest'opera, si mostra già artista sensibile, delicato e raffinato come lo sarà in tutta la sua vasta produzione. Eclettico sotto certi versi, ma originale. E' con opere come questa, che il suo animo inquieto partorisce una tragica visione della realtà (che pare insolita e impensabile guardando ad altre sue opere) che lo spinge alla ricerca di un'evasione che non è semplice fiaba o sogno, ma necessità, bisogno di esprimere una visione artistica interiore che non poteva scaturire dalla pomposa pittura che la Venezia d'allora tanto acclamava, ma doveva ripercorrere, attraverso i suggerimenti di un'arte consona al suo spirito, la via del simbolo, il tormento della linea, la distorsione delle forme, per ricollegarsi direttamente ai capolavori del passato, ad un certo grafismo che si trova nei Vivarini, ad un senso di macabro sentito che vive in Carpaccio, al fascino delle opere, dei mosaici e, soprattutto delle patere del Medioevo lagunare. Il dipinto crea sulla tela un universo a sé stante, chiuso dai quattro lati del supporto: è libero da ogni sorta di intento decorativo che possa vincolarlo alla realtà spaziale in cui deve essere collocato. In opere successive il lato decorativo diviene vincolante proprio perché la  preoccupazione ultima è la collocazione: qui l'artista ha solo la tela davanti a sé ed il colloquio non ha bisogno d'interlocutori esterni, nasce e si conclude in uno scambio bidirezionale. Se Zecchin intraprende la strada della fuga dalla realtà, è nell'intimità di opere come questa che diviene veramente simbolista.

  Carattere spiccatamente più decorativo, mostrano i dipinti Mattino e I guardiani del paradiso, forse le opere presentate alla mostra, ma più probabilmente bozzetti studio per quelle opere. Mattino (Tav. 17), è risolta presentando una figura femminile inginocchiata ed intenta a cogliere i fiori primaverili che trapuntano di colore un campo verde dallo sfondo boscoso pieno di faggi. Interessante notare la linea che costruisce la figura, giocata solo col colore senza ricorso al disegno, stesa con un pacato gusto orientaleggiante che ben si armonizza con lo sfondo dalle raffinate soluzioni cromatiche. Il Modo in cui il colore è trattato, ricorda le opere del periodo cosiddetto slavo di Klimt (35), anche se quest'opera è con ogni probabilità stata eseguita prima che Zecchin potesse vedere il viennese alla Biennale del 1910. Rientra piuttosto in un modo spontaneo di trattare il colore che l'artista muranese adotta spesso, libero nella tecnica da particolari influenze, nei dipinti di piccolo formato e soprattutto nei bozzetti (ma che si nota, con meno evidenza, anche nelle opere più impegnate). E' quindi un caratteristico modo di dipingere del nostro, più che un tentativo d'imitare un certa tecnica pittorica. Zecchin s'è sempre, da questo punto di vista, dimostrato artista autonomo, come originale appare nell'armonizzare i colori, specie nelle opere successive. Un ricorso a immagini simboliche si  nota pure ne' I guardiani del paradiso (Tav. 18), dove le figure si ergono come solitari idoli floreali in una distesa di tenue verde e trovano il loro equilibrio armonico nelle forme dei cipressi sullo sfondo.

  Splendido è il piccolo bozzetto, Gli angeli che difendono il paradiso (Tav. 13), probabilmente studio per l'opera esposta a Ca' Pesaro. La complessa composizione, riprende stilemi figurativi già visti in Getzemani e sicuramente ispirati dalla visione delle opere di Toorop forse mescolati, in questo caso più palesemente che in altri lavori, alle influenze esercitate da un artista come l’americano James Abbott McNeil Whistler, che in qualche modo colpì l'attenzione del nostro, forse sin dal 1903 (36). Anche qui, un raffinato gusto orientaleggiante si fonde con soluzioni di stampo secessionista, come il taglio spaziale dello specchio d'acqua e l'ergesi statico ed immobile delle figure. Originali e raffinate, sono le soluzioni cromatiche le quali danno all'opera un particolare preziosismo figurativo, memore delle vetrate medievali. La sinuosità serpentina, di spiccato gusto Liberty, non contrasta con lo schematismo compositivo su cui è costruita la parte più "figurativa" dell'opera.

  La veloce analisi di questi dipinti, ha lo scopo di focalizzare il genere di opere con le quali Zecchin si presentò alle prime mostre di Ca' Pesaro. Opere, come s’è già detto, originali nel loro genere e innovative, e che, nell'essere tali, sarebbero state accolte con difficoltà nelle sale italiane della Biennale. Opere che evidenziano come Zecchin fosse sin d'allora immerso in una poetica che aveva rotto i legami con l'arte veneziana di fine secolo. Come altri artisti dalla forza espressiva più risoluta, anche il nostro si allineò, con le sue creazioni inventive, allo spirito ansioso di novità che regnava nelle sale del palazzo sul Canal Grande.

  La visione delle opere di Gustav Klimt alla Biennale del 1910 (37), segna un momento fondamentale nello sviluppo artistico di Vittorio Zecchin. Come l'incontro con le opere di Toorop, pure le opere di Klimt furono una rivelazione e allo stesso tempo una conferma e un  incentivo  a  continuare

 

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La sala di Gustav Klimt alla Biennale del 1910.

 

una ricerca espressiva che aveva già manifestato il proprio indirizzo poetico nei lavori sviluppati sino a quel momento. Klimt si presentava con tutto il fascino di un'estetica raffinata all'inverosimile, dove vivevano, in armonia assoluta, Oriente mistico e Occidente secessionista, dramma e gioia icastica, felicità d'esecuzione e evasione allusiva in un universo di fantastiche invenzioni, tanto ricercate da trasformare la realtà da cui traevano spunto in sentita visione onirica saldamente legata al più profondo essere dell'introspezione umana. <<La mostra alla Biennale del 1910 di Gustav Klimt è stata un'apertura d'orizzonti per Vittorio Zecchin: nella pittura e nella decorazione Klimt sovrasta tutti. Era l''astro artificiale', come le definiva Boccioni contrario del suo successo, ma la qualità dell'artificio andava ai limiti della fantasia tra astrazione e decorazione pura. Zecchin non sente in Klimt l'atmosfera di decadentismo che circonda l'arte del pittore viennese, quella dissolvenza della forma, che porta un'immagine quasi sensitiva di languori trasognati, di profumi d'Oriente dal sapore dolcissimo e velenoso, di quell'estetismo che vari aspetti della moda fecero proprio. Zecchin è dotato d'un candore d'eccezione, non ha nessun aspetto di 'poète maudit'... L'artista coglie da Klimt e fa tutto suo il ritmo musicale della linea ad arabesco e l'incanto del colore, esaltato in bagliori vitrei e splendenti lontano da ogni immediato riferimento alla realtà contingente>> (38). Non credo, pertanto,che Klimt sia stato visto da Zecchin solo in chiave decorativa. A contrario, fu proprio il decorativismo klimtiano a gettare il nostro in una crisi artistica che sfocerà di lì a pochi anni, nella convinzione di dedicare i propri sforzi principalmente alle arti applicate. Se non fosse cosa azzardata, verrebbe quasi da collegare l'avventura dell'artista muranese ad una sorta di viaggio mitologico dove l'"eroe" lascia la patria, nel nostro caso l'isola del vetro e l'arte del vetro, per intraprendere la propria odissea attraverso il labirinto dell'arte, innalzata a simbolo, fino a giungere al punto più lontano dell'epopea, l'abisso klimtiano, che lo getta in una profonda crisi convincendolo, carico di nuove esperienze, al graduale, ma inevitabile, riavvicinamento al mondo lasciato, quello dell'arte applicata (e, guarda caso, anche Klimt, con Wiener Werkstätte, si dedicò alle arti applicate). Klimt non fu un punto di partenza per un epigonismo decorativo fine a se stesso: fu il vertice a cui un certo tipo di arte poteva aspirare. Zecchin, attraverso le esperienze fatte, s'era lentamente avvicinato e aveva assimilato un linguaggio poetico dal sapore bizantineggiante che, in un certo senso, preludeva all'incontro con le opere di Klimt. Klimt fu si una rivelazione, ma una rivelazione chiaramente annunciata; s'inserì come l'inevitabile tappa che l'arte del nostro doveva affrontare per raggiungere una propria maturità figurativa; maturità che più volte dovette farlo meditare sul proprio lavoro con acuto senso autocritico. La produzione artistica di Zecchin dopo il 1910, appare da un lato, almeno nelle opere più impegnate, intenta alla ricerca di soluzioni dall'estrema eleganza e raffinatezza decorativa, dove il tema o il racconto viene usato come pretesto per sviluppare lavori che richiedono una collocazione spaziale al fine di trovare la loro più genuina giustificazione. Vedremo chiaramente questo nelle opere dipinte per l'Hotel Terminus, sottolineando sin d'ora che la vera originalità di quei lavori sta nel colore: è la felice soluzione cromatica che ne riscatta l'intero ciclo. Dall'altro lato, dopo il 1910, Zecchin realizzò una serie di opere solo apparentemente di minor importanza e che sono invece le sue più sincere espressioni artistiche. Piccole tele, piccoli lavori o murrine che mostrano come l'artista non si fosse fermato all'imitazione klimtiana da raffinato epigono, ma andasse sperimentando nuovi percorsi che, in taluni casi in apparente incoerenza con l'influenza klimtiana, trovarono proprio in Klimt un punto di partenza indispensabile, essenziale. Zecchin nelle opere di Klimt non assimilò quel senso di disfacimento ed esaltazione sensuale della malattia fin-de-siècle nell'età dell'oro dell'insicurezza di una Vienna che, al ritmo di Strauss, alzava i calici alla propria apocalypse Joyeuse. Nemmeno Casorati, nelle influenze dell'artista austriaco, recepì e sviluppò le caratteristiche morbose che fecero dell'ignoto un universo anarchico da far paura, di cui la donna ne divenne la rappresentante indiscussa e Klimt la punta di diamante di quella stessa sensibilità rappresentativa della sua società. Il ritratto della Vienna a cavallo del secolo è il ritratto della donna ritratta, della femme fatale, della femme abominable, della figlia del tempo dell'insicurezza, della "donna = sensualità" (39), dell'"Enide" weiningeriana (40): di tutto quanto a Venezia non esisteva. Non fu incapacità di Zecchin a comprendere l'indole più profonda delle opere di Klimt, fu solo che Venezia non era Vienna. Klimt, poteva forse essere meglio compreso in questo senso un secolo prima, alla vigilia della caduta della Serenissima, così, come gli ultimi anni della della Repubblica furono presi d'esempio da Vienna, e si pensi solo agli scritti di Hofmannsthal o di Schnitzeler. Oggi, Klimt è sicuramente da noi più attuale di ottant'anni fa, proprio perché ci si trova ad affrontare una nuova fine di secolo, con tutta l'inquietudine della fine di un millennio. Zecchin colse di Klimt quegli aspetti che più s'addicevano alla sua indole, che era in fondo il sentimento col quale l'artista viennese fu visto a Venezia nel 1910. Zecchin non fu un epigono klimtiano perché sviluppò alcuni aspetti apparentemente superficiali del decorativismo dell'austriaco. Egli si servì di Klimt per giungere alle arti applicate in una Venezia che viveva una realtà tutta sua e che necessitava di nuova forza, capace di rigenerare l'arte in ogni sua manifestazione (41). In questo senso Zecchin s'avvicinò molto più di altri alla generazione d'esteti dello Jung-Wein e di Hermann Bahr, degli artisti della secessione e delle architetture di Hoffmann e di Olbrich e, soprattutto, al progetto della Wiener Werkstätte.

  Vale la pena ricordare che alla Biennale del 1910 vennero presentati anche una serie di disegni dell'inglese Aubrey Beardslay (42), artista che in qualche modo potrebbe aver anch’egli influenzato l'inventiva grafica del nostro, come si vedrà meglio più avanti.

  Non so quali furono i veri motivi per cui Zecchin non si presentò con alcuna opera né alla mostra d'estate di Ca' Pesaro, né alle mostre del 1911. Con la mostra palatina dell'estate del 1910, erano intanto entrati a pieno titolo nell'orbita capesarina tutti coloro (43) che saranno i veri autori della querelle artistica contro la Biennale.

  Il 1911 si aprì, fatto a cui già s'è accennato (44), con la tragica morte di Ugo Valeri, artista la cui memoria fu immediatamente onorata alla mostra di primavera di Ca' Pesaro con una retrospettiva di oltre trenta opere. Questo fu anche l'anno in cui i giovani artisti, e primo fra tutto Arturo Martini, il più battagliero, dopo le esperienze del 1910, abbracciarono apertamente il partito di netta opposizione all'ambiente e alla cultura ufficiale che la Biennale rappresentava (45).

  In quell'estate del 1911, sovrastata dalla calura e dal timore largamente diffuso, come ricorda anche Thomas Mann in Morte a Venezia, del pericolo del colera, la seconda mostra stagionale di Ca' Pesaro non si tenne. Questo non servì a calmare l'animo di Fradeletto che, dopo la minaccia in fondo domabile rappresentata delle mostre sul Canal Grande, si sentì incombere il ben più preoccupante successo dell'Esposizione Internazionale di Valle Giulia. La stampa e lo stesso governo avevano largamente sostenuto la volontà di trasferire da Venezia a Roma il più importante centro artistico internazionale della nazione (46). La stessa riapertura della Biennale, era in discussione: <<Fradeletto arrivava a chiedersi se non convenisse spostarla al 1913 o addirittura al 1914>> (47).

  La Biennale si tenne comunque due anni dopo la precedente, nel 1912. Fradeletto temeva la concorrenza romana e voleva così presentare artisti che richiamassero il vasto pubblico e che riassicurassero le esposizioni dei Giardini. Chiese la collaborazione anche di Barbantini, con l'intento, da una parte, di assicurarsi la partecipazione di Previati (48) e, dall'altra, di attenuare le polemiche con Ca' Pesaro (49). Nonostante gli sforzi di Fradeletto, le speranze di Barbantini e, per la prima volta, la partecipazione di Vittorio Pica in qualità di vicesegretario, l'Esposizione fu deludente (50), più ancora della precedente. Ai Giardini, avevano ripreso il metodo della giuria d'accettazione (oltre agli inviti) e secca fu la selezione tra i giovani (51), tanto che Barbantini scrisse a Fradeletto una lettera di vera protesta e dal tono <<quasi rabbioso>> (52).

  La mostra di Ca' Pesaro del 1912, da quest'anno annuale, fu ricca d'iniziative pur con la mancanza di Gino Rossi e Arturo Martini (53). Fautore della proposta più interessante, subito abbracciata dagli altri artisti, tra cui Vittorio Zecchin, fu Teodoro Wolf Ferrari che <<tutto preso dalle nuove idee liberty a favore dell'arte applicata che egli aveva maturato durante il lungo soggiorno a Monaco, volle portare anche nelle sale di Ca' Pesaro un'aria nuova proponendo tra i giovani un movimento chiamato l''Aratro'. Monaco, ancor più di Parigi, era allora negli ideali delle Biennali veneziane. Lo stesso catalogo di Ca' Pesaro del 1912 si ispira ad alcune riviste liberty di moda, come “Jugend” di Monaco, “Pan” di Berlino e “Ver Sacrum” di Vienna>> (54). Lo stampo marcatamente secessionista che andava prendendo Ca' Pesaro, sempre restando, malgrado i vari tentativi, un gruppo d'artisti più che un movimento artistico, portò subito ad aver contatti con alcuni giovani romani che proprio quell'anno s'erano costituiti in un gruppo secessionista per reagire alla sorta di bazar ch'era stata l'Esposizione d'arte mondiale del 1911 (55).

  La presentazione del catalogo della mostra di Ca' Pesaro, riferendosi al gruppo dell'"Aratro", precisa l'intento finalizzato alle arti decorative dell'iniziativa: <<Un gruppo di artisti veneziani, persuasi dell'opportunità di ricondurre anche da noi tutte le manifestazioni dell'arte alla sua più genuina espressione, la decorazione, intendono sottomettersi a se stessi e la loro produzione ad una comune regola di armonia, pur restando fedeli ad una propria ispirazione. Le due sale organizzate al pianterreno di Palazzo Pesaro sono l'attuazione pratica di un primo tentativo in questo senso>>. La finalità era, dunque, rivolta alla rivalorizzazione delle arti minori, senza alcun vincolo stilistico che potesse veramente incanalare ogni singolo artista in una ben precisa tendenza figurativa.

  L'iniziativa dell'"Aratro", coinvolse subito Vittorio Zecchin, anche se quell'anno partecipò all'esposizione con sole opere pittoriche. Ed fu nell'ambito dell'"Aratro" che Zecchin approfondì la propria amicizia con Teodoro Wolf Ferrari, iniziando, indirettamente forse già da quest'anno, la sua collaborazione con il collega pittore (56). Entusiasta, il nostro mostra però qualche stupore, dovuto forse agli orizzonti un po' troppo ampi che il gruppo si proponeva, come evidenzia nella lettera, in veneziano, scritta all'amico Emilio Fuga e portante sulla busta il timbro di partenza con la data del 16 novembre 1912: <<Varda, mi no go che speranze: intendi po' speranze che me possa riuscir i lavori che devo far per Roma - Vienna - Berlin - Monaco - Parigi; basta per carità: me vien le vertigini a mi e anca a ti. Ciò, co sto benedetto gruppo secessionista xe probabile far strada, data la forza e l'intraprendenza di Zanetti-Zilla. Ma... bisogna che i lavori vegna fora ben, e se... no? Patapunfete dalla cabianda>>. Il timore di Zecchin era quello di non riuscire a portare a termine, come vorrebbe, i numerosi lavori che l'iniziativa del gruppo richiedeva. Oltre a questo, però, la lettera mette in evidenza una altro aspetto della vita di un artista, troppo spesso trascurato: la mancanza di denaro con tutto ciò che e conseguiva. Con un splendido autosarcasmo, che Nietzsche definirebbe in ironia dell'uomo per se stesso, nella stessa lettera continua: <<Qua xe la miseria stabile, morale e materiale [...] Mi so in boleta assoluta, completa; go alla scarsela applicà la teoria fisica del vuoto assoluto, e xe per questo che, scrivendotelo a ti che ti parli de malinconie, me xe vegnùo el bon umor che gera scapa via da un tocheto>>. Questa, è una realtà che troppo spesso è dimenticata per un artista ancora, tutto sommato, “bohemien”, e nel caso di Zecchin sicuramente questo si fuse con la sua poetica e si sommò alle necessità a cui aspirava: il decorativismo che esiste nelle sue opere, e che sfoggerà nella dedizione alle arti applicate, trovò probabilmente origine anche in questo.

  La finalità decorativa che il gruppo dell'"Aratro" s'era proposta, trovò forse la sua prima vera attuazione fin dalle opere presentate a Ca' Pesaro nel 1912. Nel trittico Salomè (Tav. 22 - 24), l'influenza klimtiana è quella che domina l'intera opera: il titolo stesso è con ogni probabilità memore dell'opera esposta alla Biennale del 1910. Il trittico ha un carattere prettamente decorativo e il soggetto è un pretesto per colorare la tela. Ancora una volta, accentuato dalla divisione in tre pannelli, un rigoroso equilibrio compositivo regola la struttura del  dipinto.  Come  nel  pannello  centrale,  là

 

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Vittorio Zecchin e Umberto Moggioli (i primi a destra) a Burano nel 1912.

 

dove la figura è spostata sulla destra, a bilanciare la composizione ricorre la grande massa di rosso trapuntato oro, così un giusto equilibrio trovano tra loro le figure nei due pannelli laterali. Se la costruzione decorativa dell'opera richiama subito alla mente Klimt, le figure sono risolte con stilemi suggeriti ancora da Toorop. Come già detto, il soggetto è solo un pretesto, cosa che assolutamente non si riscontra in Klimt. Questo potrebbe, a primo acchito, far pensare ad una superficiale, se pur estremamente raffinata ed elegante, interpretazione dell'arte dell'austriaco. A mio avviso, in quest'opera Zecchin non è stato un semplice epigono: si osservi l'opera, dimenticando la composizione decorativa tratta da Klimt e focalizzando l'attenzione al ricercato cromatismo. Anche Klimt diviene un pretesto per sfoggiare una capacita coloristica che ha origini più lontane: dalla trasparenza e dai bagliori del vetro si giunge a rievocare il rosso infuocato delle quattrocentesche vesti dei Vivarini. Zecchin era un bravo disegnatore, ma soprattutto un vero maestro del colore.

  All'incirca di questo stesso momento, è una serie di piccoli interessantissimi dipinti e bozzetti, conservati in collezione Ramani Zecchin a Triste. In modo particolare, soffermiamoci su due ritratti (Tavv. 27a e 28a), quanto mai insoliti all'interno della produzione più conosciuta di Zecchin. Queste opere rivelano come egli stesse ancora sperimentando nuove ricerche espressive. Sono tra le opere di respiro più internazionale che Zecchin abbia dipinto: palesi sono tanti richiami ad artisti che egli aveva potuto vedere alle Biennali; ma la spontaneità e la qualità con cui il colore è stato steso sulla tela, rende il ricordo di uno o dell'altro libero da ogni preoccupazione imitativa e assolutamente originale nel risultato finale. Queste opere, a mio avviso, sono tanto debitrici all'arte, ad esempio, dello stesso Klimt, nell'impostazione secessionista del ritratto, quanto a quella di altri artisti quali Böcklin e più ancora Hodler (si osservi come è trattato il colore), e quanto anche al clima di ricerca creativa nuova ed entusiasta che regnava nelle sale di Ca' Pesaro, aperto a quanto succedeva fuori d'Italia di veramente interessante. Un collegamento, che mi appare quanto mai suggestivo in un artista come il nostro, è con quanto andava facendo un'altro dei i grandi pittori di Ca' Pesaro, l'espressionista Lorenzo Viani: è curioso pensare a dei punti di contatto tra due artisti che, in un primo momento, sembrano diametralmente opposti nel loro modo di esprimersi. Zecchin, una volta ancora, mostra quanta strada abbia percorso rispetto alla pittura ufficiale italiana che la Biennale continuava a proporre.

  Il 1913 si aprì con l'attenzione rivolta a Roma. Gli artisti di Ca' Pesaro furono invitati a partecipare alla Prima Esposizione Internazionale della “Secessione Romana”, inaugurata a marzo a Palazzo delle Esposizioni. L'iniziativa romana, come già s'è accennato, era nata dalle stesse motivazioni di reazione, in questo caso all'Esposizione internazionale in commemorazione del cinquantenario dell'Unità d'Italia, che a Venezia avevano spinto i giovani artisti a polemizzare con la Biennale. Sia Ca' Pesaro che la Secessione Romana, rientravano in un generale clima di scontento artistico nei confronti della cultura ufficiale che portò, negli anni che precedettero la guerra, a simili iniziative sorte spontaneamente un po' in tutt'Italia, da Milano a Napoli. Non ci fu mai una vera coordinazione generale dei giovani secessionisti della nazione, ma i collegamenti tra loro furono molteplici (57). Zecchin quell'anno, nell'ambito del “Gruppo Veneto”, espose a Roma due tele, Primula e Verso la luce. Verso la luce, riportata in questo catalogo col titolo Nascita di Venere (5) (Tav. 35), evidenzia come il nostro si sia preoccupato, all'interno degli stilemi artistici klimtiani, di sottolineare, com'era nel volere del gruppo dell'"Aratro", l'aspetto decorativo. In ogni caso, di grande suggestione appare la figura di Venere che, come un idolo orientale, emerge dall'evanescente nebulosa celestiale che effonde l'intera opera. L'intento decorativo, che trova nell'insieme una squisita eleganza marcata dall'oro del tripode per l'incenso e dei portacandele in primo piano, sembra però voler cedere il posto ad una mistica evasione in un mondo onirico fantastico.

  Come ricorda lo stesso Barbantini, il 1913 fu l'anno più importante per Ca' Pesaro: <<[...]dopo [...] che un giornale ebbe dato l'allarme e svelato in un'intervista da cronaca nera che proprio lì a Venezia, contro le Biennali gloriose, si tramavano a due passi congiure e attentati secessionisti. Poco dopo un massimo foglio romano59, stampava invece un articolo di due colonne, giurando che Ca' Pesaro valeva più dei Giardini, tanto che Antonio Fradeletto padre e cavaliere amatissimo della Biennale e di conseguenza difensore geloso e vendicativo delle sue grazie, sporse querela contro l'estensore di quell'articolo o per lo meno minacciò di farlo. E poi a procurarci una notorietà insperata, arrivò la Mostra del '13, dove Rossi Martini e Garbari, che s'erano messi d'impegno, fecero miracoli, suscitando tra i ben pensanti uno scandalo tale che in città non si parlava d'altro e se ne parlò molto anche fuori. Nelle sale non si respirava, tant'era la folla. I giornali polemizzavano, i pittori e i clienti dei caffè, chi per noi, chi contro di noi, se ne dicevano di tutti i colori. S'arrivò qua e là a vie di fatto. Il Consiglio Comunale ci dedicava una seduta, deplorando che in casa del Comune e all'insegna del leone in moleca si potesse vedere quello che si vedeva. Fu proposta la chiusura immediata della Mostra in questione, che sarebbe stata attuata di sicuro, se taluni artisti belgi che figuravano quell'anno nel padiglione della Biennale non si fossero raccolti a prendere partito per noi, chiedendo di poter esporre d'allora tra i vivi di Ca' Pesaro invece che tra i morti dei Giardini. Tutti, nel torneo, avevano perso le staffe"60. Dovette esser stato un anno straordinario, dove Venezia, per fatti d'arte, non ricordava tante accese polemiche probabilmente dalla metà del Settecento, quando, anche allora, la stessa gente comune, si divise in vere e proprie fazioni parteggiando, discutendo e litigando, per strada, nelle osterie e nei luoghi ufficiali, chi per il teatro innovativo di Goldoni, chi per le tradizionali rappresentazioni chiariniane e gozziane. Come ben hanno documentato Guido Perocco61 ed Enzo di Martino62, gli allestimenti delle opere di Gino Rossi, Arturo Martini, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Ubaldo Oppi, Guido Marussig, e tutti gli altri, fecero gridare allo scandalo e la reazione ufficiale rischiò di far chiudere l'esposizione. Lo stesso Fradeletto, in polemica con Ca' Pesaro, aveva organizzato una mostra giovanile alternativa al Salone Vittoria, alla Pietà63. Ma, in ultima analisi, il successo della mostra palatina fu tale che Ca' Pesaro iniziò ad avere il suo peso sulla cultura artistica veneziana ed italiana64, tanto che, per il 1914, si pensò addirittura ad una forma di collaborazione tra le due istituzioni. <<Non se ne fece niente e, anzi, la polemica continuò ancora aspra e clamorosa>>65.

  Le opere esposte da Vittorio Zecchin quell'anno a Ca' Pesaro, non uscirono dal linguaggio poetico di quelle esposte l'anno precedente. Come lo stesso catalogo precisa nell'elencare i dipinti, tutti eseguiti a tempera (Le vergini del fuoco, trittico decorativo, Murrine, quadro decorativo, Perla orientale e Primavera), questi avevano come finalità prima una certa forma decorativa impostata su stilemi desunti principalmente da Klimt. La sala XVI, che accoglieva le sue opere, fu da lui dipinta con la decorazione Il giardino delle fate, memore, probabilmente, anche delle decorazioni viste alla Biennale eseguite dal fiorentino Galileo Chini.

  Alquanto più interessanti, quell'anno, furono le ideazione, concepite lavorando affianco a Teodoro Wolf Ferrari, di tutta una serie di murrine e vetri che i due artisti portarono all'Esposizione di arte decorativa di Monaco di Baviera. Se pur la spinta verso le arti applicate venne da Wolf Ferrari, l'iniziativa di dedicarsi al vetro-mosaico è facile pensare fosse del muranese. Le opere pensate da Zecchin e realizzate dagli "Artisti Barovier" di Murano, sono tra i capolavori assoluti che l'artista abbia creato. In modo particolare, la lastrina del Barbaro66 (Tav. 566) conservata al Museo Vetraio di Murano, mostra come Zecchin, attraverso il vetro, abbia saputo raggiungere soluzioni, dalla grande forza icastica, degne di figurare accanto agli altri capolavori di respiro europeo usciti da Ca' Pesaro. La composizione è semplice: una figura, dal ritmo rigorosamente chiuso e dalla veste verde e gialla, s'innalza con monumentalità su uno sfondo blu lapislazzuli; la lama della spada, infuocata, è il modulo che regola tutta la composizione. In quest'opera, dal sapore quasi primitivista, così pure nell'altro frammento di lastrina conservato al Museo Vetrario (Tav. 567), Zecchin prova che l'applicare schemi pittorici moderni alle possibilità luministiche del materiale vitreo porta a risultati sorprendenti, dove si ribalta la funzionalità stessa dell'oggetto che, da decorativo, divene opera d'arte. Apre così una via per la quale egli stesso si direzionerà per tutto il resto della sua attività artistica, mostrando a Venezia come sia possibile riportare ad altissimi livelli l'arte applicata locale, liberandola dalle pastoie della tradizione che, più delle arti maggiori, vincolavano ogni genere di produzione artigianale. Pure il dipinto su vetro in collezione privata a Torino, raffigurante La dogaressa o Salomè (Tav. 37), evidenzia le nuove possibilità che gli stessi stilemi klimtiani vengono ad acquisire sulla superficie vitrea. <<Il lucido del vetro dà maggior fascino al superbo volto giovanile della dogaressa bella ed irreale come un idolo, circondata da uno straordinario trapunto decorativo di colori dallo stato puro come un antico mosaico bizantino, esaltati dalla linea elegante del pavone in primo piano e dalla sintesi del motivo dell'acqua e delle 'bricole' lagunari poste sullo sfondo>>67.

  Alla Seconda Esposizione Internazionale d'Arte della “Secessione Romana”, inaugurata il 21 marzo, gli artisti veneziani si presentarono carichi di nuova forza e circondati da un alone di successo per quanto era avvenuto l'anno prima. Vittorio Zecchin espose il dipinto Convegno mistico (Tav. 43), opera, ancora una volta, dal marcato gusto klimtiano per la decorazione. Le tre "principesse", che rivelano sempre un'attenzione particolare, soprattutto quella in ginocchio, per una linea sinuosa dal sapore orientale tratta da Toorop, appaiono immerse in un paesaggio fiabesco dove tutto è risolto in una felice ossessione di orror vacui luministico nell'incanto di un'evasione verso un suggestivo universo tutto inventato. Zecchin è indubbiamente affascinato da composizioni che, come questa, sono il frutto di una realtà sentita attraverso visioni oniriche, attraverso favole, a testimoniare la volontà di una ricerca decorativa che troverà la sua vera "funzionalità" solo nel momento in cui si ricreerà il legame tra sogno e mondo oggettivo: nel momento cioè in cui queste invenzioni fantastiche diverranno ornamento solo ed esclusivamente decorativo.

  Quanto successe a Ca' Pesaro nel 1913, condizionò anche l'anno successivo. Da principio sembrò potesse esserci una possibile collaborazione tra le due istituzioni artistiche, ma l'idea fu subito abbandonata e, a contrario, il sindaco Grimani, presidente della Biennale, non autorizzò l'annuale esposizione palatina del 1914. <<Barbantini era rimasto al suo posto, non si era risusciti a scalzarlo, ma gli si toglieva ogni possibilità di agire[...]>>68. I giovani artisti di Ca' Pesaro, nella speranza che la mostra si potesse tenere, esortarono ed incoraggiarono Barbantini: <<Mi raccomando Dottore coraggio, quest'anno l'esposizione è necessaria, non importa una, due o cinque sale, ma bisogna aprirla per accogliere il nostro massimo sforzo>>69. Dal canto loro, comunque fossero andate le cose, avrebbero messo tutte le forze possibili per continuare la linea di polemica contro la Biennale70. La chiusura di Ca' Pesaro portò i suoi artisti a concorrere per la partecipazione alla Biennale. <<...su 621 artisti ne furono accettati solo 114. Forse non erano neanche pochi ma ciò che risultò clamoroso fu il fatto che furono scartati - certo con una deliberata intenzione - proprio gli artisti rivelatisi più nuovi e turbolenti alla mostra di Ca' Pesaro del 1913>>71.

  Anche Vittorio Zecchin, assieme a Teodoro Wolf Ferrari, concorse per la partecipazione all'Esposizione Internazionale dei Giardini e, con il collega, fu accettato. Vennero accettate però solo le loro opere d'arte applicata: Zecchin presentò anche dei dipinti che furono rifiutati. Le opere con le quali i due artisti parteciparono erano, presumibilmente, le stesse presentate nel dicembre dell'anno prima a Monaco, ed ebbero gran successo, specie i vasi in vetro murrino, dei quali molti furono venduti72. Nella presentazione delle loro opere, nel catalogo della Biennale, i due artisti scrissero: <<Osservando le murrine che si fabbricano da pochi anni a Murano e pensando alla vaghezza dei colori del vetro nacque in noi l'idea di cimentarci a prove nuove pure approfittando in parte dei sistemi oggi in uso e appportandovi opportuni miglioramenti. Ci serviamo a tale fine dell'opera degli Artisti Barovier di Murano, conoscitori profondi dell'arte del vetro. Volevamo, e c'è riuscito, connettere i pezzi di vetro, formare ornamentazioni e figure, come per i vasi così anche per le lastre, evitando le commettiture di piombo>>. Se pur siamo ancora lontani dal 1930, anno in cui alla Biennale venne istituito il padiglione per le arti decorative, un'attenzione particolare l'esposizione dei Giardini aveva sempre riservato alle arti applicate. Fu questo il motivo per cui, le opere proposte dal sodalizio tra il nostro e Wolf Ferrari vennero accettate. Nei confronti dell'arte decorativa, la Biennale non temeva quella concorrenza e quella ventata di novità che poteva giungere dalle arti cosiddette maggiori. L'arte decorativa, com'era nei dettami di una tradizione che risaliva il tempo sino all'accademismo neoclassico, era alla fin fine rilegata tra le manifestazioni minori e le novità che ad essa erano apportate furono a lungo considerate secondarie, almeno in certi ambienti e rispetto alle tre espressioni artistiche principali. Fu questo il motivo per cui anche l'arte pittorica dal marcato sapore decorativo del nostro, ma per questo non innovativa in un ambiente come quello veneziano, fu per certi aspetti accolta al punto da diventare una moda. Ed è ancora per questo che il signor Indri, proprietario dell'Hotel Terminus, commissionò a Zecchin il ciclo pittorico delle Mille e una notte. Occasione d'oro per il nostro, che vide finalmente quantificare economicamente i suoi sforzi artistici. Ed è proprio attraverso la via della decorazione che egli portò all'ambiente lagunare il suo più importante contributo, diventando uno dei fautori e, per talune opere vero designer, del rilancio dei più diversi settori artigianali rilegati sino ad allora ad una ripetitiva riesumazione di quanto era stato fatto nel passato.

  Considerato tra i massimi capolavori del Liberty a Venezia, il ciclo pittorico delle Mille e una notte (Tavv. 52 - 62), realizzato per un’estensione di oltre trenta metri quadrati, suddiviso in oltre una decina di tele, prelude ad un rigore geometrico nelle forme già visto anche in altri lavori del nostro, che sarà caratteristica nelle arti applicate dello stile Déco, così denominato a partire dal 1925. Il soggetto trattato, come svela subito il titolo, ha origini orientali, pur se tradotto in una chiave mistico-immaginaria che trova le sue radici nella città, nella Venezia bizantina ed orientaleggiante, piuttosto che in una vera e propria ispirazione orientale. Vale a dire, è il sogno orientale, decadente, filtrato dalla Venezia d'inizio secolo. Tutto il ciclo si svolge su di una processione di principesse che, cariche di doni, vanno a rendere omaggio alla regina di Saba, seduta su una sorta trono dorato; una teoria di guerrieri dalla carnagione scura come telamoni egizi, si schiera ai lati della regina. Tutto è un pretesto per decorare: lo sfondo con paesaggi boscosi immaginari, le vesti delle principesse e dei guerrieri trapuntate d'oro e di colori brillanti, le stesse tigri addormentate ai piedi della regina che, invece di difendere la loro padrona, divengono una suggestiva nota di colore scuro rigato. Il risultato che Zecchin ottiene, è sorprendente: un orror vacui d'eleganza e raffinatezza di colori e forme prende il sopravvento su ogni altro richiamo o allusione. <<L'idea si realizza su dieci pannelli di tela, ma è progettata su una immensa vetrata che possa ingrandire a dismisura le luci e le qualità dell'ornamento suntuoso, d'un fasto inaudito, che Vittorio Zecchin sogna sempre per il vetro in qualunque materia lavorasse. Alcuni bellissimi bozzetti dell'opera ci avvicinano al primario motivo d'ispirazione>>73. Tutto diviene decorazione fine a se stessa. La stessa evasione in un mondo da fiaba, visto nelle opere precedenti dello stesso tipo, diviene secondario davanti al piacere di disegnare, inventare e colorare. Quest'opera segna il culmine di tutto quanto Zecchin era andato maturando fino a questo momento. E' concepita, pensata e risolta come opera decorativa e, come tale, trova la sua finalità primaria nell'adornare, con sfarzo ricco e suntuoso, la sala da pranzo dell'albergo. L'influenza di Klimt trova nelle Mille e una notte il suo vertice e diviene il non plus ultra dopo il quale l'artista volge, pur mantenendo le caratteristiche stilistiche sviluppate, la sua attenzione altrove. E' una sorta di felice crisi artistica che lo immerge in una profonda autocritica verso il proprio operato e che lo porterà, con forte motivazione, a concentrare ogni sforzo nella direzione delle arti applicate. Le Mille e una notte rappresentano un vero capolavoro della pittura decorativa. Una sorta di ultima fuga nel sogno negli anni che precedono immediatamente lo scoppio della Grande Guerra, quando ancora il sogno poteva permettersi un totale distacco dalla realtà. Uniche nel loro genere, mettono in luce la sensibilità cromatica del muranese: se infatti ci si concentra, tralasciando tutto il resto, sull'armonica fusione dei colori, si scopre una vera sinfonia cromatica che rende innovativo e originale l'intero ciclo, nel richiamo alle trasparenze e al luccichio del vetro-mosaico, che conduce la fantasia ai vivaci colori dei Vivarini e delle vetrate medievali, riscattandolo da ogni sorta di superficiale epigonismo. <<Egli ama la violenza del colore; la sua genialità consiste nell'armonizzare tutte le vivacità della tavolozza più accesa; il suo gusto e nord-orientaleè[...]"74.

  "La Biennale di Venezia, intanto, celebrava quell'anno una delle sue edizioni più scialbe. Non c'era nessuna mostra speciale, nessun segno di apertura verso le nuove esperienze europee e, semmai, perfino un certo arretramento rispetto al 1910[...] Le uniche mostre di un certo interesse furono quelle dedicate ai divisionisti italiani[...] e la retrospettiva di Giuseppe De Nittis: un po' poco[...] Nei padiglioni stranieri l'unica mostra di rilievo era quella dedicata dal belgio a James Ensor[...]"75.

  La reazione alla chiusura di Ca' Pesaro e alla "chiusura" della Biennale, <<probabilmente incoraggiata dietro le quinte dallo stesso Barbantini>>76, intento dall'altro lato ad una equivoca azione di mediazione con il Comune e con i Giardini, fu l'organizzazione della mostra dei Rifiutati all'Albergo Excelsior del Lido. Il catalogo, dal titolo quanto mai polemico, Esposizione di alcuni artisti rifiutati alla Biennale veneziana, sottoscritto anche da Zecchin, portava la seguente accesa presentazione: <<Breve discorso per chiarire le ragioni di questa nostra manifestazione. Non furore iconoclasta contro i vecchi maestri[...] o ai danni della Biennale Veneziana ci sospinse ad essa[...] Noi siamo consapevoli che il ritmo della storia si alimenta perennemente di tendenze che si esauriscono e di altre che si determinano in arcane penombre prima di espandersi vittoriosamente alla gloria del sole: e attendiamo fidenti la nostra ora[...] E poiché la giuria dell'undicesima Esposizione ci ha respinti quali “pallidi ripetitori che non sanno né ove volgersi né ove mirare”, noi - pur rispecchiando indirizzi artistici diversi - abbiamo composti i nostri dissidi ideali in un affratellamento dignitoso per appellare alle competizioni artistiche. Abbiamo a tal uopo raccolte in una sala dell'Excelsior[...] le opere reiette[...] Non sta a noi profetare[...] quale che sia la sorte che il futuro ci riserba, crediamo che non sarà stata pronunciata invano la nostra corretta e ferma parola di protesta quando siasi riconosciuta la nobiltà dei nostri intenti e l'ardore fattivo del nostro entusiasmo>>77. A corroborare questo clima di ribellione, parteggiato da tutti gli artisti più accorti del gruppo capesarino, Zecchin compreso, nonostante la sua parziale partecipazione all'esposizione dei Giardini, fu il rientro in Italia, di ritorno dalla tournée estera, carichi di nuove energie, dei Futuristi, sempre pronti ad affiancare nella polemica gli artisti veneziani.

  Il ciclo delle Mille e una notte, intanto, stava riscotendo gran successo, portando a Zecchin le prime commissioni, anche straniere, per decorazioni analoghe.

  Nel febbraio del 1915, partecipò all'Esposizione di Bozzetti di Artisti Veneziani tenuta all'Hotel Vittoria. Fu inoltre presente alla Terza Esposizione Internazionale della “Secessione Romana”, inaugurata il 3 aprile sempre a Palazzo delle Esposizioni, dove espose il dipinto Scolta Barbara.

  A Venezia, il gruppo di artisti che ruotava attorno a Palazzo Pesaro, continuava la sua polemica e nel giugno di quell'anno arrivò a fondare anche una sua rivista, dal titolo quanto mai esplicativo di "I pazzi", della quale uscì solo un numero. <<La storia dell'arte italiana dei primi anni del secolo si svolse in questo drammatico inserirsi di forze attive in una società che andava sempre più chiudendosi e non rispondeva, o rispondeva solo in parte, ad un corso ineluttabile di eventi che portarono alla soglia della prima guerra mondiale>>78.

  Spinti dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno Gabriele D'Annunzio, in un'Italia sempre più convinta al “bel gesto” e a vedere nella guerra la  <<sola igiene del mondo>>, tanti furono i giovani che intrapresero un’avventura dalla quale per molti non vi fu ritorno, e chi tornò, tornò profondamente cambiato. Nella seconda metà del 1915, anche i ragazzi di Ca' Pesaro, più o meno convinti, furono chiamati alle armi. Vittorio Zecchin, perché claudicante, fu uno dei pochissimi che rimase a Venezia o, meglio, isolato a Murano. Egli non visse la guerra in prima persona; la visse indirettamente, tra stenti di ogni genere nella costrizione a rimanere con tutti i suoi sogni rilegato su un'isola sempre più deserta e inoperosa, popolata solo da donne, vecchi e bambini. Questo non servì a bloccare la sua genialità e, spinto dalla lettura di riviste inglesi, dove veniva esaltata nei popoli nordici l'arte del ricamo su grossi canovacci, Zecchin decise di far suo un vecchio convento nei pressi di San Donato a Murano e, richiamando le giovani donne dell'isola, fondare un vero e proprio laboratorio per arazzi. Questo momento segna l'inizio della sua profonda e totale dedizione alle arti applicate. Egli stesso si mise a ricamare e lo fece con tanto amore ed inventiva da ideare un punto che potesse imitare la pennellata sulla tela. Considerò, con moderna convinzione, l'arte dell'arazzo, come ogni altro genere di arte applicata, alla pari di ogni altra manifestazione figurativa e, in questa piena convinzione, promosse il rilancio dei più svariati settori artigianali veneziani e veneti.

  L'iniziativa del laboratorio per arazzi fu tutta sua e, come egli stesso racconta, le difficoltà non erano poche: <<El mio studio lo gaveva in tun vecio convento senza lastre, senza porte; ghe n'ho fato far una mi e la seravo con un toco de spago; dopo me son tolto el lusso de un lucheto; no gaveva careghe, no gaveva gnente. Ma appena son sta ricco lo go decorà con stiore e go piturà le piere, me son fato quatro careghe, me son fate le tende con de le tela da sacco, e el mio studio me pareva 'na reggia... Son andà da una zovane a farme insegnar un ponto qualunque; la canosseva l'ungherese ma mi non voleva niente de ungherese e go provà mi e go trovà el mio punto; gnente de straordinario, ma el mio punto non fa veder el canovaccio. Me ricordo che gera nella mia reggia un freddo da sonar la marcia real coi denti[...] Ma penso[...] Xe vero che son un signoron, go tanto arzento, tanto oro, e de quello de zecchin, go sete, stoffe preziose, go brillanti,  gioie de tante forme  e

 

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Il laboratorio di arazzi di Vittorio Zecchin a Murano.

 

colori, e tante tante, ma le se tutte nelle casse... del mio cervelo[...] Qua go primavera; miga come caldo (siamo a novembre) ma come allegria: le tose le ride, le ride tanto da farse venir le lacrime ai oci, el belo xe che non so percossa. No go el coragio de dirghe gnente, le xe cusì putele! Beate loro che no gà pensieri. Del resto penso che fin che le ride non le se ricorda che no ghe stua. Povarete le xe bone... Però presto spero d'aver la stua. Che sentisse come le canta adesso le tose! Xe proprio el sol. Vorla rider? Ben, mi canto insieme a loro>>79.

  Tra le sue prime opere in arazzo, vi è lo splendido studio di volto di guerriero (Tav. 737) conservato in collezione Ramani Zecchin a Trieste e databile al 1916. La prova fu eseguita direttamente dalle mani dell'artista, intento a studiare il punto di sua invenzione, e mostra la volontà di ricreare col ricamo quanto aveva elaborato sino a quel momento in pittura. L'arazzo Guerrieri (Tav 738), conservato al Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, è il risultato dello studio precedente. <<La nitidezza dell'immagine decorativa si riflette nell'arditezza del taglio compositivo, nell'assoluta coerenza stilistica di ogni elemento, nell'ordine e infine nella connessione dei rapporti di spazio>>80. Il decorativismo di Zecchin, applicato alla stoffa, si libera da ogni sorta di vincolo che nella pittura poteva dar adito a critiche. La decorazione giustifica l'oggetto e l'oggetto prende valore grazie ad essa. Gli schemi compositivi sono gli stessi esaminati nei dipinti, ma il colore trova una sua alta e genuina esaltazione paragonabile ai risultati che, qualche anno prima, aveva ottenuto nei vetri a murrine. Il colore diviene la nota dominante dei suoi lavori e, ancora una volta, sottolinea la grande capacità ed eleganza armonica di sintetizzare nella realtà del canovaccio la fantasia del sogno. L'arazzo dei Guerrieri, fu visto e acquistato da Gabriele D'Annunzio, e il pittore di Murano ricorda con entusiasmo quel momento: <<Gnente paura: ben incapotà in un bel capoto novo che gaveva avuo in cambio de un quadro da un sartor, me son messo a ricamar dei guerrieri con dei vestiti molto ricchi. In una visita, che certo non desmentego, D'Annunzio ga trovà bei quei barbari e li ga comprai. Quel giorno non me saria cambià col Scià de Persia>>81.

  Gli incontri con il poeta-vate dovettero essere più di uno, come precisa in uno scritto, dopo aver fatto visita al pittore, anche Alfredo Rota: <<La guerra intanto infuria spaventosa: Gabriele d'Annunzio, fra un volo e l'altro, si spinge a Murano dove celebra, al rezzo di quei miti orti salmastri, degli atti di vita. Così conosce Zecchin che gli parla in veneziano, gli dice i suoi propositi e gli mostra il primo arazzo. D'Annunzio lo ascolta ammirato e compra il bel saggio. Nasce così dalle parole di Zecchin la raffigurazione dell'Arte Paesana che il poeta celebra nello Statuto di Fiume[...] Una sera[...] Zecchin narra a d'Annunzio la Leggenda della Valle dei sette morti[82], che il poeta metterà poi - traducendola dal veneziano - nella Leda senza cigno. Il libro recherà, in compendio, questa dedica “- Al grande artiere Zecchin da Murano, che mangiò la polenta nella Valle dei sette morti”>>83.

  L'incontro con D'Annunzio, servì a Zecchin per  raggiungere una fama insperata. Ricorda sempre il Rota: <<Il chiasso dannunziano richiama intorno a Zecchin tutto il 'mondo intellettuale': la Duse, Orano, Corrado Ricci, Beltramelli, Teresah, Gray, il Principe Borghese, Gallenga, ecct. ecct. Tutti vogliono vedere - come dice lui - la  bella  bestia, tutti vogliono conoscerlo, sentirlo: egli parla, parla di pittura, di poesia, di musica e le visioni più singolari prendono forma dalla sua calda voce. Lo chiamano 'taumaturgo del colore' - 'mago della vita' - 'il più  ricco  e  il  più  povero

 

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Gardone Riviera, Vittoriale degli Italiani, veduta della Stanza del Monco dove sono conservati alcuni vetri di Vittorio Zecchin.

 

degli uomini'... Egli lascia dire[...] L'armistizio trova così Zecchin con un aureola di gloria pura e fame da lupo: tanto che minaccia seriamente di fare l'ottavo morto per mancanza di polenta...>>84.

 

  La guerra aveva cambiato tutto. L'entusiasmo iniziale che aveva spinto i giovani a voler affrontare di faccia i combattimenti, fu ben presto soppiantato dalla fredda logica della realtà bellica e la guerra stessa, come ebbe e dire Gozzano, <<ritolse tutte le sue promesse>>. L'evento bellico pose fine all'Ottocento, spintosi ormai per quasi due decenni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria mutilata", dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva essere.

  Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell'Italia artistica del dopoguerra.

  La guerra aveva portato via Boccioni e, nel 1919, la febbre spagnola si portò via anche Moggioli. Gino Rossi, dopo la drammatica esperienza di Restatt, elaborò un linguaggio artistico di difficile comprensione anche per lo stesso Barbantini, e, dopo qualche anno, la malattia lo costrinse ad uscir di scena. Troppe cose erano cambiate, soprattutto nella volontà degli artisti rimasti.

  All'interno del gruppo capesarino, nell'organizzazione della mostra di quell'anno, tanto attivamente gestita da Barbantini, l'”U.G.A.”, l'Unione Giovani Artisti, sorta su iniziativa di Teodoro Wolf Ferrari, aveva creato dissidi. Zecchin stesso partecipò all'Unione ma, come Gino Rossi, non accettandone in tutto le idee.

  La mostra di Ca' Pesaro, inaugurata il 12 luglio del 1919, si rivelò, in ogni caso, tra le più belle e riuscite di tutta la storia della Fondazione. Il catalogo porta una lunga presentazione di Gino Damerini, dov'è riassunto tutto quanto Ca' Pesaro aveva fatto, ed era stata, prima della guerra. I giornali locali e nazionali accolsero con entusiasmo la manifestazione e, come il mondo culturale, non tardarono a definirla il più importante evento artistico del dopoguerra. A Vittorio Zecchin fu dedicata un'intera sala, dove espose, in una mostra personale, arazzi e vetri, che andarono quasi a ruba e che testimoniarono gli sforzi artistici fatti dal muranese durante l'evento bellico. Il riconoscimento del suo operato e della sua sensibilità venne anche dagli organizzatori della mostra, che lo chiamarono, accanto a Gino Damerini, Gino Rossi, Ercole Sibellato e Teodoro Wolf Ferrari, a far parte della giuria d'accettazione. L'Esposizione attirò su di sé e su Venezia l'attenzione di tutta la critica nazionale. Venezia poteva sperare di assumere un'importanza primaria nel determinare la strada o influire significativamente sul cammino dell'arte italiana. Oltre tutto, <<Pareva proprio che il grande ideale di Ca' Pesaro stesse per essere finalmente accettato e che le grandi esposizioni ufficiali fossero sul punto di aprire le porte alle proposte di rinnovamento dell'arte che i giovani di Ca' Pesaro avanzavano da anni>>85. La stessa mostra di Natale del Circolo Artistico della Galleria Geri-Boralevi, dove Zecchin espose due pitture a tempera, sembrava preludere a questo.

  La mostra capesarina del '19, aveva evidenziato però, negli artisti stessi, una volontà diversa da quella che dominava prima della guerra. Ca' Pesaro reclamava un pieno riconoscimento a tutti i livelli: gli artisti, non più giovanissimi ed inesperti, avevano tutti oramai delineato il loro percorso artistico e l'istituzione serviva ancora come punto d'esposizione e di lavoro, ma non rappresentava più l'unica ed indispensabile possibilità. Ognuno aveva maturato una propria fisionomia artistica che poteva continuare autonomamente. Le polemiche con la Biennale avevano in un certo modo perso di senso e dovevano volgere velocemente all'epilogo: la realtà nel dopoguerra era cambiata e, come conseguenza, doveva cambiare ogni cosa. L'esigenza di romper con il tradizionalismo di stampo ottocentesco venne meno: la guerra stessa aveva spazzato via tutto quanto di ottocentesco fino a qualche anno prima era ancora forte e vivo. A Venezia non ci fu, tolte le persone più accorte, una precisa coscienza delle mutate e nuove esigenze culturali. L'isola geografico-lagunare della città fu toccata solo indirettamente dall'evento bellico, e per taluni rimase la convinzione che le cose potessero continuare come prima. Alla base di quanto successe nel 1920 e dopo, per qualche anno ancora, ci fu un ultimo, disperato tentativo di riesumare una cultura ormai morta, quanto mai anacronistica e fuori luogo. La Biennale di quell'anno ne fu un esempio.

  <<Il 1920 fu un anno di grandi cambiamenti, sia alla Biennale che a Ca' Pesaro, anche per la scomparsa di alcuni personaggi che ne avevano determinato, nel bene e nel male, l'ormai lunga vicenda. Cambiò anche il sindaco della città - Filippo Grimani - in seguito alla crisi della giunta moderata da lui presieduta per quasi venticinque anni e venne sostituito da un commissario straordinario. In Biennale venne perciò nominato un presidente (fino ad allora era lo stesso sindaco a presiedere l'ente) nella persona di Giovanni Bordiga. Inevitabilmente cambiò anche il segretario e Vittorio Pica, vice segretario sin dal 1912, sostituì finalmente Antonio Fradeletto>>86. La Biennale riaprì con un'esposizione ambiguamente deludente. Vittorio Pica ebbe l'accortezza, con l'aiuto di un commissario d'eccezione come Paul Signac, di dare un panorama dell'Impressionismo e Postimpressionismo francese, nonché di accogliere opere di Van Gogh e Archipenko; ma d'altro lato, sotto le direttive comunali, dovette escludere proprio quelle avanguardie nazionali e locali che, con la mostra del 1919, reclamavano l'atteso riconoscimento87. Il mondo artistico e culturale italiano del dopo guerra, con gli occhi puntati su Venezia, e sulla Biennale innanzi tutto, aveva bisogno di una mostra in grado di dare una esaustiva panoramica su quanto era successo prima della guerra e, allo stesso tempo, di vedere raggruppate in un'unica sede espositiva le nuove tendenze artistiche sulle quali poter edificare la cultura figurativa post-bellica. Vittorio Pica non fu in grado di dare tanto subito: la sua opera di rinnovamento all'Esposizione Internazionale richiese ancora qualche anno. Nel 1920, la Biennale sembrò voler ignorare quelle che erano le nuove esigenze di una nazione che di colpo s'era gettata nel nuovo secolo. Ai Giardini, nelle sale italiane, tutto era volutamente rimasto come negli anni precedenti88.

  Nino Barbantini stava facendo del suo meglio per organizzare l'esposizione palatina del 1920. A dimostrazione dell'importanza della mostra, aveva invitato anche molti artisti che non gravitavano nell'orbita di Ca' Pesaro89. Una decisione comunale, però, cambiò la giuria d'accettazione della Fondazione90, la quale fu spinta ad adottare alla lettera, non senza voluti fraintendimenti, quanto dettato dal testamento della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa. Ci fu una sorta di Serrata del Maggior Consiglio: con lo stesso criticato metodo della Biennale, vennero accettati quasi tutti gli artisti che si erano presentati (senza attuare quella discriminazione qualitativa che aveva fatto tanto interessanti le mostre palatine), ed esclusi i <<non veneziani>>. Felice Casorati, che tanto desiderava esporre a Ca' Pesaro (e che già aveva esposto nel 1913), fu una delle pochissime esclusioni ed ovviamente susciutò l'ira di tutti i colleghi91.

  La reazione fu immediata. Venne allestita, presso la galleria Geri-Boralevi, in piazza San Marco, ed inaugurata il 15 luglio (quindici giorni dopo l'apertura di Ca' Pesaro), l'Esposizione degli Artisti Dissidenti di Ca' Pesaro: <<Si trattava di una presa di posizione clamorosa che per la prima volta allontanava da Ca' Pesaro, cioè dalla sede storica, un gruppo di artisti tra i più rappresentativi della ricerca veneziana del tempo>>92. Un'articolo comparso ne' "La Gazzetta di Venezia" dei primi giorni di luglio, e riportato poi all'interno della presentazione del catalogo della mostra, precisava: <<I sottoscritti venuti a conoscenza dei nuovi criteri con i quali sarà organizzata quest'anno la Esposizione di Ca' Pesaro; criteri che, dovuti ad una agitazione inconsulta ed infondata sotto tutti gli aspetti così giuridici per quanto riguarda la interpretazione del testamento della Duchessa Bevilacqua La Masa, come artistici, sono stati accettati dal Commissario Regio, e contrastano con quelli che nei precedenti anni crebbero fama nazionale alle Esposizioni stesse; Considerato, che in base alle nuove disposizioni vengono esclusi specialmente quegli artisti i quali con il loro costante intervento richiamarono su Ca' Pesaro l'attenzione del mondo artistico, giovando in particolar modo ai giovani meno noti; considerato che l'agitazione di cui sopra è ora rivolta ad ottenere l'allontanamento dalla Mostra di uno di questi artisti e precisamente di Felice Casorati; protestano per le arbitrarie disposizioni intervenute a distruggere a beneficio di non si sa che, certo non dell'Arte, il lavoro compiuto fino alla IX Esposizione di Ca' Pesaro; e deliberano di astenersi da quella di quest'anno invitando quanti riconoscono la bontà di tale decisione ad uniformarvisi>>. Firmano lo scritto: Carlo Carrà, Teodoro Wolf Ferrari, Pio Semeghini, Guido Balsamo Stella, Guido Trentini, Gino Rossi, Gigi Scopinich, Vittorio Zecchin, Federico Cusin, Emilio Notte, F. Dudreville ed Ercole Sibellato. La mostra alla Geri-Boralevi fu indubbiamente più interessante di quella palatina, ma segnò la fine della gloriosa stagione di Ca' Pesaro93.

  Venezia aveva così mostrato la sua volontà, nel tentativo d'ignorare quanto era successo di nuovo, di ristabilire, e con maggior determinazione nella speranza di riuscirci, una tradizione artistica e culturale non solo vecchia, ma ormai anche morta. La polemica con la Biennale non aveva più senso: se Venezia voleva rimanere legata ad una determinata cultura, altrove, in Italia, le cose stavano cambiando veramente. Tanto più che la Biennale stessa, negli anni successivi, iniziò, per merito di Vittorio Pica, ad accogliere quegli artisti, ormai non più sconosciuti, che per tanti anni l'avevano contestata. I "ribelli" di Ca' Pesaro, non essendo un movimento artistico, ma solo un gruppo di artisti dalle forme espressive diverse, dopo essersi allenati nella "palestra" sul Canal Grande (e dopo che questa aveva ormai perso quella stessa funzione di "palestra qualitativa"), nel momento in cui venne meno il senso della polemica, scelsero ognuno di continuare il proprio percorso artistico autonomamente, là dove ritennero più opportuno direzionarsi. Il tentativo di Venezia, nei primi anni del dopoguerra, di ripristinare una cultura passata, spinse tanti dei capesarini a lasciare la città, cercando altrove quello che Venezia voleva ignorare. Dal 1921 vi fu una specie di vera diaspora. Anche chi rimase i città, non mantenne più quei forti legami che sussistevano prima con l'istituzione di Palazzo Pesaro. Zecchin stesso, ancora giovane ma non più giovanissimo (aveva superato i quarant'anni e quell'anno s'era anche sposato), pur mantenendo sempre i rapporti con le istituzioni artistiche cittadine, volgeva i propri interessi alle arti applicate trascurando ogni sorta di polemica che aveva caratterizzato l'ambiente palatino. Già nel 1919, a Roma, con spirito ben diverso dalle altre mostre alle quali aveva già partecipato nella capitale, espose vari lavori in stoffa nella sezione veneziana all'Esposizione Italo Britannica d'Arti e Mestieri e altre sue opere vennero portate ed esposte all'estero. La collaborazione con il laboratorio per il ricamo della stoffa, aperto dalla contessina Pia di Valmarana a Saonara nel 1919, e con altre ditte operanti nell'artigianato, lo portarono a fare di Ca' Pesaro solo un ricordo e ad esporre, regolarmente ogni due anni, proprio alla contestata Biennale. A tutte le mostre a cui partecipò da questo momento, e si pensi alla personale tenuta alla galleria Pesaro di Milano assieme a Vettore Zanetti Zilla, Guido Marussig e Benvenuto Disertori, dove espose essenzialmente arazzi, mosaici e vetri, Vittorio Zecchin si presenterà con opere d'arte applicata eseguite, su suoi disegni, da numerose ditte artigianali locali. Per Zecchin e per altri artisti era finita una stagione gloriosa, bisognava guardare avanti.

 

Note

1 - La città stessa fu sempre un luogo d'attrazione mondana e artistica e, specie agli inizi del Novecento, località balneare e culturale tanto alla moda.

2 - Dal testamento della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, redatto nel 1898.

3 - Non vennero però svolte opere proponitive o organizzative per la mancanza di un responsabile direzionale.

4 - Al 1897, risale il primo nucleo dell'istituenda Galleria d'Arte Moderna della Città di Venezia, allorché il principe Alberto Giovannelli, a tale scopo, acquistò e poi donò un gruppo di opere scelte tra quelle esposte alla Seconda Biennale. L'esempio del principe fu subito seguito da altre illustri personalità cittadine e il Comune stesso stanziò una somma di denaro annua per l'acquisto di opere d'arte da collocare nella neo-nata istituzione.

Prima nell'appartamento d'onore di Ca' Foscari, dal 1902 la Galleria Internazionale d'Arte Moderna trovò nel piano Nobile di Palazzo Pesaro la sua definitiva sede. Ufficialmente esistente dal 1897, la Galleria, come pure la Fondazione Bevilacqua La Masa, dovette attendere il concorso del 1907 per avere il suo direttore ed iniziare ad effettuare la sua attività espositiva (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano, 1982, p. 20).

5 - ENZO DI MARTINO, L'Opera  Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984 , p. 17.

6 - L'Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia divenne ente autonomo nel 1930.

7 - Ancora oggi (1992) l’istituzione rientrante nell'orbita comunale.

8 - Pure alle dipendenze comunali, dopo le prime donazioni di fine secolo (vedere nota 4), la Galleria aveva continuato ad accogliere gli acquisti di opere d'arte del Comune, attinte prevalentemente dagli artisti allora più in voga. Guido Perocco evidenzia come furono preferite, ad esempio nel 1903, opere di pittori come Dall'Oca Bianca, Sartorio, Selvatico, Tito o Miti-Zanetti ad opere disponibili di Manet, Renoir, Sisley, Pissarro o dello stesso Fattori tra gli italiani, addirittura talvolta in vendi a prezzi più bassi (GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965).

9 - Sindaco di Venezia dal 1895 al 1919 fu il conte Filippo Grimani, il quale, in fondo, già promotore di altre importanti iniziative per la città, ebbe sempre un occhio di riguardo nei confronti di Barbantini e dei giovani espositori di Ca' Pesaro.

10 - Le raccomandazioni fatte a Barbantini sin dalla sua prima visita in municipio, riguardavano la disciplina dei giovani artisti ospiti di Ca' Pesaro e l'opportunità che le sue mostre non disturbassero le Biennali di Antonio Fradeletto (ENZO DI MARTINO, L'Opera  Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 18).

11 - <<Lo spazio era sempre tiranno. In un allestimento tra cimiteriale e termale, con intermezzi ora frivoli ora pretenziosi, il 'salon' biennalesco si presentò nelle prime edizioni come una enorme stipatissima collettiva[...] Ogni artista esponeva uno o due o tre quadri al massimo>> (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano, 1982, p. 25).

12 - <<Quella volta per le Biennali i giovani era come se non esistessero. Se ce ne sgattaiolava dentro uno ogni tanto, era per sbaglio o l'avevano scelto apposta tra quelli che assomigliavano ai vecchi: da scambiarli. Facendo a questo modo le Biennali facevano anche il nostro gioco>> (NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 265).

13 - (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, pp. 19, 20).

14 - <<Da principio laggiù in fondo, cacciati com'eravamo a San Stae; (che allora anche il vaporetto tirava avanti e si fermava più in là, e i veneziani di San Marco o di Castello per arrivarci domandavano la strada); pochissimi ci capitavano, e per lo più per riderci, o per indispettirci, o per alzarci le spalle. Cinque o sei al giorno ci parevano tanti>> (NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, pp. 265, 266). <<Tutti gli occhi del pubblico erano rivolti ai Giardini di Castello, alla Biennale. Oltretutto Ca' Pesaro era abbastanza isolata, non esisteva l'attuale approdo dei vaporini ed è curiosità interessante l'insistenza con la quale Barbantini richiedeva, con numerose lettere indirizzate al sindaco di Venezia, un'adeguata réclame dell'iniziativa e la disposizione di cartelli indicatori del percorso da San Marco a Ca' Pesaro>> (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 19).

15 - E' da ricordare che la parte del testamento della duchessa prima ad essere attuata, fu la concessione degli studi, gratuitamente o a basso prezzo, ai giovani artisti. Fin dal 1901, alcuni di loro ebbero alloggio a Ca' Pesaro.

16 - Lo stesso Gino Rossi, di ritorno l'anno prima da Parigi, dove era stato con Arturo Martini, nel 1908 inviò a Ca' Pesaro un disegno e una incisione, ma vide rifiutata la possibilità d'esporre; la mancanza di documentazione attestante la sua partecipazione l'anno dopo e il ritiro nel febbraio del 1910 di cinque opere da parte della madre, fa supporre che ancora gli fosse stato negato l'accesso (Gino Rossi, catalogo a cura di LUIGI MENEGAZZI, Milano, 1974, p. 133).

17 - L'unico screzio tra le due istituzioni riguardò il manifesto pubblicitario della mostra palatina disegnato da Guido Marussig: il pittore inserì il leone marciano che già usava la Biennale. Subito Fradeletto scrisse una lettera di rivendicazione e ammonimento a Barbantini.

18 - <<[...]la presenza di artisti come Guglielmo Ciardi, Fragiacomo, Laurenti, Milesi, già illustrie e partecipanti assidui dell'Esposizione ai Giardini, irritarono Fradeletto che trovò modo di richiamare i dirigenti di Ca' Pesaro all'osservanza della volontà della testatrice -confermata dal regolamento- sull'esigenza che alla mostra accedessero soltanto giovani artisti e artisti non arrivati>> (ROMOLO BAZZONI, 60° della Biennale di Venezia, Venezia, 1962, p. 80).

19 - ARDENGO SOFFICI, in "La Voce", 1909.

20 - <<Non bisogna peraltro dimenticare che le prime rassegne italiane d'arte furono proprio quelle di Ca' Pesaro e che il ruolo svolto in questo senso dalla Fondazione supera certamente i confini lagunari>> (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 18).

21 - Quell'anno, il pittore trentino, ebbe una personale con una quarantina di "impressioni romane". E' interessante notare come a Ca' Pesaro furono subito allestite le mostre personali, quando alla Biennale, se pur negli anni precedenti vennero raggruppate più volte diverse opere di un unico artista, solo a partire dal 1909 venne istituzionalizzata l'abitudine agli "omaggi di mostre personali" (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1985 - 1982, Milano 1982, p. 25).

22 - GINO DAMERINI, La Permanente di Palazzo Pesaro e la mostra di Ugo Valeri, in "La Gazzetta di Venezia", 7 novembre 1909. <<[...]mi preme pure fare il nome di tre letterati che non possono mancare accanto all'animatore di tutta l'impresa [capesarina, durante il primo decennio di vita], Nino Barbantini, e sono Gino Damerini, per primo, Diego Valeri e Giovanni Comisso subito dopo. Gino Damerini, il più battagliero difensore di Ca' Pesaro su un quotidiano autorevole come "La Gazzetta di Venezia", in qualità di critico d'arte e di teatro; Diego Valeri, affettuosissimo fratello minore di Ugo Valeri, compartecipe in profondità del suo dramma; Giovanni Comisso, cugino di Nino Springolo, a lui unito e ad Arturo Martini nello stesso fronte di battaglia,”sentinelle avanzate  nell'arte moderna”, come voleva Gino Rossi, senza un attimo di sosta>> (GUIDO PEROCCO, Venezia: gli anni di Ca' Pesaro, 1908 - 1920, in Venezia - Gli  anni di  Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 28).

23 - Ugo Valeri morì tragicamente, a solo trentasette anni, il 27 febbraio 1911 cadendo dal terzo piano di Palazzo Pesaro. E' da sottolineare come il pittore di Piove di Sacco fosse uno dei canali di contatto tra l'istituzio palatina e il Futurismo, sin dalo 1909, grazie alla sua amicizia con Filippo Tommaso Marinetti (GUIDO PEROCCO, Venezia: gli anni di Ca' Pesaro, 1908 - 1920, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 33).

24 - <<Lo stile di Toorop è rivissuto da Vittorio Zecchin in alcuni quadri di soggetto religioso presentati a Ca' Pesaro dal 1909 al 1910>> (Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 5).

25 - <<[...]alla Biennale del 1910 il segretario generale Fradeletto fece togliere dal padiglione centrale, un'opera di Picasso perché con la sua novità[...] avrebbe potuto scandalizzare il pubblico[...] Picasso -incredibile a dirsi- entrerà per la prima volta alla Biennale nel 1948!>> (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia del la Biennale 1985 - 1982, Milano 1982, p. 20).

26 - <<[...]l'organizzazione della "Sala della gioventù" doveva essere o apparirgli [a Barbantini] come un'infida “concorrenza” di Fradeletto>> (FLAVIA SCOTTON, Un'estetica della gioventù: Barbantini e Palazzo Pesaro, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 89).

27 - Quelle mostre aprirono <<uno spiraglio di speranze che anche Soffici dovette ammettere, a denti stretti, nel giudizio nitido e severo che egli dette del panorama dell'esposizione>> (GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965).

28 - <<La Biennale del 1910, tutta per inviti, andava preparata in gran fretta che permise di accettare a scattola chiusa una personale di Renoir e una retrospettiva di Courbet (presentata da Ojetti), l'individuale di Klimt, ma anche una serie meno felice di sale accaparrate dai protagonisti accreditati delle tradizioni locali, Brass Fragiacomo, Sartorelli, Scattola[...]>> (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 48).

29 - Scrisse Nino Barbantini in Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi (in Scritti d'Arte, Verona, 1953): <<[...]i fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La fanciulla in fiore, che a me e a pochi amici con gli occhi aperti parevano bellissime e levavamo ai sette cieli. Finalmente la staffetta della gioventù, anzi la gioventù in persona aveva bussato alla nostra porta>>.

30 - La mostra personale di Umberto Boccioni allestita a Ca' Pesaro nell'estate del 1910, fu in assoluto la prima mostra che l'artista ebbe.

31 - <<[...]resta però ribadito il carattere di sfida che l'invito di Boccioni a Ca' Pesaro veniva ad assumere agli occhi di Fradeletto, ben prima del rumoroso battage pubblicitario organizzato da Marinetti per l'apertura della mostra. L'adesione al futurismo aumentava il richiamo trasgressivo dell'operazione che accoglieva la personale di un giovane non accettato in Biennale (a questo si aggiunga il silenzio di Barbantini, che poteva sembrare doppiezza[...]). Si spiega così il tono adirato di una minuta, con l'indicazione”riservatissima”, di Fredeletto al sindaco Grimani, circa la donazione, annunciata da Boccioni durante la personale capesarina, del suo quadro La maestra di scena alla Galleria d'Arte Moderna di Venezia[...] La riportiamo[...] perché permette di datare con precisione l'apertura delle ostilità[...]: “Venezia, 21.VII.910 / Gentilissimo Signor Sindaco, Leggo ora nei giornali che il giovane pittore[...] futurista Boccioni Le ha scritto, offrendo un suo quadro alla nostra galleria internazionale d'arte moderna. E così siamo giunti a questo estremo, che chi partecipa ad una Mostra destinata essenzialmente ad incoraggiare i giovani, gli esordienti, osa offrire un'opera sua ad una delle più importanti Gallerie moderne d'Europa. Sarebbe un atto d'orgoglio veramente... futurista, se non fosse qualche cosa di diverso e di peggio. E' un atto intenzionalmente suggerito[...] Ora si vorrebbe fare entrare addirittura in Galleria ciò che non è entrato nella Mostra [della Biennale...]”>> (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 50).

32 - In una lettera datata 19 settembre 1910 a Prezzolini, Ardengo Soffici, a Venezia per visitare la Biennale e spintosi fino a Ca' Pesaro per la curiosità di vedere la mostra futurista di Boccioni, così commenta: <<Ho visto anche quella futurista di Boccioni. Stupida, mediocre e per nulla futurista>>.

33 - Non si dimentichi che il Futurismo, assieme alla Metafisica, fu l'unica avanguardia italiana ad avere una importante eco internazionale.

34 - <<[...]e nacque anche quel “centro” artistico di Burano, ove alcuni pittori avevano preso dimora e molti capitavano di tanto in tanto, dopo gli scontri cittadini, in cerca di solitudine e di ispirazione. Burano era un rifugio e un riposo. Quando la brigata partiva dalle Fondazione Nuove - ha scritto Barbantini - tutto il mondo era suo. “Le barene, l'acqua il cielo parevano una sostanza sola aerea e azzurra[...] Ridevamo e cantavamo. Ci lasciavamo indietro i pensieri e le persone serie, gli avvocati, la politica, gli uomini d'affari, gli uffici, il ricordo stesso della nostra vita vissuta fino all'attimo dell'imbarco. Rinascevamo ogni volta[...]">> (SILVIO BRANZI, Ca' Pesaro - Prima Voce del l'Arte Moderna Italiana, Venezia 1959, p. 4).

35 - E' però, forse proprio dal 1910, che Gustav Klimt inizia, nel suo percorso artistico, ad avere influssi slavi.

36 - L'artista americano, che soggiornò a lungo a Venezia e che ebbe rapporti con l'ambiente preraffaellita, fu presente già alla prima Biennale e partecipò, nel 1903, alla “Mostra Internazionale del Ritratto Moderno”, tenuta sempre ai Giardini.

37 - I dipinti di Gustav Klimt esposti alla Biennale del 1910 furono: Il castello, Ritratto della signora Adele Bloch, I Faggi, Amiche, Il melo, Il girasole, Le rose, Il parco, Il frutteto, Lo stagno, Le tre età, Serpi d'acqua, Juditta (II) (opera acquistata per la Galleria Internazionale d'Arte Moderna della città), Visioni, Vecchia donna, Rosso e nero, Cappellino viola, Temporale, Il cappello dalla piuma nera, Prato fiorito, Giovanetta e Famiglia.

38 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

39 - KARL KRAUS, Il vaso di Pindora, in F. WEDEKIND, Lulu, Milano 1972, p. 23.

40 - <<”Enide” è un termine introdotto da Weininger per significare quel momento in cui non è distinguibile la sensazione dal sentimento, cioè una rappresentazione senza contorni, oscura, indefinibile, priva di differenziazioni>> (EVA DI STEFANO, Il complesso di Salomè, Palermo 1985, p. 28). <<L'uomo ha gli stessi contenuti in forma articolata come la donna, ma quando questa pensa più o meno in enidi, quello ha già rappresentazioni chiare e distinte[...] Per la donna pensare e sentire sono la stessa cosa, mentre l'uomo può sempre distinguere[...] L'uomo vive cosciente, la donna no>> (OTTO WEININGER, Sesso e Carattere, Milano 1945, p. 99 e p. 168).

41 - Scrive Vittorio Pica: <<Non è di pittori, buoni mediocri o cattivi, che manchiamo ai nostri giorni in Italia - l'ho scritto e lo ripeto con profonda convinzione - ma bensì di accorti intelligenti instancabili cultori delle industrie artistiche e quando se ne trova qualcuno[...] lo si deve incoraggiare ed aiutare come più e come meglio si può>> (L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, catalogo a cura di VITTORIO PICA, Galleria Pesaro, Milano, 1923, pp. 28 - 29).

42 - Vittorio Pica, nella presentazione della mostra di Zecchin alla Galleria Pesaro di Milano nel 1923, accenna ad influenze dell'eccentrico e geniale disegnatore inglese, ospitato alla Biennale del 1910.

43 - Felice Casorati parteciperà, però, per la prima volta a Ca' Pesaro nel 1913.

44 - vedere nota 23 del capitolo.

45 - <<A documentare questo clima basterà la lettera che i giovani artisti trevigiani - chiaramente ispirati, anche nella stile irruente, da Arturo Martini - inviarono nel 1911 (la lettera non ha indicazione di data come spesso quelle di Martini) a Nino Barbantini che viene definito “Anima libera e forte, che comprende i nostri sforzi, le nostre idealità”.”Il gruppo giovanile trevigiano - afferma la lettera - prende impegno fin d'ora di fare il possibile acciò la prossima permanente veneziana sia fiera risposta e monito insieme, alla grande camarilla, piaga dei favoritismi e dedizioni vergognose che si chiama la Biennale Veneziana”. La lettera era firmata da Arturo Martini, Bice e Gino Rossi, Ascanio Pavan e Arturo Molossi>> (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 26).

46 - <<Fradeletto aveva dovuto cedere sulle date, anticipare la nona edizione della Biennale e ora guardava con sospetto alla concorrenza romana più che alle alternative giovanili veneziane>> (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 53).

47 - MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di  Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 53.

48 - <<La collaborazione tra Barbantini e Fradeletto si muoveva così nel 1912 su due fronti: se Barbantini appianava le difficoltà dell'organizzazione della sala di Previati[...] Fradeletto consigliava il giovane collaboratore, ansioso di stabilizzare attraverso un qualche concorso la propria posizione professionale, sui tempi e sui modi amministrativi, confermandogli la propria fiducia>> (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli  anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 56).

49 - Lo stesso Barbantini iniziò da questo momento, nonostante l'alternarsi di accese polemiche (che avranno il loro apice proprio l'anno successivo), un lavoro <<teso a mediare con grande oculatezza e prudenza i contrasti con la “maggiore istituzione”>> (FLAVIA SCOTTON, Un'estetica della gioventù: Barbantini e Palazzo Pesaro, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 89).

50 - <<Quando, col pensiero palese di favorire la mostra romana del 1911, ma con quello segreto di recarle il più gran danno possibile, il Comitato veneziano decise di replicare a un anno di distanza la sua biennale, non si accorgeva forse del grande errore che stava commettendo. La Mostra del 1910 fu di per sé mediocre: questa del 1912 lo è anche di più. Ora, siccome fra l'una e l'altra, aveva avuto luogo quella magnifica di Valle Giulia, così il confronto fu anche più visibile e disastroso[...] Il secondo errore, poi, consiste nell'aver snaturato il carattere della Mostra veneziana e di averla resa un'esposizione come tutte le altre[...] Certo il pubblico, che si era abituato ad una complessa armonia di arte, a una più intera e moderna manifestazione estetica, ritorna malvolentieri ai vasti saloni ignudi, ove le tele sono attaccate una accanto all'altra, senza un criterio decorativo, senza una visione d'insieme. I bei giorni delle sale regionali sono lontani: il danno è tanto più grande in quanto le opere esposte quest'anno non sono di tale importanza da far passare sopra a quella manchevolezza>> (DIEGO ANGELI, Secessionisti veneziani, in "Il Giornale d'Italia", 6 ottobre 1912).

51 - Nonostante la partecipazione di Umberto Moggioli e Felice Casorati (quest'ultimo, è da questo momento che inizia a legarsi agli amici di Ca' Pesaro), vennero esclusi molti altri giovani e, come due anni prima, i Futuristi. In quell'occasione, il Comune acquistò, per la Galleria Internazionale d'Arte della Città, il dipinto di Casorati Le signorine.

52 - <<Lei dice sempre e torna a dire e fa giurare e spergiurare dalla falange compunta dei critici ufficiosi pendenti dalle sue labbra, che l'arte di tutto il mondo di ieri e di oggi fu riassunta dalle mostre che si sono susseguite dal 1895 in giù[...] Lei invece ha fatto pochissimo, e quel poco l'ha fatto male[...] Metta da parte i Lembach, gli Stuck, gli Zorn, i Besnard, i Roll e i troppi monsignori di quella risma, che da quasi un ventennio sono sempre gli stessi[...] Ci indennizzi in fretta delle omissioni e degli equivoci, provvedendo ad informarci, biennalmente, senza reticenze e ritardi, di quanto si è fatto nel biennio di veramente vivo e di seriamente discutibile in Europa>> (NINO BARBANTINI, da una lettera del 1912 inviata ad Antonio Fradeletto).

53 - Gino Rossi e Arturo Martini erano a Parigi dove, assieme, esposero al Salon d'automne.

54 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

55 - Lo stesso Diego Angeli, nell'articolo parzialmente riportato in nota 50, segnalava nella mostra capesarina la sezione del gruppo "L'Aratro" e la indicava come esempio per il nuovo gruppo romano, suggerendo e poi continuando: <<E intanto io raccomando questi nomi ai secessionisti di Roma i quali nel prossimo gennaio  affronteranno per la prima volta il giudizio del pubblico. E' bene che tutti i giovani d'Italia si facciano conoscere e si uniscano in un unico scopo di lotta. Contro le grandi e piccole camorre ufficiali e governative che inquinano l'arte italiana, non c'è altro rimedio che la bella azione rivoluzionaria dei giovani per ricondurre la vita feconda, là dove tante morte gore rendevano l'aria irrespirabile e dannosa agli organismi sani. E' per questo che io saluto con speranza i secessionisti veneziani, i quali per la loro tenacia col volere e l'attività di un solitario come Gino Damerini, cui le lusinghe ufficiali non hanno presa, sono già riusciti a compiere il miracolo di una mostra d'arte, organizzata con intendimenti nuovi, contro i vecchiumi della Biennale che vanno sempre più riconquistando il terreno da cui un tempo erano stati esclusi>> Il tono polemico dell'articolo e il lapsus tra Damerini e Barbantini suscitò tutto un imbarazzo epistolare particolarmente sentito dal ferrarese che, come già s'è detto, preferiva, quando possibile, in quanto impiegato comunale, cercar di mediare piuttosto che polemizzare apertamente con l'istituzione maggiore.

56 - <<Le vetrate e i vasi di un pittore di grande talento come Wolf Ferrari[...] sono frutto probabilmente della prima collaborazione artigianale con Vittorio Zecchin>> (Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6).

57 - Già a Napoli, all'Esposizione Giovanile Nazionale, inaugurata il 23 febbraio 1912, avevano partecipato, tra altri artisti d'Italia, i capesarini Gino Rossi, Arturo Martini e Teodoro Wolf Ferrari, e l'anno successivo la lista delle partecipazioni veneziane s'incrementò.

58 - L'opera, nonostante la diversità del titolo con cui è ricordata, è con ogni probabilità da identificarsi con quella conservata in collezione Costantini a Murano, la quale, a conferma di questo, porta sul verso, sul telaio, l'etichetta dell'Esposizione della Secessione romana del 1913.

59 - Barbantini si riferisce all'articolo di Diego Angeli su "Il Giornale d'Italia" del 6 ottobre 1912.

60 - NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 266.

61 - GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965.

62 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984.

63 - FLAVIA SCOTTON, Un'estetica della gioventù: Barbantini e Palazzo Pesaro, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 89.

64 - La mostra <<fu profondamente positiva, tanto positiva, che poteva preludere ad una svolta decisiva nell'impostazione delle stesse Biennali con determinanti conseguenze sull'indirizzo dell'arte italiana>> (GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965)

65 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 32.

66 - La murina bianca a forma di stella sulla destra della lastrina, che è generalmente ritenuta una sigla con la quale Zecchin usava firmare certi lavori a vetro mosaico, si trova anche sulla ciotola Millefiori (Tav. ...), conservata al Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera, la quale, per certi aspetti, sembra più opera di Teodoro Wolf Ferrari che del nostro. Questo m'ha fatto ipotizzare che la murrina bianca a forma di stella non sia la sigla di Vittorio Zecchin, ma possa essere la sigla con la quale i due artisti hanno firmato un gruppo di lavori ideati in collaborazione.

67 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

68 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua  La Masa, Venezia, 1984, p. 32.

69 - Da una lettera del 1914 di Arturo Martini a Nino Barbantini.

70 - Dalla stessa lettera della nota 69: <<C'è nessuna novità circa l'esposizione? nessun impedimento o va tutto bene? O male o bene bisognerà infischiarsene dei signori impedimenti e anche quest'anno mettersi con tutte le nostre forze contro l'Internazionale>>.

71 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 33.

72 - Sfogliando i giornali dell'epoca, e soprattutto il quotidiano "La Gazzetta di Venezia, e passando la documen tazione conservata nelle "scatole nere" dell'Archivio Storico della Biennale di Venezia a Ca' Corner della Regina, si riscontrano le numerose vendite dei vetri esposti da Zecchin all'XI Esposizione d'Arte Internazionale della città.

73 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

74 - Da uno scritto di Alfredo Rota su Vittorio Zecchin, portante il titolo Un taumaturgo del colore: Zecchin da Murano e la data del 28 giugno 1941.

75 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, pp. 34 e 35.

76 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 34.

77 - Si riporta per intera la presentazione alla mostra dei Rifiutati all'Hotel Excelsior del Lido: <<Breve discorso per chiarire le ragioni di questa nostra manifestazione. Non furore iconoclasta contro i vecchi maestri che tengono oggi meritatamente il campo o ai danni della Biennale Veneziana ci sospinse ad essa, e neppure la coscienza di offrire estrinsecazioni artistiche in cui si sieno attuate a pieno le nostre potenzialità spirituali. Noi siamo consapevoli che il ritmo della storia si alimenta perennemente di tendenze che si esauriscono e di altre che si determinano in arcane penombre prima di espandersi vittoriosamente alla gloria del sole: e attendiamo fidenti la nostra ora, affrettandola con diuturna operosità, lieti che Venezia si sia fatta banditrice di una gara mondiale dell'arte. Vogliamo soltanto affermare che alla serietà ed al vigore dei nostri sforzi non può essere precluso questo campo di lotta (di quante zone grigie maculato!) e che intendiamo svolgere la nostra attività in mezzo al vivificante fervore dei consensi, delle avversioni delle polemiche nell'appassionante gioco dei confronti, che soli possano rilevare e definire compiutamente i valori umani. E poiché la giuria dell'undicesima Esposizione ci ha re spinti quali “pallidi ripetitori che non sanno né ove volgersi né ove mirare”, noi - pur rispecchiando indirizzi artistici diversi - abbiamo composti i nostri dissidi ideali in un affratellamento dignitoso per appellare alle competizioni artistiche. Abbiamo a tal uopo raccolte in una sala dell'Excelsior - concessaci dalla Società dei Grandi Alberghi con squisità amabilità - le opere reiette: e, a vie meglio lumeggiate l'ansiosa ed intensa nostra fatica di conquista, le abbiamo circondate di altre che segnano altri aspetti e altre aspirazioni. Il nostro pensiero ricorre - non senza un fremito di speranza - a molte mostre di rifiutati dalle quali balenò la luce di una novella fede. Non sta a noi profetare che anche da questo nostro manipolo emergeranno individualità cospicue, ma quale che sia la sorte che il futuro ci riserba, crediamo che non sarà stata pronunciata invano la nostra corretta e ferma parola di protesta quando siasi riconosciuta la nobiltà dei nostri intenti e l'ardore fattivo del nostro entusiasmo>>.

78 - GUIDO PEROCCO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965.

79 - E. R., L'Arte e la Casa - I pannelli di Vittorio Zecchin, in "Rassegna d'Arte Antica e Moderna", Roma, 1920, anno VII, pp. 84 e 85.

80 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

81 - E. R., L'Arte e la Casa - I pannelli di Vittorio Zecchin, in "Rassegna d'Arte Antica e Moderna", Roma, 1920, anno VII, pp. 84 e 85.

82 - Il racconto è riportato per intero da pagina 257 del capitolo Zecchin poeta e scrittore.

83 - Da uno scritto di Alfredo Rota su Vittorio Zecchin, portante il titolo Un taumaturgo del colore: Zecchin da Murano e la data del 28 giugno 1941.

84 - Da uno scritto di Alfredo Rota su Vittorio Zecchin, portante il titolo Un taumaturgo del colore: Zecchin da Murano e la data del 28 giugno 1941.

85 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua  La Masa, Venezia, 1984, p. 40.

86 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua  La Masa, Venezia, 1984, p. 41.

87 - Scrive Felice Casorati a Barbantini nel 1920: <<Non esporrò alla Biennale, benché abbia lavorato moltissimo in questi ultimi mesi[...] non esporrò alla Biennale perché preferisco la compagnia dei pochi che non esporranno, alla confusa comunanza dei troppi che esporranno>>.

88 - Commenta Gino Rossi, in una lettera del 1920 a Nino Barbantini, prima dell'apertura della Biennale: <<Nessuna esposizione avrà tanti illusi e spostati come la Biennale di quest'anno. Basta leggere i nomi e noi li conosciamo per quel che valgono. Per questa ragione io dico che non solo non abbiamo fatto un passo in avanti, ma ci troviamo in una situazione che più penosa non potrebbe essere>>.

89 - <<A leggere i documenti, le lettere del tempo, si ha tuttavia l'impressione che alcuni artisti prendano le distanze da Ca' Pesaro, e rifiutano l'invito ad esporre, quasi avessero paura di compromettere le loro relazioni con l'ambiente della Biennale>>. (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia 1984, p. 43).

90 - <<Una giuria d'accettazione - eletta - fu suo dire - dai colleghi “con larga votazione e in forma insolitamente democratica”, interpretò le parole della propria denominazione alla lettera, e si limitò ad accettare. Accettò a tutto spiano. Prese dentro tutto il branco. Per essere esatti: novantuno su novantasette concorrenti. Da notare che gli anziani di Ca' Pesaro, i pittori cioè e gli scultori del luogo che sapevano fare il proprio mestiere, s'erano tratti in disparte ed esponevano in gruppo in una bottega di piazza>> (NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 267).

91 - Impedendo a Casorati d'esporre a Ca' Pesaro la Biennale sperava di averlo nelle proprie sale.

92 - ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia 1984, p. 45.

93 - <<A modificare poi in definitiva la natura e le funzioni di Ca' Pesaro intervenne, di li a poco, l'indirizzo innovato delle Biennali, che cominciarono e continuarono egregiamente ad accogliere in casa loro i giovani di merito con la fiducia più sollecita. Ca' Pesaro seguita anche lei a far del bene, e seguiterà a farne. Ma in modi differenti da quello della sua origine, conformandosi ormai alle circostanze e alle convenienze che da allora sono sostanzialmente cambiate>> (NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 268).

  

Un artista tra le due Guerre 

<<- Idiota!

- Parassita!

- Aborto!

- Idiorto!

- Topo di fogna!

- Curato!

- Cretino!

- (con tono conclusivo). Crritico!>>

(S. Beckett, Aspettando Godot)

   <<Oggi, dopo un terrificante [bagno] di sangue, l'arte è “Novecento”.

  Novecento che lascerà un'impronta imperitura che rivelerà ed affermerà agli uomini che verranno, il più consolante dei messaggi: la liberazione assoluta dagli antichi dogmi, la conquista, non di un mitico paradiso, ma il godimento nell'eden vero e reale di una vita gioiosa, grandiosa e dinamica.

  Salve arte novecentesca finalmente liberata dalle tirannie e dal gelo d'un vieto accademismo, da leggi iconografiche, liberata1 dal [fondo] dell'eredità d'un passato oscuro ed avvilente, trionfa in tutto lo splendore della tua regalità superba ed indipendente e splende e fiammeggia nei tuoi giardini, il novecentista come il più rosso dei[...].

  Ma in tanta strabigliante vittoria c'è qualche piccola manchevolezza2.

  L'artista del novecento[...], il novecentista non essendo abbastanza classico, né abbastanza pagano per adorare la bellezza plastica e visiva delle forme non sa né esprimerla, né imprimerla nelle sue opere.

  Non essendo abbastanza sognatore o poeta per commuoversi e sognare alla visione delle cose create, non può amarle tanto da poterle spiritualizzare nell'opera.

  Trascinato da falsi, ipocriti idealismi, ubriacato da effimere conquiste materiali, ossequiente alle sagge leggi d'igiene, tutto compreso dalla necessità di razionabili comodità moderne, comodissime per nascondere la sua incapacità, la sua sterilità, la sua impotenza, dà vita ad opere “ermetiche” incomprensibili per lui e per tutti.

  Infarcito3 d'idee e dogmi materiali [...] non può comprendere i voli e le visioni spirituali.

  Neofita superbamente entusiasta d'un [...] credo puramente materialistico, nella sua mente, nel grigio terreno della sua materia cerebrale, non possono germogliare sogni grandiosi, visioni ultraterrene, idealità eteree.

  Adoratore dell'Io e della macchina suoi unici Dei, e abbacinato dalla propria “luce interiore” s'inchina riverente al moderno Moloc della forza bruta: la macchina.

  La macchina inanimata, incosciente, irresponsabile che paurosamente sostituisce l'opera dell'uomo.

  Nell'orribile, insopportabile stridore meccanico che tutto domina; nella frenetica conquista della rapidità, il novecentista affogato in uno stordimento accasciante non può avere il tempo ed il modo di osservare, comprendere e meditare sulle bellezze visive donate dalla natura, fuggenti ed impar[...].

  Nell'assenza assoluta d'una fede soprannaturale e serena, nella sola affannosa ricerca dell'originale, del razionale, del dinamico non può percepire e far suo il misterioso linguaggio delle cose; e nell'anima sua fredda, addormentata, se non morta, non può ardere la vivida fiamma d'amore per il bello, il sacro dono concesso al vero artista.

  Sperduto nel movimento caotico moderno, stordito e vinto dalle sue violenze non sa più discernere il bello dal brutto.

  Da vero superuomo dell'arte è al di là del bene e del male, al di là del bello e del brutto4.

  Sullo spirito del novecentista impera la materia. Alle meditate osservazioni, alle tormentose ricerche, agli affaticati studi è sostituita “la fotografia”. All'onestà e sincerità dell'umile artista del passato si contrappone la truffa e il trucco di una fattura falsamente ingenua. Dietro il paravento della purezza e potenza della linea rigida, della suggestiva espressione delle vaste superfici piane, quando non si costruiscono cassoni d'imballaggio, si fabbricano le mastodontiche architetture, che non s'elevano verso il cielo, ma che vanno a grattare il cielo, volgare e beffarda definizione di un'aberrazione di oltreoceano.

  La casa, il palazzo, la villa hanno perduto la loro fisionomia di fasto ricchezza e bellezza stilistica e peggio ancora, internamente hanno perduto la loro espressione di ospitalità ed accoglienza e non mostrano che la desolante5 tristezza delle anticamere delle cliniche o la freddezza cinica dell'albergo.

  Dopo una corsa folle nella sbuffante e strombettante macchina divoratrice della distanza, vallate, fiumi, mari e monti rotolanti, sulle tele e cartoni con spruzzi e chiazze di colori fangosi, il giovin pittore novecentista ferma visioni irriconoscibili, incomprensibili. Ermetismo6. Impressionismo.

  Inebriato dai canti della giovinezza d'oggi, virile, libera e spoglia d'ogni vieta romanticheria, non sa più esaltare la bellezza d'una Venere o d'una Frine pagana e dal suo pennello scaturiscono le pupazze, i manichini esibizionisti di bruttezze ammalate, deformi e mascicenti. Verismo.

  La bellezza plastica di Veneri ed Apolli, di Ninfe ed Ereoli il neo paganeggiante, l'adoratore del proprio Io novecentista con bravura veramente nuova foggia sul marmo, sul bronzo e sulla creta masse deformi e scimmiesche. Naturalismo.

  Le deliziose, perfette opere del classicismo pagano. Le suggestive, affascinanti idealità del Medio evo. Le principesche, luminose visione della Rinascenza cantano sempre le loro sublimi armonie non turbate dal vano, presuntuoso, folle [clamore] delle trombe della dinamica, acciaiata arte novecentesca"7.

  Queste parole di Zecchin, che ad una prima lettura tradiscono una volontà di rifiuto nei confronti di un'arte "moderna", sono in realtà una sorta di sfogo, e allo stesso tempo un vero credo artistico, contro quelle manifestazioni militanti che condurranno il paese nell'abisso profondo di una nuova Grande Guerra. Con gustosi toni accaldati e plateali alla Filippo Tommaso Marinetti, si pone contro il "futurista" di “Novecento” che in realtà non fa che avallare e corroborare la corrotta finzione di un'ideologia di parte. Non è contro l'arte moderna che si accanisce, ma contro l'ipocrisia morale che un certo tipo d'espressione figurativa maschera. Non acclama un ritorno alla tradizione culturale ottocentesca, da egli stesso tanto faticosamente superata, ma una coscienza artistica che permetta d'esprimersi liberamente e sinceramente, senza costrizioni che conducano ogni finalità in un'orbita vincolata dai voleri di un regime dispotico. Egli lavorò molto per opere che trovarono la loro collocazione al Quirinale, e quando gli fu proposto di fare un'arte "propagandistica", enfatica virile e monumentale, il suo rifiuto fu netto e deciso: l'arte doveva essere libera da tutto questo. Attraverso la reazione a “Novecento”, reagì al Fascismo e non da "apoto", chiudendosi in una visione d'attesa che andasse al di là delle parti, ma intervenendo attivamente nella realtà economica delle sue terre.

  Nelle arti applicate riscopre l'amore per il lavoro umano, per la fatica manuale, contro quel progresso avvilente che innalza la macchina al rango di nuova divinità, dove è l'uomo ad ubbidire alle leggi meccaniche e non la macchina alle volontà di chi la fa funzionare.

  La Prima Guerra Mondiale, anche in Italia, aveva accelerato vertiginosamente lo sviluppo industriale il quale, crescendo con indiscriminata logica, aveva portato, il più delle volte, allo scadimento dei prodotti e a un'alienazione del modo di vivere che fu per alcuni la motivazione, come nel caso di Zecchin, di una reazione ed di un rifiuto nell'accettare a braccia aperte la nuova e trascinante forza dell'economia moderna.

  Venezia ed il Veneto vivevano inoltre una realtà economica essenzialmente agricola ed artigianale: le attenzioni di chi voleva allinearsi ad una visione moderna dell'arte applicata, non poteva direzionarsi se non verso l'artigianato. Tanto più per un artista come Zecchin, saldamente abbarbicato nella cultura della sua isola e che da sempre aveva manifestato il suo amore per tali arti, fino a rinunciare alla pittura per dedicare loro tutte le sue attenzioni.

  Dal "Ritorno all'ordine" di “Valori Plastici” a “Novecento”, tolti i veri artisti (loro stessi sovente irretiti dalle "rivoluzionarie" ideologie di parte), le nuove tendenze e movimenti artistici trovarono nell'esaltazione pomposa ed enfatica, monumentale ed arrogante della propaganda figurativa militante, lo scadimento qualitativo dei loro prodotti, solo apparentemente mascherati da una sorta di "accademismo modernista", per mezzo del quale il "nuovo" era imitato nel gusto come una moda del momento. Quando l'arte stava sotto l'egida della cultura delle privilegiate classi sociali ottocentesche, essa ebbe un'esaltazione che sfociò nelle chiusura contro tutto quando ostacolava un certo modo di vivere; con il Fascismo, l'arte trovò la stessa ideale esaltazione sostituendo stilemi artistici d'un tipo con quelli più consoni alle mutate esigenze. A tutto questo Zecchin pose il suo rifiuto, rivendicando quella sensibilità di comprensione e meditazione che è prerogativa essenziale dell'artista. Nelle opere create tra le due guerre, egli non tradì mai un'espressione figurativa che non fosse profondamente sentita dal suo animo, che non fosse frutto di tutte le esperienze fatte, frutto del suo essere e del suo modo di sentire la vita stessa. Egli si oppose allo scadimento qualitativo dell'artigianato, in un ambiente culturale che era sicuramente ben lontano dall'Inghilterra di William Morris della seconda metà dell'Ottocento, proponendo la sua raffinata ed elegante estetica decorativa applicata all'artigianato perché potesse essere goduta in vasta scala. Resti ben inteso che trattandosi di artigianato, e non d'industria, Zecchin si trovò subito ad affrontare quei problemi che, come per Morris, ma anche per la Wiener Werkstätte e per altre simili iniziative, si risolsero spesso col produrre arte applicata ad alti costi. Vale la pena sottolineare però che l'intento principale del nostro, non fu sorretto dalla volontà di garantire ad ogni ceto sociale il godimento di opere d'arte, volontà compromessa allora sin dall'inizio dall'alto costo di produzione; il suo assunse piuttosto il valore di un rilancio qualitativo dei diversi settori artigianali, e in questo sta il suo più importante contributo, ravvisabile, si pensi al vetro8, ancora oggi a più di mezzo secolo di distanza. Non mi stancherò d'insistere su questo aspetto, già altre volte evidenziato, perché va dato a Zecchin il giusto merito per quanto egli fece in questo senso.

  Forse la poca fortuna, anche artistica, del nostro, fu dovuta al vivere a Venezia e di non aver mai trovato la forza, cosa che d’altronde assolutamente non voleva, di lasciare la città (come fecero alcuni artisti di Ca' Pesaro, quando s'accorsero che Venezia aveva rinunciato al ruolo di protagonista nell'arte italiana) per raggiungere altri luoghi, che sicuramente meglio avrebbero potuto approfittare della sua genialità creativa. Venezia non rubò nulla a Zecchin, anzi fu la sua musa inesauribile senza la quale egli probabilmente non avrebbe fatto tanto; ma a guardare certe sue opere (si vedano molti dei disegni degli anni Trenta) si è portati a pensare come una città diversa, una Milano ad esempio, avrebbe potuto fare di lui un designer industriale, dando spazio ad un contributo artistico che avrebbe forse superato i confini provinciali. Egli fu un grande designer dell'artigianato e la sua diffidenza nei confronti della macchina, <<Moloc>> dalla <<forza bruta[...] inanimata, incosciente, irresponsabile che paurosamente sostituisce l'opera dell'uomì>>, fu probabilmente dovuta all'impossibilità di conoscere dal di dentro quel "mostro abominevole", che poteva però essere messo al guinzaglio di un "San Giorgio" valente e capace.

  La sua opera, anche nell'ambito artigianale, rimane comunque quella di un designer sensibile, raffinato e assolutamente a passo con i tempi: si sfoglino ancora i disegni, essi sono di facile datazione anche all'interno di un decennio, a prova del suo continuo sviluppo artistico, capace di registrare e far propri i cambiamenti di "gusto" che hanno caratterizzato gli anni tra le due guerre.

  La reazione al modernismo artistico industriale non trova di conseguenza le sue radici in una incapacità d'adeguarsi ad una mutata situazione culturale e sociale, ma nasce da un contesto di congetture che concorrono a formare quello che Venezia fu nei decenni centrali della prima metà del nostro secolo. Rientra inoltre in un diffuso malessere, che per molti aspetti supera abbondantemente i confini provinciali, e si pensi solo ad un'opera come Tempi Moderni di Charlie Chaplin, vale a dire a quelle che furono le note, spesso più reali, di un'altra faccia della medaglia.

  Sin dagli anni di Ca' Pesaro, Zecchin aveva mostrato di maturare la volontà sempre più forte di dedicarsi quasi esclusivamente alle arti applicate. Durante la guerra, con laboratorio di arazzi nel convento abbandonato presso San Donato, a Murano, e prima ancora con la collaborazione con gli "Artisti Barovier", sperimentò i suoi primi tentativi di operare attivamente in questo senso; e lo fece con grande successo trovando ampio riconoscimento già alle ultime mostre con i capesarini alle quali partecipò.

  La realtà artistica veneziana dopo la guerra era cambiata, la Biennale stava cambiando, i gloriosi anni di Ca' Pesaro stavano volgendo velocemente all'epilogo e Zecchin stesso mostrava quanta strada avesse ormai percorso dalle sue prime esperienze figurative, necessitando ora di un effettivo sbocco lavorativo. Egli intuì che nella realtà della città lagunare, lo scopo immediato da raggiungere per un artista della sua indole, nel contesto cultural-sociale dell'isola, era riannodare quel forte legame che ha sempre unito l'arte all'artigianato. Altrove, e in fondo anche in alcune città italiane, il problema si presentava in termini diversi: ovvero si trattava di creare un'intensa collaborazione tra l'arte e la nascente industria produttiva. E' chiaro che nel contesto veneziano tra le due guerre, questo era impensabile. La funzione sociale dell'arte, quella alla quale alla fin fine mirava Zecchin, doveva proporsi come modello di un’operazione creativa da applicarsi alla realtà produttiva contingente della città, e a Venezia, quindi, applicarsi all'artigianato. Questo non tardò a venire.

  Il nuovo decennio si aprì per Zecchin con la concreta possibilità di operare in un settore artigianale che, grazie al suo contributo artistico, visse uno dei momenti più felici di tutto il secolo. Nonostante i suoi ritorni più o meno motivati artisticamente susseguitesi di continuo nel suo percorso creativo e nonostante sia attraverso l'occhio del vetro che tutte le opere del nostro devono essere guardate, è solo al 1921che risale il vero ritorno di Vittorio Zecchin all'arte della sua isola. Egli, da questo momento, s'inserì attivamente nel fervore di ricerca artistica svegliato dal nuovo secolo, e lasciò il segno più profondo contribuendo a rompere definitivamente quel ristagno tradizionalista ottocentesco, dove la creazione vetraria stava da tempo arenata. Instaurò quella effettiva collaborazione tra designer, quale egli era, e maestri vetrai in possesso delle grandi capacità tecnico-esecutive acquisite nell'Ottocento. Zecchin fu il primo artista che si inserì e sviluppò, in senso moderno, le direttive basilari sulle quali ancora oggi cresce l'arte vetraria muranese.

  <<Nel 1921 un commerciante veneziano, Giacomo Cappellin, e  un  giovane  avvocato  lombardo,

 

(FOTO)

Pagina pubblicitaria della "Vetri Soffiati Muranesi Cappellin, Venini e C." del 1922, riproducente, sin d'allora, il Vaso "Veronese" disegnato da Vittorio Zecchin, divenuto il marchio della ditta.

 

Paolo Venini, dopo aver prelevato la vetreria dissestata di Andrea Rioda[...] fondano una società denominata “Vetri Soffiati Muranesi Cappellin, Venini e C.” facendovi entrare il Rioda come direttore tecnico artistico, ma dopo l'improvvisa morte di questi, decidono di affidare allo Zecchin la direzione artistica della nuova impresa>>9. Vittorio Zecchin seppe allinearsi subito alle raffinate esigenze estetiche dei due fondatori e concentrò le sue attenzioni sulle sobrie forme del vetro cinquecentesco e attraverso questo si riallacciò direttamente al vetro romano. <<Zecchin ripropone la classicità del Cinquecento contro l'abuso del rococò perpetuatosi nell'Ottocento. E' la situazione della pittura di Gino Rossi e della Scultura di Arturo Martini che sotto altri aspetti si presenta nel vetro di Murano. Il vetro prende un nuovo rigore della forma, una più sentita limpidezza, una misura e un equilibrio che nascono dalle origini stesse dell'arte moderna>>10. Due furono le fonti principali dalle quali il nostro attinse ispirazione: le opere pittoriche rinascimentali e le opere in vetro conservate al Museo Vetrario di Murano. Ad esempio di questo, si osservino due tra i suoi vetri più famosi: il Vaso "Veronese" e la Coppa libellula. Il Vaso "Veronese" (Tavv. 585), è il risultato dello spunto preso da un vetro simile dipinto da Paolo Veronese nell'Annunciazione conservata alle Gallerie dell'Accademia di Venezia. La limpida trasparenza della forma di questo vetro, dove la linea scivola pura nell'essenzialità della costruzione, dal ritmo rigorosamente chiuso e dall'equilibrio armonico assoluto da farne un "classico" nella produzione del vetro, ripropone in chiave moderna ed estremamente attuale una produzione vetraria, quella cinquecentesca, che viene interpretata non attraverso la chiave della copia, ma attraverso l'esigenza critica di riproporre esperienze formali che rientrano pienamente nel clima del funzionalismo razionale che investe, tra le due guerre, l'intera Europa. La grandezza di questo vetro, non si basa sulla capacità esecutiva del maestro vetraio, come avveniva per tante altre opere uscite in quegli anni da Murano, anche se, e ci si accorge quando si ha la fortuna di prenderne in mano uno, non poco concorre la capacità esecutiva del maestro soffiatore a dare quella leggerezza che caratterizza tutti i vetri di Zecchin prodotti in questi anni. La grandezza del vetro sta nel rigoroso raggiungimento mentale, che depura la forma dell'oggetto da ogni orpello decorativo e lo propone nella sua essenzialità estetica, come risultato del lavoro razionale del designer che a tavolino l'ha progettato in ogni suo minimo particolare. Zecchin raggiunge una forma classica, e la raggiunge ripercorrendo il metodo di studio e lavoro che rientra nel modo di operare dell'artista cinquecentesco: lo studio mentale e successivamente l'applicazione dello studio alla pratica manuale. Per l'artista del Cinquecento, nella sua concezione universale dell'arte, la fase progettuale e quella esecutiva, vale a dire l'intero ciclo produttivo dell'opera, coincidevano e spesso rientravano nel lavoro di una unica persona. Nella realtà produttiva moderna, si giunge inevitabilmente a scindere le due fasi nelle mani di due persone diverse, il designer e l'esecutore materiale. All'artista spetta il compito di studiare mentalmente il prodotto, al maestro vetraio, in questo caso, il compito pratico dell'esecuzione. Come il vaso del dipinto del Veronese è lo spunto che sta alla base di questo vetro, anche il metodo classico di ricerca sta alla base di una produzione artistica moderna, industriale o, come nel caso del nostro, artigianale. Zecchin, in questo momento, si accosta, non solo idealmente, a quanto andavano sperimentando altri grandi artisti in tutta Europa nel campo delle arti applicate, del design artistico. E non cade azzardato fare rientrare Vittorio Zecchin tra gli artisti che s'impegnarono, in Italia, nella direzione del razionalismo artistico.

  Anche il Vaso libellula (Tavv. 643, 644), per il suo successo, divenne un "classico" nella produzione vetraria di Zecchin, e pure questo evidenzia la ricerca mentale a cui l'artista s'era adoperato per raggiungere una forma tanto elegante. Lo spunto che ispirò questo lavoro, fu probabilmente attinto da due piccole coppe con anse del periodo romano, conservate al Museo Vetrario di Murano. Zecchin, ne esasperò le anse, con un certo sapore che risente ancora del gusto per il Liberty11, non senza precisi ricordi di sapore orientale12, e ne fece uno dei suoi capolavori più riusciti, da egli stesso riproposto con diverse varianti formali.

  Ad osservare i vetri che escono da Murano su disegno di Vittorio Zecchin in questi anni, vien da chiedersi come egli potesse ideare forme tanto pure ed essenziali quando, nelle sue pitture e in altre manifestazioni d'arte applicata, il suo fare arte appare ancora ricco di un decorativismo pieno di minuziosi e gustosi particolari. In realtà, l'eleganza che traspare nella attenzione per una linea estremamente raffinata, è la stessa che ha sempre caratterizzato le sue opere. Confrontando attentamente i prodotti finali di opere apparentemente tanto diverse, come l'appena visto Vaso "Veronese" e, ad esempio, l'arazzo dei Guerrieri (Tav. 738) del 1916, conservato al Vittoriale, o la tempera raffigurante uno studio per Nicchia di fontana con motivo di gazzelle (Tav. 114) del 1922, conservata in collezione Ramani Zecchin a Trieste, ci si accorge che la delicata linea che costruisce ognuno di questi lavori è la stessa: l'andamento sinuoso, ondulato del segno si ripete puro con lo stesso ritmo in ciascuna delle tre opere. Più chiara si mostra la somiglianza, se si vanno a vedere i disegni che servono da studio per i vetri e quelli per le altre opere. Il vetro, che Zecchin aveva anche dimostrato capace d'accogliere la sua fastosa decorazione13, è la materia ideale per dar forma a quell'eleganza che sempre traspare nelle sue opere e che può essere liberata da ogni orpello decorativo nel momento in cui l'artista si concentra non più sul colore, che subordinava la linea in un orror vacui di preziosismi, ma sulla forma che la linea stessa costruisce. Non c'è assolutamente incoerenza: l'armonia dell'opera è raggiunta attraverso due vie diverse, dal colore alla forma, ma il procedimento creativo è il medesimo.

  Alla Biennale veneziana del 192214, dove tiene una mostra individuale, presenta arazzi, vetrate e vetri decorati a smalto e oro assieme a vetri disegnati per la "Cappellin Venini e C.", i quali, questi ultimi, appaiono una logica conseguenza di tutto il suo sviluppo artistico. E sarà la purezza della materia vitrea a spingere il muranese ad una graduale eliminazione di decorazioni, tanto ricche nelle altre arti applicate, a favore di una poesia compositiva che vibra in una atmosfera aerea che è la stessa di quella che avvolge i suoi vetri, fondendosi con la loro trasparenza. Un arazzo come Contemplazione (Tav. 775), del 1921, effonde un'armonia incantata, una tensione di linee e un servirsi dello spazio vuoto creato nella composizione, che è la stessa che traspira nel “Vaso Libellula". Zecchin, nel "sogno fantastico" delle sue opere, raggiunge strutture costruttive, cromatiche e formali, che hanno effettivamente, come sostiene Perocco, analogie con quanto andavano facendo in quegli anni in pittura Gino Rossi e in scultura Arturo Martini.

  Zecchin, afferma sempre Perocco, <<non ha nessun aspetto di  “poète maudit”>>15, ma fu per certi versi artista bohémien, almeno fino al 192016. Vivere d'arte non era facile, specie prima della guerra, ma anche subito dopo17, per chi si opponeva alla cultura ufficiale. <<Qua xe la miseria stabile, morale e materiale[...] Senti questa, vera sa, vera come la verità: ghe xe dei giorni che no go gnanca da fumar; ebben, in qualche maniera fasso saltar fora qualche palanca o mezza; ben, come ben ti capissi, una palanca, per delle ragion odiose de matematica, no pol esser 35 schei; ebben, allora compero 2 sigarette da cinque e pomposo me le fumo con aria marziale[...] A caro mio no se schersa: scarpe rote, patina a monti, boletta, carta de lusso.>>18 <<Xe vero che son un signoron, go tanto arzento, tanto oro, e de quello de zecchin, go sete, stoffe preziose go brillanti, gioie de tante forme e colori, e tante tante, ma le se tutte nelle casse... del mio cervelo[...]>>19.

  A Partire dal terzo decennio del secolo, s'è detto, Zecchin giunse definitivamente all'arte applicata. Il percorso si spiegò spontaneo nell'indole dell'artista quale egli era, ma la spinta che lo portò a far cadere proprio in questo momento la volontà di fare le cose più "seriamente" fu il suo matrimonio con Agnese Camozzo e la nascita, nel 1921, della figlia. La sua nuova situazione famigliare lo spinse a responsabilizzare il suo genio artistico e a impiegarlo in modo che potesse garantire, effettivamente, un riscontro anche economico. La sua Murano si presentava come l'ambiente artigianale ideale: giungeva così a quell'indispensabile compromesso tra arte e vita. La sua vita era cambiata, ed egli doveva fare della sua arte il suo lavoro. La dedizione alle arti applicate fu, in ogni caso, la conseguenza inevitabile della sua creatività e non fu assolutamente un ripiegare a far qualcosa che non sentiva, o una sorta di prostituzione della sua inventiva: egli fu sempre estremamente coerente con sé stesso e anche in seguito, quando l'adesione a stilemi frutto di un'ideologia di parte gli avrebbe garantito una gratificazione immediata, mantenne la propria integrità.

  Zecchin aveva un temperamento diverso da quello di Gino Rossi, l'altro polo, allora incompreso, dei grandi artisti della "dinastia" capesarina. Gino Rossi fu il grande incompreso del dopoguerra e ancora oggi, sotto certi versi, continua ad esserlo. Egli sì, merita il suo giusto posto tra i grandi geni artistici del nostro secolo. Fu l'unico tra gli italiani a giungere ad una forma di "cubismo italiano" meditato, maturato e sviluppato autonomamente; sentito e non scopiazzato o importato dall'estero. Il suo temperamento era profondamente diverso da quello del nostro: egli ebbe la forza di sacrificare tutto alla sua arte, la famiglia, la vita stessa. Non giunse mai al compromesso tra arte e vita. Fu troppo intellettuale, troppo incompreso, troppo abbandonato. Lo stesso Barbantini ebbe difficoltà a seguire i passi da gigante che dopo la guerra egli andava facendo. La conseguenza, fu una rottura totale col mondo che lo circondava. Zecchin, in quel mondo riescì a trovare un suo spazio; nelle arti applicate trovò la sua vera vocazione, diventò grande artista come forse prima non era mai stato. Da buon muranese, dette i suoi più alti raggiungimenti artistici nel campo del vetro.

  Attraverso la politica economica della "Cappellin, Venini e C." prima, e della "M.V.M. Cappellin e C." dopo, Zecchin espose a tutte le più importanti mostre d'arte decorativa del decennio.

  La direzione artistica della vetreria muranese, non gli impedì di dedicarsi alla stoffa, con arazzi e ricami, al mosaico, al mobile, alla ceramica, a altri settori artigianali e, sempre più saltuariamente, alla pittura20. Nel 1921, partecipò con un solo dipinto a tempera, C'era una volta, alla Prima Biennale Romana in Occasione del Cinquecentenario della Capitale; e lo stesso dipinto fu poi portato a Verona, alla XXXVII Esposizione d'Arte della Società di Belle Arti nel Secentenario della Morte di Dante. A settembre fu a Treviso, dove, assieme ad altri artisti di Ca' Pesaro21, partecipò alla Prima Mostra Regionale d'Arte.

  Un'iniziativa interessante, alla quale Zecchin partecipò indirettamente con molte opere in stoffa eseguite, su suoi disegni,  prevalentemente  dal  "Laboratorio"  di  Saonara  della  contessina  Pia  di

 

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Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, Sezione Triveneta, Studio con piccolo ambiente, su progetto di Vittorio Zecchin e Giuseppe Berti. Mobilio dei "Mobilifici Riuniti Castagna Schettin e Caldonazzo" di Vicenza.

 

Valmarana, fu il sorgere a Roma, nel 1921, dell'”Arte Italiana Moderna”. Grazie alle pressioni della signora Maria Monaci Gallenga, con la collaborazione di Donna Bice Tittoni e della contessa Carla Visconti di Modrone, fu fondata quell'anno l'"A.M.I.", con lo scopo di servire da tramite fra gli artisti che si dedicavano alle arti applicate e il pubblico italiano e straniero. Vennero costituite due sedi: una prima a Roma, in via Veneto, dal nome “Bottega d'Italia”; poco dopo a Parigi “La Boutique Italienne”, in rue de Miromesnil. Queste "botteghe" ebbero lo scopo di allestire vere e proprie mostre mercato dove i prodotti dell'artigianato  artistico  italiano  vennero  esposti  e  venduti.  E  ne

 

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Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, Sezione Triveneta, Sala "Cappellin, Venini e C.": veduta d'insieme.

 

vennero venduti molti, e molti eseguiti, non solo stoffe, su disegni del nostro. Zecchin, oltre ad una clientela italiana, ebbe una vasta clientela straniera, grazie soprattutto ad iniziative simili alla “Boutique Italienne”, ed è da supporre che se oggi noi siamo in possesso solo di tantissimi disegni-studio per opere d'arte applicata, e poche opere finite, è perché queste ultime sono per la maggior parte disperse all'estero e spesso senza paternità.

  Dedicandosi all'artigianato artistico, le sue opere vennero fatte partecipare a numerose esposizioni straniere, sin dal 1920, quando vari oggetti, eseguiti su suoi disegni da diverse ditte veneziane, furono portati alla mostra dell'arte decorativa italiana di Stoccolma.

  All'estero espose molto anche con i vetri della "Cappellin, Venini e C." e, nell'autunno del 1922, con questi partecipò con notevole successo al Salon d'Automne di Parigi. Prima, a Firenze, alla mostra primaverile della Società di Belle Arti tenuta al Palazzo delle Esposizioni, espose sempre con successo i vetri muranesi. Ma l'esposizione alla quale ottenne il primo vero riconoscimento nelle arti applicate, e nel vetro in modo particolare, fu la Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, nel 1923, della quale Zecchin fece parte come membro della Giunta Esecutiva e della Commissione di Coordinamento per la sezione triveneta. Per la mostra, presentò un allestimento, realizzato assieme all'architetto Giuseppe Berti, di una sala da pranzo e di uno studio con piccolo ambiente, nonché una serie di pannelli decorativi in seta, un arazzo in cornice e dei piatti in ceramica. I vetri della "Cappellin, Venini e C." esposti, furono centocinquanta e valsero a Zecchin, e alla stessa ditta, il Gran Diploma d'Onore22.

  Le esposizioni di Monza, rappresentarono per il nostro  un  importante  punto  di  riferimento  e  di

 

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Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, Sezione Triveneta, Stanza da pranzo con mobili di Vittorio Zecchin.

 

confronto con quanto in campo nazionale, e lombardo, s'andava facendo nelle arti decorative. La Biennale veneziana servì da sempre a questo scopo per Zecchin. Ma l'impostazione delle esposizioni ai Giardini puntava principalmente sulle arti figurative cosiddette maggiori: l'arte decorativa, che solo dal 1930 ebbe il suo padiglione, fu sempre presentata come una sorta di scenario dove prendevano posto le pitture e le sculture. A Monza, l'attenzione era completamente dedicata alle arti applicate e il livello qualitativo delle opere presentate fu subito molto alto: a differenza di altre importanti esposizioni dedicate alle arti decorative, come la stessa Esposizione di Torino, che si risolsero spesso in un insieme di opere frutto di un buon lavoro artigianale, le biennali monzesi, e le triennali milanesi in seguito, si spinsero per la via, nel legame con quanto allora s'andava facendo di veramente nuovo in Italia in pittura scultura e soprattutto in architettura, che porterà ad istituzionalizzare la figura dell'artista-designer inteso in senso moderno. A questo contribuirono non poco, a partire dalla seconda metà del terzo decennio, personaggi del calibro di Roberto Papini, Giò Ponti o Carlo Carrà che, attraverso riviste come "La Casa Bella" o "Domus", esercitarono una vera e propria politica artistica di aggiornamento "razionalistico" a quelle che erano le esigenze di una società moderna. A riviste come "La Casa Bella" e "Domus"23, deve molto anche Vittorio Zecchin, che fu sempre visto e trattato come un raffinato maestro delle arti applicate e, per i vetri, considerato uno dei fautori del rilancio artistico del settore veneziano. L'arte decorativa, fu tra le prime manifestazioni figurative a farsi trascinare dalle ideologie di partito, ma si riuscì quasi a conciliare l'esigenza militante con quello che erano le esigenze di una ricerca di funzionalismo formale. Il periodo tra le due guerre fu, infatti, un momento fondamentale, in Italia come all'estero, per le ricerche estetico-funzionali applicate agli oggetti d'uso comune, e gettò le basi per lo svilupparsi del moderno design industriale.

  Vittorio Zecchin fu un grande designer; fu sicuramente tra i più grandi designers che Venezia ebbe tra le due guerre. Questo aspetto del muranese è oggi ancora trascurato, se non addirittura sconosciuto. Molte sue opere, che al momento attuale si conoscono solo attraverso i disegni, sono tutte da scoprire e gustare. In un mescolarsi di sapore orientale24, di razionalismo occidentale, di raffinata eleganza estetica, la sua genialità, nel vetro come in altre materie, lo portò ad essere una delle figure più rilevanti e trascinanti attive nelle arti decorative a Venezia. E non sono immuni dalle sue influenze artisti generalmente considerati più originali del nostro, come un Napoleone Martinuzzi, del

quale Zecchin spesso si lamentava rimarcando che lo scultore gli rubava le idee facendole passare per sue, o lo stesso Carlo Scarpa, che nelle sue prime esperienze nel campo del vetro ne fu indubbiamente geniale debitore.

  A Monza, Zecchin poté confrontare i suoi risultati con quello che andavano facendo altri importanti artisti italiani in questo senso. Le esperienze di Monza e quelle che andava  sperimentando  nel

 

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Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, Sezione Triveneta, gruppo di vetri della "Vetri Soffiati Cappellin, Venini & C." eseguiti su disegno di Vittorio Zecchin.

 

vetro lo portarono ad un graduale allontanamento da quel decorativismo ricco di orror vacui che aveva caratterizzato le sue opere sino alla soglia degli anni Venti. La rigorosa semplificazione delle forme che andava inventando nel vetro, si riscontra nella passaggio da soluzioni compositive ancora legate ad un grandioso fasto, per certi versi di gusto liberty, di un arazzo come Re Magi (Tav. 742) del 1918 circa, alla costruzione del disegno in argento su carta nera Pesci e Meduse (Tav. 543), del 1923, dove il decorativismo Klimtiano ancora vivo è filtrato attraverso la magica trasparenza vitrea della linea sinuosa, alla sobria eleganza di un arazzo come Meduse (Tav. 782) nel quale, lo stesso tema del disegno precedente, è avvolto in una silenziosa atmosfera di essenzialismo compositivo.

  Il suo impegno nelle arti decorative, alla mostra di Monza, lo portò a partecipare, attraverso la "Cappellin, Venini e C.", all'Unione Industrie Artistiche, che sotto gli auspici del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, si prefiggeva la salvaguardia degli interessi dei produttori italiani di arti applicate nei mercati nazionali ed esteri. L'arte applicata da sempre, infatti, necessitava di particolari attenzioni riversate al lato economico, per garantirne la stessa esistenza, che ponevano sovente dei vincoli insuperabili a chi non sapeva promuovere con destrezza la propria affermazione nel mercato. Zecchin non fu mai un buon amministratore di se stesso e, nonostante le sue numerose iniziative, necessitava sempre di un qualcuno che da dietro gli garantisse quella salvaguardia d'interessi che egli, per indole, era portato a trascurare. Paolo Venini e Giacomo Cappellin, all'inter-

 

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Veduta di una sala allestita con lavori di Vittorio Zecchin.

 

no della ditta vetraria, garantivano questo e sulla loro scia Zecchin riuscì ad affermarsi in campo internazionale.

  Nel 1923, alla Galleria Pesaro di Milano, tenne una vasta mostra personale curata da Vittorio Pica e alla Biennale del 1924 una sala venne dedicata ad un'altra sua mostra personale. Nel 1925 espose, alla Terza Biennale Romana, una serie di vetri artistici e fu nuovamente presente, a Monza, alla seconda mostra internazionale delle arti decorative, dove espose, oltre ai vetri della "Cappellin, Venini e C.", una serie di tessuti ricamati dal "Laboratori" di Saonara della contessina Pia di Valmarana. E sempre i ricami eseguiti su disegni del nostro dal "Laboratorio" della contessina di Valmarana, furono esposti a bordo della nave “Italia” nella rotta intorno all'America Latina, in una fiera navigante avente lo scopo di far conoscere i prodotti dell'artigianato italiano.

 

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Terza Triennale Romana, sette gruppi di vasi disegnati da Vittorio Zecchin ed eseguiti dalla "Vetri Soffiati Muranesi Cappellin, Venini & C." di Murano.

 

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Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi, Padiglione Italiano, veduta del Salone Centrale.

 

  La manifestazione più importante quell'anno, per le arti applicate, fu l'Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi. Vittorio Zecchin vi partecipò con tessuti, mobili, pannelli ricamati e vetri della "Cappellin, Venini e C.". Questi ultimi riscossero grande successo e meritarono il Gran Prix dell'esposizione. La mostra parigina, che vide l'ufficiale nascita dello stile Déco, stile in Zecchin già in nuce da molti anni, segnò per il vetro di Murano una data  per  certi  versi  storica:  il

 

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Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi, Padiglione Italiano, veduta del Salone Centrale.

 

scioglimento del sodalizio tra Paolo Venini e Giacomo Cappellin, quello che aveva permesso il vero rilancio qualitativo del vetro veneziano. All'apertura della mostra i due imprenditori si presentarono ancora sotto la "didascalia" della "Cappellin, Venini e C."; ma, per qualche ragione non ben chiara, alla fine della mostra essi erano rappresentati rispettivamente dalle neo-nate "M.V.M. Cappellin e C." e "Vetri Soffiati Muranesi Venini e C.". Giacomo Cappellin mantenne come direttore artistico della sua nuova vetreria Vittorio Zecchin, mentre Paolo Venini chiamò Napoleone Martinuzzi. Forse fu Cappellin ad andarsene, tant'è vero che la nuova ditta di Venini mantenne la stessa sede e, cosa più importante nel nostro caso, gran parte dei disegni eseguiti da Vittorio Zecchin. La "Venini" continuò, infatti, per alcuni anni a proporre vetri eseguiti sui disegni lasciati dal nostro25, e la stessa produzione artistica di Napoleone Martinuzzi si presentò, inizialmente, assai vicina a quella di Zecchin. La "Venini e C.", mantenne inoltre come marchio di fabbrica anche il disegno del Vaso "Veronese". Per la produzione simile, le due ditte iniziarono dal il 1925 a firmare ad acido i loro prodotti.

  L'esposizione parigina delle arti decorative, vide comunque l'affermarsi in campo internazionale del vetro muranese. I bei vetri presentati da Zecchin, furono forse tra le opere più rappresentative di una volontà di aggiornamento internazionale alle esigenze di funzionalismo che il decennio richiedeva, e si dimostrarono sostanzialmente immuni alle tendenze militanti di una nuova ideologia di partito che, sotto le iniziali spoglie rivoluzionarie, celava i presupposti di una politica degenerata. All'Esposizione, l'Italia si presentò infatti con un'insieme di opere, ad iniziare dalla stessa architettura del padiglione nazionale, già enfaticamente concepite per un'esaltazione monumentale ambiguamente allusiva. Il Fascismo non ebbe mai una sua vera espressione artistica e, a differenza di quanto successe in altre nazioni, si limitò solo ad ostacolare, non a condannare e proscrivere, le ricerche artistiche più avanzate. Anzi, la propaganda nazionalista servì talvolta, soprattutto per le arti decorative, da vero incentivo per una ricerca produttiva più attiva e proficua. E in questo senso, si devono inquadrare le numerose iniziative espositive che, sin dai primi anni del dopoguerra, all'interno di un programma di sviluppo nazionale parteggiato da una sorta di nuova esaltazione del

"bel gesto", vennero proposte e promosse in Italia ed all'estero.

  Alla "M.V.M. Cappellin e C.", Vittorio Zecchin continuò la sua ricerca artistica nella direzione già evidenziata negli anni precedenti. I vetri ideati mostrano, accanto ad una produzione per certi versi più tradizionale se pur sempre estremamente raffinata come, assieme al nostro, lo stesso Giacomo Cappellin esigeva, il rincorrere di una linea costruttiva dal rigore formale sempre più esasperato, al punto da divenire tra gli esempi più impegnati della ricerca razionalista in Italia. A prova di questo si vadano a vedere i disegni, ampiamente documentati in questa sede con numerose riproduzioni, che il muranese eseguì tra il 1925 e il 1927.

  Il vetro, al quale dedicò sempre i maggiori sforzi, distolse solo parzialmente Zecchin dall'applicarsi in altri settori dell'artigianato locale. Ed è attraverso la polidirezionalità della sua attività artistica, che a partire da questi anni instaurò un rapporto sempre più forte con l'Istituto Veneto del Lavoro. Varie volte premiato nei concorsi indetti dall'Ente locale, grazie a questo espose a numerosissime mostre nazionali ed internazionali aventi lo scopo di promuovere ed incentivare l'arte decorativa italiana ovunque.

  Questi sono gli anni in cui anche a Venezia, come nel resto dell'Italia, ci si avviava verso una progressiva, inesorabile, degenerazione della situazione politico-sociale. Il Fascismo, nell'enfatica finzione ideologica che lo caratterizzò, come ogni regime totalitario, voleva, legando la cultura agli interessi di stato, fare delle manifestazioni artistiche il proprio vessillo di partito, acclamando e sostenendo quell'arte che si prestava ai suoi voleri e ostacolando tutto ciò che poteva opporvisi. A questo scopo, Mussolini fece sorgere istituzioni come l'Accademia d'Italia, l'Istituto Fascista di Cultura, e altre ancora, le quali servirono a garantire e divulgare un certo tipo di cultura essenzialmente propagandistica. L'ideologia fascista s'infiltrò, al fine di manovrare, in ogni livello organizzativo e amministrativo anche delle istituzioni già esistenti e si fece promotrice di importanti, quanto corrotte iniziative culturali ed espositive. Numerosissime furono, dunque, le manifestazioni ufficiali che celarono un fine decisamente diverso da quello artistico. Su questa falsa riga il Fascismo incentivò un gusto figurativo che, dal già sobrio plasticismo del "Ritorno all'ordine" dei primi anni Venti, alla soglia degli anni Trenta, presentava un rigore modernista enfanticamente pomposo e monumentale. Anche Zecchin, tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio, risentì delle mutate esigenze stilistiche e ad esse si adeguò. Ma lo fece in modo tutto suo, opponendosi sotto molti aspetti, al dilagare di certe esasperazioni che trovarono ampio consenso all'interno di “Novecento”, intuendo a cosa alla fine avrebbero portato. Zecchin divenne così, a Venezia, uno dei portavoce di una cultura libera e contraria a quelle espressione figurative dove l'artista, <<trascinato da falsi, ipocriti idealismi, ubriacato da effimere conquiste materiali, ossequiente alle sagge leggi d'igiene, tutto compreso dalla necessità di razionabili comodità moderne, comodissime per nascondere la sua incapacità, la sua sterilità, la sua impotenza>>, alla fine giunse a mettersi al servizio del regime.

  E' in questa ottica che si deve intendere la sua intensa collaborazione con l'istituto Veneto del Lavoro, organismo profondamente invischiato nella rinascita corrotta della ferrea logica di un nuovo "bel gesto". In un certo senso, egli si servì dell'Istituzione, non servì all'Istituzione, per farsi promotore di quell'affermazione e sviluppo delle arti applicate che da sempre sentiva sue e che ora, particolari contingenze politico-sociali, si prestavano ad incentivare. Zecchin, attraverso l'Istituto, produsse tantissimo e delineò sempre più la figura artistica che ormai aveva assunto: quella del designer a tutti gli effetti.

  All'interno dell'Istituto Veneto, partecipò alla terza esposizione delle arti decorative di Monza, presentando, assieme ad una serie di lavori che dal mosaico vanno alle stoffe, ai mobili, agli stessi vetri della "M.V.M. Cappellin e C.", un interessante allestimento in tre sale costituente la così chiamata “Bottega del Mosaico”: una prima sala accoglieva decorazioni di pareti, porte e finestre in cosmateschi colorati; una seconda, ideata come specie di hall, era caratterizzata da tre nicchie decorate con pannelli musivi per una stanza da bagno; la terza, infine, rappresentava la vera e propria "bottega", dove erano raccolti gli attrezzi, le tessere, i cartoni e quanto necessitava per dimostrare come si lavorava a mosaico. Lo scopo dell'allestimento era la rivalutazione di una lavoro manuale che egli sentiva particolarmente vicino alla sua arte e che, aspetto non secondario, in quegli anni trovava un generale consenso tra molti altri artisti in tutt'Italia.

  Grande conoscitore del mosaico, come del vetro, al punto da scriverne un opuscolo sulla sua storia e sulla sua tecnica, Vittorio Zecchin fu sempre vicino a questa espressione artistica. Dalle prove in vetro mosaico che aveva sperimentato assieme a Teodoro Wolf Ferrari sin dal 1913, alla collaborazione con la "Cooperativa Artisti Mosaicisti Veneziani" e con la ditta "Giavese & C.", dal primissimo dopoguerra a tutti gli anni Trenta, Zecchin mostrò come i suoi interessi per le arti decorative fossero sempre estremamente coerenti e atti ad evidenziare la sua figura di artista-designer, che andava sperimentando nelle varie tecniche espressive il proprio linguaggio figurativo adattandolo, di volta in volta, alle diverse superfici, coscientemente sensibile alle differenti esigenze pratiche da superare.

  Con lavori in mosaico, si presentò a molte Biennali veneziane e a diverse altre mostre, e questa tecnica figurativa lo impegnò in cicli decorativi per alcune ville private, soprattutto nella zona lombarda del Lago di Garda, e per opere pubbliche, come il grande progetto per la decorazione del famedio di Pola, del quale non rimangono che una serie di studi, conservati prevalentemente in collezione Ramani Zecchin a Trieste (Tavv. 272 - 296). Interessante, è un confronto tra le opere eseguite a mosaico e i suoi lavori ad arazzo. I temi trattati sono sovente gli stessi, e le soluzioni sotto certi aspetti, analoghe, tant'è vero che nei disegni risulta a volte difficoltoso scindere gli studi per una da quelli per l'altra tecnica. Nel mosaico però, a differenza dell'arazzo, dove la monumentalità si prestava anche all'arricchimento con prezioso decorativismo, il vincolo stesso posto dalle tessere vitree lo indirizzò verso ricerche formali più sobrie, semplificate e suggestive, che maggiormente s'allineavano alla pittura rigorosamente "plastica" che altri artisti andavano facendo allora in Italia. Forse, in qualche modo, si può fare un riferimento con certe soluzioni compositive di un Sironi, artista che Zecchin sicuramente conobbe, anche perché lavorò, con vetrate, presso la stessa "M.V.M. Cappellin e C", e a Venezia eseguì altri lavori, e non ultimi proprio lavori a mosaico.

  Alla fine del 1927, Zecchin lasciò la direzione artistica della "Cappellin & C.", continuando però a collaborare saltuariamente con la vetreria sino al 1931, anno della sua chiusura. Alla "Cappellin" lo sostituì, sembra quasi subito, Carlo Scarpa, il quale, come aveva già fatto Napoleone Martinuzzi alla "Venini", continuò a mantenere, affianco alla propria, la produzione vetraria del nostro, apportandovi talvolta, anche per mano dello stesso Cappellin, leggere varianti formali.

  Fare un elenco di tutte le esposizioni alle quali, sino alla soglia degli anni Quaranta, partecipò con i più diversi prodotti di artigianato artistico creati su suoi  disegni,  sarebbe  cosa  lunga  e  probabil-

 

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Veduta di una sala allestita con lavori di Vittorio Zecchin.

 

mente risulterebbe incompleta, anche se tentata all'interno della nota biografica riportata alla fine del testo. Basti ricordare che partecipò praticamente a tutte le Biennali fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e alle principali mostre nazionali, nonché a molte esposizioni internazionali, di arte applicata. La sua collaborazione si estese quasi ad ogni settore artigianale: dal vetro, dove collaborò con le principali vetrerie muranesi, quali la "Ferro-Toso", l'"A.V.E.M.", la "S.A.L.I.R.", la "Seguso Vetri d'Arte", la "Fratelli Toso" ed altre ancora, al mobile che, attraverso l'Istituto Veneto del Lavoro, fece realizzare a diverse ditte locali, allo stesso mosaico, al campo delle stoffe e dei ricami, dell'argenteria e del rame, della  ceramica  e  dell'oreficeria.  Collaborando

 

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Serie di vetri eseguiti dalla "Venini e C.", poco dopo la divisione della "Cappellin, Venini e C."

 

con le ditte artigianali, i suoi lavori furono esposti e venduti ovunque, da Torino a Milano a Firenze e Roma, da Lipsia a Barcellona e ad Amsterdam e, come già si è accennato, sicuramente molte delle sue opere, talvolta le più significative, sono ancora oggi disperse sia in Italia che all'estero con ogni probabilità senza una paternità all'artista.

  Negli anni Trenta, Vittorio Zecchin accentuò ancora di più le sue attenzioni nei confronti delle arti applicate. Pienamente immerso nel clima di attivismo lavorativo del  momento,  creò  alcune  tra  le

 

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Mostra delle Arti Decorative di Torino del 1928, tre vedute di sale con opere di Vittorio Zecchin.

 

sue più riuscite invenzioni formali. Diventò designer ad alto livello e a prova di questo si vadano a vedere i disegni per alcuni oggetti, da eseguirsi in vario materiale, come la Teiera (Tav. 376), databile alla prima metà degli anni Trenta, straordinario esempio di rigore funzionale e ricerca estetica, o i numerosi studi per vetri, vetrate, e cancelli con vetrate elaborati verso la metà del decennio, e si vedano le Tavv. 424 - 427, dove da richiami futuristi passa ad una maggior schematizzazione dello spazio; o ancora le delicate forme essenziali di vetri simili al vaso studiato nel disegno riprodotto a Tav. 452, nel quale Zecchin non rinuncia all'inserimento decorativo dell'incisione a rotino, ma, come in quelli del primissimo dopoguerra, adegua l'ornamento alla struttura dell'oggetto in modo che ne sia ancora più esaltata la forma.

  Altre opere che Zecchin iniziò ad ideare sin dalla fine degli anni Venti e per tutto il nuovo decennio, rivelano un artista sotto questo aspetto del tutto sconosciuto. Zecchin è giustamente ricordato, specie nel vetro, come artista elegante e raffinato, dalle forme delicate, sottili e dalla trasparenza vitrea "leggerissima"; ma egli produsse anche lavori che a vederli elaborati nei disegni, se non si avesse la certezza della sicura paternità di questi ultimi, farebbero sorgere il dubbio potessero essere di opere di un Napoleone Martinuzzi o addirittura di un Giò Ponti. Si veda il vaso riprodotto a Tav. 459 e gli studi alle Tavv. 458, 462.

  Andando poi ad osservare dei disegni come quelli riportati alle Tav. 300, 301, si scopre un'altro volto ancora di Vittorio Zecchin, sconosciuto, ignorato, o per lo meno trascurato dalla maggior parte della critica. E' un Zecchin che da sensibilissimo designer importò ancora una volta gli influssi orientali e li adattò con stupefacente originalità ai suoi lavori. Da buon veneziano, egli ebbe sempre una particolare inclinazione verso il mondo orientale26 ed esotico: lo aveva già dimostrato in passato recependo gli influssi di un artista come Toorop, o Klimt stesso. Le Mille e una notte alludono apertamente alla favola orientale, e negli anni Venti, alcuni lavori paiono vere e proprie opere d'arte islamica (Tavv. 117, 540, 541). Che egli guardasse al mondo islamico, era una cosa piuttosto logica: come nell'arte medievale, anche l'arte islamica non ha mai separato le cosiddette arti "minori" dalle arti "maggiori" e rappresentava così, indubbiamente, una fucina inesauribile di idee per l'arte applicata. Le attenzioni verso il modo orientale, nel decennio che precede la guerra, vengono raccolte con estrema originalità e adattamento "funzionale". Si vedano le Tavv. 460a, 460b e 461: sono studi per vetri nei quali Zecchin elaborò una ricerca formale che, prendendo spunto dal plasticismo scultoreo di opere indiane induiste e buddiste (da ricordare quasi la statica monumentalità di alcune divinità scolpite nelle pareti delle grotte di Elephanta o tante rappresentazioni di Buddha o Bodhisattva stanti) sviluppato in una chiave di primitivismo africano, modellò il corpo umano nei suoi elementi essenziali riconducendolo a forme ovoidali che saranno poi la struttura portante del vetro stesso nel quale verrà inserita la "totemica" figura. E' interessante notare come Zecchin studi  la  co-

 

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XXI Esposizione Internazionale d'Arte della Città di Venezia, vetrina con vetri della serie dei "leggerissimi" disegnati da Vittorio Zecchin.

 

struzione plastica del corpo umano, scorporando e creando dei veri e propri moduli poi ripetuti in ogni elemento, da quello decorativo a quello formale, senza mai perdere di vista il materiale che sarà alla fine impiegato per la realizzazione dell'opera. Trova, nella costruzione formale, una sorta di "uovo matematico" alla Piero della Francesca. Le sue ricerche, le sue sperimentazioni, vedono in questa acuta analisi critico-strutturale la loro più sincera giustificazione, al di là di ogni sorta di adeguamento ad un particolare gusto stilistico del momento. Nello studio per piastrina (Tav. 552), è ancora una volta il primitivismo africano a sorreggere l'adattamento decorativo di soluzioni formali dalla sorprendente forza icastica.

  Questi aspetti artistici di Zecchin, sono quasi ignorati dalla vasta critica, quando, a parer mio, meriterebbero una più approfondita analisi, che toglierebbe al muranese definitivamente l'etichetta di epigono klimtiano con la quale troppo spesso è liquidato e svelerebbe una personalità ancora per certi versi tutta da scoprire. Zecchin fu un artista aperto a recepire influenze tra le più diverse, ma ebbe sempre la capacità e la coerenza di saperle adattare alla propria indole creativa. Egli fu pittore, ma nella pittura si rivelò quasi sempre un raffinato decoratore più che un vero maestro del pennello. Fu un grande colorista e soprattutto ebbe scioltezza di mano nel disegno, quel disegno che sta alla base di un pittore direzionato a diventare grande designer e a dedicare tutti i suoi sforzi alle arti applicate. Nel disegno ebbe una sorta di ossessione per i grandi maestri della grafica antica. Un amore particolare lo sentì nei confronti, inevitabilmente, dei Vivarini, che ai suoi occhi dovettero apparire sicuramente come una irraggiungibile sintesi tra colore e segno. Botticelli era un'altro dei grandi maestri a cui Zecchin guardò, soprattutto per la sua straordinaria e pura capacità grafica. I due disegni in collezione Costantini a Murano (Tavv. 472 e 473), databili al 1936, provano questo. In particolare l'angelica figura di Croce del Sud, dove, oltre a riprendere la rappresentazione iconografica della Nascita di Venere degli Uffizi, Botticelli esce anche dal rigoroso grafismo con il quale la figura è disegnata. La purezza della linea, è solo in un secondo momento irrobustita dall'insistere con la matita grassa nei contorni dell'immagine. E' curioso notare a questo punto, come Vittorio Zecchin desse grande importanza all'esecuzione, nel disegno, non solo minuziosa dei particolari ma anche accuratamente studiata attraverso tecniche grafiche che lo legano direttamente ai grandi maestri del passato. Nei quattro disegni conservati alla Galleria d'Arte Moderna di Ca' Pesaro (Tavv. 468 - 471) e databili, come mi è stato confessato, anche questi all'incirca intorno al 193627, si nota chiaramente l'impiego di uno stilo incolore, come era in uso fare nel Quattrocento e nel Cinquecento, con il quale è stata incisa la carta con segni invisibili poi ripassati a matita. Questo fare tecnico è riscontrabile in molte altre sue opere grafiche ed è particolarmente impiegato quando il disegno serviva da studio per decorazione di opere d'arte applicata, la cui esecuzione richiedeva una particolare attenzione minuta e fedele, proprio perché nel disegno stava la costruzione del lavoro. A distanza di molti anni dall'esecuzione degli originali, i disegni conservati alla Galleria di Ca' Pesaro, e in modo particolare la Salomé, al di là del soggetto stesso, evidenziano come Zecchin avesse dovuto apprezzare, sin dalla Biennale del 1910, la geniale grafica dell'eccentrico inglese Audrey Beardsley.

  Zecchin fu in ogni caso attento a quanto stava succedendo in arte attorno a sé e fuori Venezia, e fu pronto a sfruttare e sperimentare le più diverse innovazioni figurative che potevano servigli da spunto per nuovi risultati nel campo delle arti applicate. Disegni come quelli riprodotti alle Tavv. 496, 500, 501, per esempio, richiamano alla mente composizioni analoghe di artisti, nei loro aspetti non a caso "surrealisti", come un Chagall, un Léger, un Arp, un Dubuffet o di uno stesso Matisse.

  Accanto ad una continua collaborazione con numerose imprese artigianali veneziane, negli ultimi anni che precedono la guerra, Vittorio Zecchin dipinse una serie di nature morte (Tavv. 142 -147a) che appaiono quanto mai di difficile interpretazione, ma non contraddittorie se confrontate con quanto andava ideando nei disegni per le arti applicate. Sono opere sintomatiche, che evidenziano un deciso ritorno al realismo, ad un “Realismo magico” tanto esasperato da divenire una sorta di iperrealismo. Non credo queste siano da liquidare come pitture riviste nella sola chiave di un modo di dipingere tradizionale. C'è un'ossessione per la realtà, per una realtà inquietante che, nella sua descrizione tanto accurata, allude ad una dimensione "altra", quasi onirica, quasi surreale. Gli oggetti, paradossalmente, s'innalzano a simbolo e filtrano un nuovo sogno, tormentato, una visione sensoriale interiore, dove essi si prestano a suggerire una realtà psichica che sfuma nel profondo con la realtà onirica. Divengono epifanie icastiche, disposte a cogliere, nella loro realtà "diversa", l'essere più profondo dell'animo dell'artista. Sono le più vicine alle sue poesie, dalle quali la fiabesca e brillante visione della laguna, <<Catedral / che ga per sofito / el çielo / e per altar Venezia>>, Vittorio Zecchin giunse a cogliere una dimensione reale dell'ansia degli ultimi "giorni felici" che precedettero una seconda grande catastrofe: quello quello che <<gera solo / i mi pensieri [che] correva lontan>> diventò un <<povero palazzo>>, un <<povero vecio>> dove <<le to piture / palide / sbampie / no ga gnanca forza de se speciarse in acqua. / Dai to balconi / scavai come gran oci / vodi, / senza fondo, / le sfese vien zoso / come righe de lagreme longhe, / silenziose per el dolore grando, / senza fin / che te consuma>>.

  Sia riconosciuto il lavoro di chi tanto lavorò per l'arte della nostra Venezia.

 

Castelfranco, settembre 1992.

 

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Napoleone Martinuzzi, Vittorio Zecchin, 1947 circa.

 

Note

1 - Parola cancellata nel testo.

2 - Frase cancellata nel testo.

3 - Parola cancellata nel testo.

4 - Frase cancellata nel testo.

5 - Parola cancellata nel testo.

6 - Parola cancellata nel testo.

7 - Scritto di Vittorio Zecchin tratto da un quaderno di "riflessioni" conservato in collezione Ramani Zecchin a Trieste e databile agli anni Trenta.

8 - Un particolare molto interessante che vale la pena di ricordare in questo contesto, è stato la difficoltà che ho incontrato nel fotografare molti disegni, e a volte anche altre opere, posseduti da varie affermate ditte muranesi di produzione del vetro. Esse infatti hanno mostrato la gelosia con cui conservano quei lavori; gelosia dovuta principalmente alla paura che alcuni vetri di Zecchin non ancora prodotti, o poco conosciuti, possano divenire di dominio pubblico, togliendo loro la possibilità di riutilizzarli, o per lo meno di prendere spunto da quelle ideazioni. Questo conferma come l'importante contributo di Zecchin al settore sia ancora oggi attuale e sentito.

9 - ASTONE GASPARETTO, Il Novecento, in Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia 1982, p. 38.

10 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 8.

11 - <<Lo stile liberty sopravvisse a Murano fino ai primi anni del dopo-guerra[...]>> (ROSA BAROVIER MENTASTI, Il Novecento, in Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia 1982, p. 52.)

12 - L'arte della ceramica e della porcellana cinese avevano gia sperimentato vasi con anse accentuate analoghe a queste.

13 - Con i vetri e le murrine fatte realizzare tra il 1913 e il 1919 dagli "Artisti Barovier" e dalla "Salviati".

14 - Zecchin fu, a quella Biennale, tra gli artisti che vendettero di più.

15 - Vittorio Zecchin, catalogo a cura di GUIDO PEROCCO, Milano, 1981, p. 6.

16 - In una lettera senza data, ma probabilmente scritta intorno al 1913, così si rivolge ad Omero Soppelsa: <<Egregio Professore. El dirà eco sto seca totani, e mi ghe digo subito, el ga ragion, ma, come dixe i buranelli: lo bisogno lo fa fà'. El senta Professor, el varda se'l pol vender quel quadreto, lo daria per trenta franchi e se el lo compra lu, ghe lo dago per venticinque. Cinque franchi el vanza cussì restaria vinti. Per lu che ga bon cuor vinti franchi xe poco, per mi saria pagar l'affitto del studio".

17 - Scrive Gino Rossi in una lettera a Nino Barbantini nel 1920: <<[...]voialtri critici dovreste incominciare a criticare questa sporca borghesia che ci fa crepare di fame[...]>>; e sempre nel '20: <<[...]io so che l'inverno scorso l'ho passato senza stufa, pieno di freddo e quello che viene sarà lo stesso[...] io so che vado vestito come gli Spartani tanto d'inverno che d'estate e mi domando se tutto questo è giusto[...]>>; ancora nel 1922: <<[...]in Italia un uomo di gusto e di cultura [pare] debba mendicare o rubare o ammazzare[... per vivere]>>.

18 - Da una lettera di Vittorio Zecchin all'amico Emilio Fuga portante la data di partenza nella busta del 16 novembre 1912 (anche se, per alcuni riferimenti riscontrabili nel testo, è da supporre sia stata scritta durante la guerra).

19 - E. R., L'Arte e la Casa - I pannelli di Vittorio Zecchin, in "Rassegna d'Arte  Antica e Moderna", Roma, 1920, anno VII, p. 85.

20 - Zecchin in questi anni sente il distacco dalla pittura e vorrebbe riuscire sia a dipingere che ad applicarsi alle arti decorative. A prova di questo si ricorda che è all'incirca intorno al 1922 che dipinge un ciclo di affreschi, oggi andato perso, per il teatro di Murano. Egli stesso sottolinea la volontà di tornare ai pennelli, in questo momento, con una pittura essenzialmente decorativa. Scrive a Nino Barbantini, in una lettera datata 6 agosto 1923: <<Go pensà. go tornar a pensar e go molto ponderà e me sono deciso a non far la saletta. Te digo subito le ragion che son sicuro troverà giuste. Senti caro dottor. Mi gavaria volesto far una roba bela e de lusso. No go schei abbastanza e go poco tempo. Go pensà invece, sempre che ti ti sii contento de pareciar me per sta primavera. Me piasaria (questo saria il mio più vivo desiderio) presentarme con una serie de tavole, dove voria far veder che go gran vogia da impiturar. Insomma voria presentarme sotto la veste del decorator. Ben inteso che parteciparia anca una serie importante de ricami in bianco. Delle ceramiche e dei rami sbalzai e smalti>>.

21 - Alle mostre capesarine, Zecchin in questi anni non partecipò, ma fu presente sia nel 1922 che nel 1923 come membro della Commissione di Vigilanza

22 - Zecchin meritò lo stesso riconoscimento anche per gli arazzi e per i mobili.

23 - Ma anche a periodici di minor rilevanza come "Le tre Venezie" ad esempio.

24 - Zecchin era innamorato dell'Oriente al punto che alcune sue opere sono tra le interpretazioni più originali del mondo esotico, che attraverso l'Islam si spinge dalla Turchia alle Indie. Si veda Nicchia per fontana con motivo di gazzelle (Tav. 114) del 1992, dove il ricordo va subito alle ceramiche di Isnik, alle miniature ottomane, fino alle decorazioni indiane; o lo stesso Vaso libellula, la cui esasperazione delle anse non può non portare alla memoria certe soluzioni simili nelle ceramiche e porcellane cinesi.

25 - E' curioso notare come la "Venini e C." continuasse a presentare fino alla fine degli anni Venti, in riviste come "La Casa Bella" e "Domus", inserti pubblicitari con le proprie ultime produzioni, pubblicando fotografie riproducenti i vetri ormai classici ideati da Vittorio Zecchin.

26 - La figlia di Vittorio Zecchin, quando Rabindranath Thakur, anglicizzato Tagore, venne a visitare Venezia, ricorda come il padre amasse passeggiare a lungo con lo scrittore indiano (<<un omone gigantesco, tutto vestito di bianco, col turbante, due occhi pieni di luce e un  barbone foltissimo>>), di cui aveva letto tantissimo, e come amasse dilungarsi con questi in discorsi che parevano favole e allo scrittore dicesse che loro in fondo erano quasi fratelli, figli della stessa terra, della terra dove uno viveva e l'altro sognava.

27 - Sono infatti stati eseguiti in questo momento da Vittorio Zecchin che ha praticamente copiato, in modo alquanto fedele, degli altri disegni per arazzi databili al 1918 circa, oggi dispersi. Sarebbe opportuno che il Museo che li conserva, provvedesse a cambiarne la data o, quanto meno, annotasse questo nelle schede delle opere.

 

 

ZECCHIN POETA E SCRITTORE

BREVI COMPONIMENTI POETICI E SCRITTI DI ALTRO GENERE

  Si riportano di seguito alcuni brevi componimenti poetici, bozzetti e veloci impressioni, qualche racconto o fiaba, alcune massime e riflessioni, in italiano e in dialetto veneziano, tra i tanti che Zecchin scrisse in vari momenti della sua vita.

 

 

POESIE 

In nome del / Padre del / Figlio dello / Spirito Santo

 

I

EL POZZO VECIO

alla contessina

Pia di Valmarana

Te ricordo / vecio pozzo / ne la corte bela, /atorno te /cresseva i fiori, / tanti fiori. / Un glicine / te ciapava a / brassacolo / e basava / el to leon col libro / sarà. / Tigeri belo, / cocolon. / Ancuo / in museo ti xe finio / con un numero / un cartelo / catalogà.

 

II

UN CANTON DE MURAN

Viçin al canal / pien de silenzio / una ceseta / co 'na crose / picinina. / Da un muro vecio / un alboro d'olivo / se sporze in fora / e varda co devozion / una Pietà / da un picolo fanal / iluminada.

 

III

LAGUNA MIA

Quando ben te vogio / laguna mia / cussì tranquila, / sempre bela, / tutte le ore / tutti i momenti, / sempre, / col sol, / co la piova / co'l vento / co la luna; / ma più de tuto / ti fa tremar / dal piaçer / el mio cuor / l'anema mia / quando inamorada ti fa specio / a le stele.

 

IV

UN RIO

Streto, menùo, / el par 'na cale / col saiso / de smeraldo / dove le case / vecie / piene de grime / se spècia drento / nonolandose tranquille. / Sbrissa fra de lore / el sol / e s'un balcon / tra piteri pieni de fiori / un canarin / in estasi che canta.

 

V

AURORA

Va via la barca / co le so vele / d'oro / sbrissando su l'acqua / silenziosa. / Lontan / el galo / sona la sveglia / e i oseleti / ghe risponde / in coro.

 

VI

NOTE

La luna navega / in silenzio / nel çielo inuvolà. / El canal ga brividi / de fredo. / Sora l'acqua / 'na rosa bianca / passa, / negada.

 

VII

LA LAGUNA

Catedral / che ga per sofito / el çielo / e per altar Venezia.

 

VIII

EL CAPITELO

Una cale streta / fora de man / tanto quieta. / Sora 'na porta vecia / un capitelo / più vecio ancora, / con 'na Madona / adolorada. / Gnente fiori / sola / co i so dolori, / proprio desmentegada.

 

IX

UNA CALE

Longa, streta, / piena de ombre / e de mistero. / Soto al faral / do done / che non terminava / de ciacolar / e un gato / che speta / la morosa.

 

X

COME 'NA VOLTA

Cusina bassa, / senza lussi / ben tegnùa. / Travi scuri, / i balconi saràa / coi veri veci de Muran / impiombài. / Una gran napa de camin / veneziana / dal scarpelo ricamada. / S'un muro 'na Madona / bizantina / co l'olivo sora. / Una scansia co piati / dai nostri veci / impiturai / e dove / la famegia / se rancura. / L'orazion del Signor / <<panem nostrum quotidianum / da nobis odie>> / scritta in rosso, /come 'l fogo.

 

XI

IL MIO RITRATTO

SONETTO

Tanto gentile e grazioso paro / ne l'estitical beltà locomotiva / che, qual d'etfollo [?] imago rediviva / divegno d'ogni cor, celeste faro. // Qual di giardin, pudica sensitiva / l'anima mia tocca si recline / ed al linguaggio mio forbito fine / ogni lingua divien perdente e schiva // Soave dolcezza da mi lire traspire / che ogni putel fissandomi fifotta / e la mia labbia di baciar sospire // carco di grazie, come reginotte / de'poeti da fole, lungo martire / la somma sapienza mi segnotte.

 

XII

MIRACOLO

Gera / La tera tuta nua, / indormentada. / La se ga svegià / la gera / tuta un fior, / profamata

 

XIII

LE SISILE

Tre sisile / sora'l mio balcon / tute alegre / le se diseva / cocolessi / parolete / da morose / Le rideva / Le svolava / via / tute tre / le trova gigheti [?], / le zagava / come putei. / Sora al mio balcon / cantando / le tornava / Co passion / vardava / lore / vardava'l sol / che levava / ma l'anema mia / come lore / no cantava.

 

XIV

SERA D'ISTA'

El cielo / xe tuto un slugor / de stele. / In orto / i grili canta / le so canzon / d'amor, / la madresilva / i gelsomini / tremanti manda / tanto / bon odor.

 

XV

VISILIA DE REDENTOR

Vien amor mio, / vien co mi. / La barca xe pronta, / i baloni xe impissai / Fora xe tuto un canto / xe tuto un splendor / l'aria xe tuta 'na careza / vien / fa presto / la luna xe che speta.

 

XVI

VIEN L'INVERNO

Le foge casca/ a una, a una / come lagreme / de un povareto / che no spera / più. / El sol xe tristo / l'aria xe umida / l'acqua xe grassa / se strassina / come / un'amalada / verso'l mar / che brontola / verso'l mar / che rusa.

 

XVII

GELOSIA

Una barca / andava a seconda, / quieta / tranquila / in una scia d'argento. / Una voxe fresca / co passion / cantava: / Il mio moroso / m'à mandà un bel fior / color del fogo... / La luna / palida / ascoltava.

 

XVIII

GIORNO DE REGATA

Vampe de sol, / colori a miera [?] / barche / gondole / bissone. / Sventolar de bandiere / de covartoni ricamai. / Sui pergoli / sui balconi tanti fiori / slugori / de ori / lampi / de priere preziose / e de oci bei / più preziosi ancora.

 

XIX

VISION

Gera solo / i mi pensieri correva lontan. / D'improvviso / go visto fiori / tanti fiori / dapartuto fiori / e ti / mio bel / come Regina / in mezo a lori.

 

XX

UN POVARETO

Al tempo de le fiabe / ghe gera un principin / belo, / belo come'l sol / ma tanto / tanto disgrazià. / L'anema el gaveva / freda / el cuor / giassà.

 

XXI

UN GRAN DOLOR

No'l / vien da mi / San Nicolò... / go scrito... / me bastaria / 'na piavoleta [?]. / La mama mia / m'à dito / no'l pol / che'l xe tanto / povareto... / e le lagreme / vegniva zo / da quei oci / inansolai [?]. / Povareta!

 

XXII

EL CAMPAGNOL DE MAZORBO

Son vecio / son straco / no ghe ne posso più. / Una volta / vardava sta città / tuta un splendor / tempi bei / tempi lontani. / I Pescaori / alora / la mia voxe / i ascoltava, / ne la sera / i vegniva, / a piansar, / a pregar, / ancuo / i dorme, / povareti / e mi ghe fasso / da guardian. / Son vecio / son straco / no ghe ne posso più / lassé / che zo me possa [?] / dormir / insieme a lori / el sono / senza fin.

 

XXIII

PAGINE DE ROMANZO

Case negre / palazzi veci / strachi / morti / ponti abandonai / balconi / senza / nessun / portoni / sarai / i se varda / ne l'acqua / scura / che no se move / -............. / vision tetre / -............. / de tempi andai / Ponte dei sospiri... / picai. / Signori de la note / stili nel cuor / omeni mascarai / Canal dei Marani / morti / omeni coi oci vodi / negai / -............. / -............. / (inatonia) / passa / la gondola / in silenzio, misteriosa, / perdendose / ne la note / negra / sensa stele / -.............. / lontan / lontan / zighi de cavai [?] / de cavai [?] / el mar che rusa / zighi / de cavai [?].

 

XXIV

SERA

I oseleti / sui alberi de l'orto / ciacola fra lori / e i dà la bona sera, / el cielo se fa viola, / i fiori, strachi / se parecia / per dormir / e i mi putei / quieti / quieti / atorno a mi / i se rancura.

 

XXV

SERA D'INVERNO

Fora / note bruta / fischia rabiosa / la bora / Quà / in casa, / co lamenti longhi / la se fa sentir. / Par zighi sofegai / de xente che pena / urli lontani / de xente desparada / I mi putei / t'un canton / xe ransignai / con oci grandi / spaurii / me varda / e sotovose / i me dixe / papà / vian quà, / contime na fiaba.

 

XXVI

GESU'

Papà / parcosa i omeni / ga messo Gesù in crose? / Raise del mio cuor / El predicava / Amor!

 

XXVII

EL RONDON NOVELO

Varda papà/ che bel oselo / su la piera del balcon / lo go trovà, / lo go trovà / varda che belo. / El xe un rondon / povareto / el xe novelo, / nol pol più svolar, / la tera / la sora el ga tocà, / per i rondoni / non gh'è che'l cielo, / povareto / el ga fredo, / rancuralo. / De bombaio [?] / ghe vado far / subito 'na cuneta / m'à risposto / el mio putelo.

 

XXVIII

TRAMONTO D'ISTA'

Passa festose / le barche / de fruti e fiori / piene / co le vele rosse / come fiamme. / El sol / a morte va / glorioso / mandando dapartuto / vampe d'oro.

 

XXIX

EL CESENDELO

Che bel nome / ti gavevi: / <<Cesendelo>>. / L'artista vecio pien d'amor / te ricamava / col penelo, / oro, / smalti dei più bei / el meteva atorno a ti. / Dopo / nel capitelo / co la to bampa / quieta e bela / a la Madona / te dixevi / le orazion. / Anemo / ti xe morto, / <<Cesendelo>> / ti xe morto, / no ti xe più.

 

XXX

VANITA'

Un giorno / do falchi svolava / in alto / sora le nuvole / arditi / i vardava el sol. / Adesso / in una botega scura / i xe fra cento / robe vecie / pieni de polvare / sporchi, / imbalsamai / la / cin tun canto.

 

XXXI

UN BALCON

Un piter de gerani / do oci mori / che sluza / come perle / de l'oriente / una boca / più rossa / dei gerani / più rossa / del coral, / soto / una gondola / legada.

 

XXXII

ANGOSSA

Xe tanto scuro / no se vede, / la cale xe longa, / longa, / come 'na zornada / de passion, / do oci verdi / fermi, / fredi / che te varda... / i fa paura... / Da drio 'na porta / negra, / sarada, / la voxe / desparada / d'un bambin che pianse / d'un bambin che ciama / Mama...

 

XXXIII

SILENZIO

Dorme / le barche ligae / a la riva / non se sente anema viva, / le stele quiete / le se specia nel rio / scuro - fredo - destirà / che non se move. / Xe note.

 

XXXIV

SERA D'AGOSTO

Tra bampe d'oro / el sol / ga saludà la tera. / Nel cielo / la luna, / ardente cone'l cuor / d'una vergine / inamorada, / pomposa / Xe alzava.

 

XXXV

LA NOSTRA VITA

La cale xe longa / streta / scura. / I passi se ripete / co un son / pesante / co un son / profondo / che dà l'angossa / al cuor. / Dal rio che se strassina / in fondo / straca / una voxe, / se perde ne l'ombra / come un lamento / Ghee!... / va de longovo [?]...

 

XXXVI

CANTO DE PRIMAVERA

Se alza'l sol / belo / come un re da fiaba. / Sluze sui fiori / la giosa de rosada. / La calandrina / in alto svola / sempre più in alto / là / verso'l cielo d'opale / e la canta, / la canta, / al sol che la basava.

 

XXXVII

TEMPI CAMBIAI

Parlava el pescaor / nel so dialeto / quieto / longo / e tanto belo / -... una volta / quando se vedeva / quela fermadura / là / verso ponente / e dal mar / el sciroco se moveva / caligà / pareva [?] a sera. / Anemo / gnente se sa, / cambià / ga la tera, / el vento, / parfin el mar ga cambià / e nu credendo / de saver / no se sa / più gnente.

 

XXXVIII

NOTURNO

Un pescaor / inamorà / cantava. / Le stele soridendo / lo ascoltava. / L'acqua / tuta in ardor / tremava. / El pescaor / inamorà / sempre / cantava.

 

XXXIX

SPERANZA

Tuto'l giorno / una piova sotile / mai / la terminava / ma verso sera, / dove tramontava'l sol / una strissa rossa / s'à fato strada. / Doman... / forse... / sarà / 'na bela zornada.

 

XL

LA PORTA DEL CONVENTO

In fondo a un muro / alto / alto / dal tempo rosegà, / una porta / bassa / scura / ben sarada / e un cuor / co l'inferiada.

 

XLI

VARDANDO DAL BALCON

Piove. / L'acqua camina / straca. / Una barca vecia / ligada al palo / de la riva / lustra / bagnada, / la sta ciacolando / co un sandalo / vicin. / In fondo / Venezia / che apena la se vede / come nuvola lesiera / sul cielo / ricamada.

 

XLII

PASSA 'NA ROSA

a Maria  [...]

con grande

stima

La luna navega / in silenzio / nel cielo inuvolà. / El canal ga brividi / de fredo. / Sora l'acqua / 'na rosa bianca, / passa / negada!

 

XLIII

VERSO SERA

El rio gera quieto / nessun passava / le case tute in ombra. / Una sola / dal sol iluminada, / la biancaria fora dai balconi destirada / fresca sbampolava / se caresava. / Tuto ne l'acqua se speciava / tremando / come una putela / inamorada / che al specio / ghe domanda / songio bela?

 

XLIV

SCIROCAL

El mar / tuta la note / ga rusà. / Nel cielo scuro / le nuvole se core drio / sgionfe de piova. / L'acqua del canal / no trova pase / e cassada dal vento / la sbate, rabiosa / fondamenta / e case.

 

XLV

GALDANA

No gh'è un filo d'aria / no se respira, / nel cielo scuro, / apena qualche stela. / Pigra / l'acqua se strasina / verso'l mar / in fondo / dove lampisa.

 

XLVI

MOTIVO VENEZIAN

Passa tre / de le più bele more. / Tre regine in scial. / Chi ghe buta / un fior? / No, no... / e lo rancuraria / co 'na gran risada.

 

XLVII

VECIA FIABA

Su la riva / d'un canal / tetro / giassà / una gran casa / scura / abandonada. / A la sera / chi passava / per de là / con gran timor / se segnava. / Una fia de Dose, / i me conta, / gera morta / senza amor, / desparada.

 

XLVIII

LEGENDA

Una volta / in tempi lontani, / tanto lontani, / Dove? / più nessun lo sa. / Ghe gera un'isola / incantada. / Le più bele done / nasceva là... / ma... / no le amava. / El mar, / una note d'inverno / e la ga / subisada.

 

XLIX

SPARIMO

a Teresa Torcel[...]

Vien primavera / vien / vien col to sole / coi to fiori. / Vien, / porta un soriso / a sto cuor strucà / a sto cuor / dei to fiori, / dei to canti, / del to sol / inamorà!

 

L

UNA NALE

Longa, streta, / piena de ombre / e de mistero. / Soto el fanal / do tose / che no termina / de ciacolar / e un gato / che speta / la morosa.

 

LI

PAESAGIO ORIENTAL

Una stela sola / trema nel cielo / fato d'opala / riva le barche / dei pescaori / quiete / maestose / co le so vele alzae / co i gali canta. / Se alza'l sol. / Sora la cavana / dal tempo / maltratada, / un mandoler in fior / s'inchina / a l'acqua / che passa / tranquila / a l'acqua / come'l cielo / fata d'opale.

 

LII

PRIMAVERA

Sventola alegra / la biancaria al sol. / Lesiera come 'na carezza, / l'aria sospira / tra i mandoleri / in fior. / Casca 'na piova / de gose bianche / profumae. / Felice una putela / canta.

 

LIII

NOTE DE SCIROCO

No se respira / la luna xe in alto / turbia / infumigada / incaligada / no gh'è na grima. / Le barche xe ferme / inciodae, / la fondamenta / xe tuta bagnada / petaissa, / i ciari dei fanai / se riflete in acqua / driti, duri / come spade. / No se pol dormir / xe sofego / no se respira! /

 

LIV

MALINCONIA

Vardo fora pensoso / i fiori / del mio picolo giardin / strapargei [?] dal vento / da la piova. / Me sento / l'anema strucar / da la malinconia. / Pianse i fiori / dal vento / da la piova... / tormentai. / Una lagrema casca / un altra... / un altra ancora.

 

LV

[VE VARDO LIBRI MII]

Ve vardo libri mii / boni amici, / grandi amici mii / quanto ben / che ve vogio. / Ve carezzo / ve baso / co l'anema / co'l cuor. / Sempre più bei, / sempre più amici mii. / Mai / m'avè dito / una busia.

 

LVI

UN'ORA DE NOTE

No se sente più / i rondoni / alegri a zigar. / Le prime stele / timide, le vien / a spiar. / Le nuvole inquiete / le và / de qua, de là / come aneme in pena. / Lontan, lontan / la campana sona... / un altro zorno / xe passà.

 

LVII

SERA IN LAGUNA

Ne la calighela viola / se perdeva el son de le campane / de la sera. / La luna / mandava i so sluzori / che su l'acqua / silenziosa, / come schiame d'argento / tremolava. / Le bricole / a una, a una / quiete / come creature in orasion, / ne la calighela viola / le se perdeva.

 

LVIII

RAGI DE LUNA

Un gran silenzio. / Tuta la laguna / pareva in orasion. / Come incenso / una calighela / se alzava / verso la luna. / Ne l'ombra / do creature / se basava / inamorae.

 

LIX

GIORNADA D'INVERNO

Il tempo gera tuto sarà / fredo / giasà. / Tempo da neve. / S'un canton, / una dona co'n fantolin / in brasso, / tremando / domandava / carità. / I pochi che passava / noighe badava.

 

LX

APRIL

L'orto pien de sol, / 'na festa / de colori, / i persegheri / tuti in fior, / l'aria profumada... / Primavera / che cantava.

 

LXI

SERA DE MAGIO

Aria che sa da rose, / rondon che zoga / il cielo, / canti de litanie / in Cesa. / Ociae / sorisi / tra tosi e tose / in strada.

 

LXII

 

NOTE SERENA

a Piero Polese

Fa nana fantolin / de la Madona, / la nana gengamin [?] / de la to mama... / la silota [?] lesiera / se perdeva / ne la note / tuta stelada.

 

LXIII

DE SERA IN CESA S. DONA'

Ombra. / Silenzio / el lumin eterno / sbampolava / davanti l'altar / del Signor. / Do vechiete / co devosion / el rosario / le mormorava. / In alto / tra sluzori d'oro / la Madona / anca Ela / pregava.

 

LXIV

CANZON D'AMOR

Ti xe fia del sol. / I so ragi / xe tuti tui. / De la luna / ti xe più bela. / De le stele / ti xe sorela / e ne l'ombra / dei to rii, / Venezia, / ti sospiri / la tua / eterna canzon d'amor.

 

LXV

BORIN

Per la strada / tuta giassada, / una vechieta / tremando / tra grissoli / de fredo / de miseria e desolazion / pian pianin / se strasinava / el cielo / lagremava / e un vento / sutilo, sutilo / se lamentava.

 

LXVI

ALBARO DE NADAL

Mama / el Bambin Gesù / ga portà tanto zogatoi / ai putei. / A mi / gente.../ Parcosa?...

 

LXVII

I RONDONI

Alti i svola / in cielo, / i se core drio / come putei / imorbinai [?]; / i fa bossolo / atorno / un albaro in fior, / i svola in alto ancora / mandan do baseti / al sol, / i core avanti / indrio / senza stancarse mai / senza mai finir.

 

LXVIII

CALIGO

La laguna / xe piena de caligo, / no se vede / gnente. / I nervi grissola / tuti giasai, / el sandalo va tentoni... / pien de timori / al cuor. / Lontan, lontan / qualche rigo / de cocal [?]. / Dentro'l sen / tuta l'anema / in agossa... / Nè una voxe, / nè de campana un son... / Gnente!

 

LXIX

NOTE DE LUNA

ad Amelia

Xe in silenzio / la laguna. / Rosa la luna, / l'acqua, / inamorada. / Soto / le aleghe / tute / abandonae / dal piacer / le trema.

 

LXX

FIORI

Vechi tuti do / mario / muger / tuti 'na grima. / I alzava la vanga / co gran fadiga / per romper la tera / tuta sassi / dura / imusonia. / Povari vechi / tanto i strussiava, / ma gera / tanti fiori / atorno / che li vardava.

 

LXXI

ZORNADA BRUTA

Pien de malinconia / aspetava... / La laguna / gera color del piombo. / La piova, / insendosa / vegniva zoso / senza mai finir. / Sghignazzando, / zoga col vento, / i cocai. / Per tera / ghe gera dei fiori / sapegnai.

 

LXXII

ORAZION DE LA SERA

Un pescaor / la barca, la vela / pareciava. / Sotovoxe'l cantussava. / Le stele / a una, a una / tremolando / nel cielo / s'impissava.

 

LXXIII

EL LUMIN DE LA MADONA

Una dona inzenociada, / col viso in tera, / apassionada. / Le man strete / in ato de preghiera, / desparada. / El sen dai sangioti / se spacava. / In alto / la Madona / ascoltava. / Soto / el lumin / sbampolava.

 

LXXIV

L'AVEMARIA

La note xe passada. / Tresca / come quela d'una bambina / manda la so voxe / la campana / picinina. / Se verze'l cuor. / Trema sui lavri / un'orazion / come 'na perla / de rosada. / Se alza trionfante / el sol / e l'anema / felice lo saluda / inzenociada.

 

LXXV

OFERTA

Dadrio un balcon / basso / picinin / una vechieta lavorava. / Tremando / l'alzava l'ago / verso'l sol / che tramontava. / La pareva, / benedeta, / una Santa bizantina / che offriva al Signor / el lavoro / de le so man / strache / inscheletrie.

 

LXXVI

CALDANA

No gh'è un filo d'aria / no se respira, / nel cielo scuro / apena / qualche stela. / Pigra l'acqua / se strassina / verso'l mar, / là, in fondo / dove / lampisa.

 

LXXVII

EL PALAZZO ABANDONA'

a Piero Polese

Povaro palazzo, / povaro vecio, / le to piture / palide / sbampie / no ga gnanca forza / de speciarse in acqua. / Dai to balconi / scuri / come gran oci / vodi / senza fondo, / le sfese vien zoso / come righe de lagreme / longhe / silenziose / per'l dolor / grando / senza fin / che te consuma.

 

LXXVIII

LUNA PIENA

La barca se ninolava / in una gran quiete / inargentada. / Lu ghe dixeva cocolesi / Ela sospirava / co un baso la ga sfiorà / la boca... / Ela ga tremà beata / come fior basà / da la rusada.

 

LXXIX

LE BELE DE LA NOTE

a Cesco Toso

La sera vien avanti / co le so ombre / che le se destira zo / piene de mistero. / Nel picolo zardin / tremando / come putele inamorae / le bele de la note / verze el so cuor / sospirando. / Dal cielo / un giosso de rosada, / un baso / da le stele.

 

LXXX

L'ORBO DE L'ARMONICA

Lo basso, / pien de fumo / quatro fiori / su per i muri sbegassai, / el cortelo de la sozia, / come'l solito / <<amicizia>> / più dei fiori / sbegassada. / Besteme de la zente che zogava / zighi de zente / che dixeva insulsesi / piavolae... / D'improviso un gran silenzio / se ga fato, / una musica / se sente / tuta fata de sangioti / tuta piena de passion, / gera l'orbo / che sonava / e piansendo / a un'l diseva / quel che i oci / no vedeva.

 

LXXXI

CALIGHELA

L'aria, l'acqua / tuto xe madreperla. / La laguna par / 'na gran conchiglia / senza fin. / In meso / sluse / come porpora / preziosa / una vela. /

 

LXXXII

VITA GRAMA

Do cavai vechi / tuti pele e ossi, / inscheletrii / l'aratro i strassinava. / Co la testa bassa / i pensava / a la so vita grama. / Con ochi strachi, / senza color / i vardava la tera / ancira da sbregar... / Un omo / intanto / li bastonava.

 

LXXXIII

OMBRE

a Dino Marteno

Le ombre de la sera / le vien avanti / a pian, / a pian. / La campagna / smorta / tuta inzusada / da la piova fina / che vien zo / gelada. / Un cavalo / barcando / in mezo al fango / de la strada, / strassina un burcio / rusà / ne l'acqua scura / del canal... / al timon, / solo, / un omo / intambarà.

 

LXXXIV

EL BALO

Musica d'africani / che faseva tremar / le vene. / Chi che sluzeva, / puti che ansava, / done che se piegava / come bisse, / done che strasinava / come pantere / vizio / desideri / zoventù che zigava / un borbelo da sbasir. / Solo, t'un canton / un fantolin / vardava quel'inferno / con oci pieni / de pianto / e tuto ransignà. / Povaro bambin, cuor inanzolà, / la mama tua / xe che bala / e la te ga / desmentegà.

 

LXXXV

SOL CHE LEVA

Venezia / se svegia / in un velo de madreperla / l'acqua che la caressa / trema / soto i basi / d'una bavesela / veludada. / Dal campagnel / de S. Francesco / la bala d'oro / sluze / come la più bela / stela / se alza el sol / in tuta la so gloria / come un gran Re / de fiaba.

 

LXXXVI

TRAMONTANA

Lamenti longhi / urli d'angossa / gioche lontani / piova bissa / che schiafissa i muri... / lontan un scuro / sbate e riga / da far sgrisolar / le vene.

 

LXXXVII

TEMPI PASSAI

Pei tragheti / d'Armida se cantava / co passion / l'eco rispondeva / amor. / In cale / le vilote alegre / come oseleti / per l'aria se sparpagnava. / L'armonica sonava... / Le vilote xe finie / e d'Armida i canti / l'eco / no li ripete più!...

 

LXXXVIII

DOPO LA PIOVA

L'aria / sa un bon odor / fresco / che ristora / felici i fiori / ghe ride al sol. / I mi bambini / corre in orto / a brassi sbalancai, / come rondoni / i fa righeti / e pieni d'alegria / i varda / le nuvole che in cielo / scampa via.

 

LXXXIX

UN ORAZION

Le putele, tute bianche, / come gigli / co le man giunte / pian, pianin / le dise l'orazion / de la matina / per lore / scrita / co l'anema, / co'l cuor / da 'na Dona / che'l Signor / ga ciamà / tropo presto / haimè! / co lu! / Fene bone, / le sospira, / fene brave... / e co nu / benedì oh Signor / l'Italia nostra / e chi / la tien su.

 

XC

ACQUA IN ARDOR

In alto le stele / coeme oci / che vien spiar / su sto mondo / bruto.

 

XCI

DA PONENTE

D'improviso / verso ponente / vien suso spaventose [?] / furibondi / negri nuvoloni / carghi de lampi / carghi de tempesta / - / come cani rabiosi / tra zighi, urli / fischi indemoniai / si se ribalta / su la tera / spauria.

 

 

XCII

DO STATUE

Sole, / solete, / misteriose, / la vostra casa vecia / la xe là, / desmentegada, / sbrisa, / infumegada. / Cossa fen ancora qua? / Speten forse / le bele dame / coi cavalier serventi / che piene de morbin / vegniva / per dirse cocolessi / per dirse madridali? / Povare desfortunae, / quei tempi / xe passai. / Ancuo / s'è sole, solete, miseriose, / la vostra casa vecia / la xe là / desmentegada, / sbrisa, / infumegada.

 

XCIII

SCURO DE LUNA

Soto ai vieri / co le gran boche spalancae, / la barca xe ligada, / el timon anzà / a la popa s'inchina, / le vele fate su, / ligae. / Le vele su la banda, / destirada. / Soto prua / i pescaori / che ronchisa.

 

XCIV

L'ANAROTO

I navegava tuti quatro / a do a do / come paranze. / El maschio / col bucolo su la coa, / che tremava dal desiderio, / el vardava le so done / che come regine / le andava. / Che signor quell'anaroto, / l'amava le so done / e sicuro / d'essere paron, / l'alzava la bella testa colorada / e non sentiva / che la piova / vegniva zo / gissada.

 

XCV

LA MESSA

Gera fora al caffè / aspettava / ne la tola viçin / dei signoroti, / de comprite, / de vendite / i parlava forte. / Do so fioi / uno colla rivoltela, / l'altro col schiopo, / i zogava. / Do contadinei / col capelin tondo / che apena sulla testa e ghe stava, / con do oci beli, / ciari, / spaurii / come quelli de le colombe, / maravegiai / li vardava / innocenti / no li saveva / i oci destacar / da quelle robe. / Con le man in scarsela / de le braghe, / massa longhe, / e la bocca verta / i vardava / i fioi / i signori / la rivoltela / el schipo... / Din - don / din - don - dan... / sona la Messa... / i do putei / da li oci spaurii, / i scampa via / e i corre / verso Cristo / che li ciamava.

 

XCVI

LA MALCONTENTA (VILLA TOSCARA)

Sistu benedetta, / che pena ti me fa, / tutta smorta, / desmentegada, / tutta sbrindoli, / dal tempo rosegada, / senza scuri, / senza allori, / senza vita / proprio abbandonada! / Immusonia, / piena de fredo, / de miseria / e desparada. / A chi te varda / ti ghe seri el cuor. / Perché ridota cussì? / <<Son sempre la malcontenta stada>>.

 

XCVII

CARITA'

El pianseva / el gera desparà. / L'anima sua / zigava / el so cuor / gera spaccà. / Co le man zonte / una parola bona / el domandava. / -..... / Davanti / la Crose / el sa insenocià / e ai pie del Cristo / insanguenà / la parola bona / el la ga trovada.

 

XCVIII

ORAZION DE LA MATINA

La note xe passada. / Svola per l'aria / la vose fresca / d'una campana picinina / che canta / Ave Maria! / Ave Maria! / Se verze'l cuor. / Trema su laori / come perla de rosada / l'orazion de la matina. / Se alza in cielo / trionfante'l sol / e l'anema / felice / lo salutava inzenociada.

 

XCIX

LE CASETE

Malcontenta - Mestre, / si cambia... / Vardo in fondo al canal, / in mezo alla calighela / povare case / ve vedo / e tanto bele me parì / come putele / in mezo ai stenti cresue, / magroline, / palide, / senza colori, / coi oci languidi / color de la laguna / e i allori / che atorno / ve protese, / pieni de fredo / e tuti steminzii, / me fa pensar / a de la zente / povareta / dall'amor / unita insieme. / Quanto bele / me parè / e come ve vogio ben / care casete!...

 

C

E PESARLO...

E pesarlo sul / mio cuor / no se pol / el restelo / xe sarà.

   

RACCONTI

  

LA LEGGENDA DELLA VALLE DEI SETTE MORTI

<<Leggenda dei 'Sette Morti'? Oh, una cosa da niente. L'ho pensata una sera in questi orti mentre stavo bevendo il vento fresco carico del muschio amaro delle vecchie foglie decomposte; guardando l'acqua che dolcemente scorreva, guardavo lentamente dileguare la mia semplice vita. E sorridevo, sorridevo beatamente... Ma volete proprio risentirla? Ve lo ripeto: una cosa da niente... Sentite:>>

Ghe gera 'na volta sete pescaori de laghe che andando al la serca, tuti sete su una barca, in compagnia d'un putelo, una sera che ghe gera la lunaga incontrà ne la vale un morto, che galegiava. Lori i ga visto subito che el gera un guardian de la vale; e siccome che i ghe voleva mal perché lu ghe dava la cassa quando che lori andava de note a pescar de contrabando, se ga messo a ridar su quel morto, e xe andai via senza gnanca pensarghe de torlo suso per sepelirlo.

E avanti, avanti, tolendo su l'aleghe...

A un certo punto i se ga fermà per far la polenta e cenar, visin a una barena alta, dove i gavaria destirà l'alega per farla sugar. Intantoi che i fazeva la polenta, el putelo xe saltà su le barene per andar a zogar; e gira gira, el ga visto a un certo punto un omo destirà sull'orlo della barena fra i fiori de santonico, che se fa el decoto per guarir la fevre. Alora el xe corso dai pescaori, zigando:

- <<Ghe in barena un omo che dorme>>.

I sete pescaori ga capì che doveva esare el guardian morto che i gaveva visto prima: e se ga mesi a ridar, disendoghe al putelo:

- <<Ben, va a ciamarlo, e dighe che el vegna anca lu a magnar la polenta...>>.

El putelo torna indrio e core e core: e arrivà dal morto ghe dise:

- <<Su, su, che la polenta xe pronta>>.

E siccome st'altro no rispondeva, el putelo xe corso indrio, dai pescaori, perché la sera ghe meteva paura: e disendo una busia, ga dito ai pescaori:

- <<El ga dito che deso el vien!>>.

A sentir quele parole, i pescaori xe restai imatonii e se vardava... E improvisamente i vede su la barena el guardian che vien avanti... Quel povero guardian che i gaveva visto morto negà, e che i gaveva ridesto lassando che l'acqua lo portasse via, senza dirghe gnanca un 'requie', e torlo suso per darghe sepoltura! E tuti sete, spasemai, se ga inzenocià e la i xe restai, con la testa pasuda su le man, tuti morti, soto la luna...

E a la matina, le barche che passava cantando per quel canal, vedeva quela barca de pescaori co dentro sete morti su un leto del aleghe, e el putelo che li vardava imatonio...

 

IL MERLETTO DI BURANO

C'era una volta un giovane pescatore di Burano che aveva una bella fanciulla per fidanzata. Ma dovette partire per la guerra contro i Turchi. La povera fanciulla gli promise piangendo, che attendendolo, gli avrebbe fatta una rete nuova, fitta fitta, che gli avrebbe regalata al suo ritorno. Egli partì: e la dolente, ogni sera, finite le sue faccende, scendeva alla spiaggia e volta a Oriente, dov'era lui, al chiaro della luna lavorava, lavorava a far la rete nuova di un bel filo sottile e robusto: e cantava, sospirando: <<ciò ch'è molto musicale, è sempre molto melanconico...>>.

Così di quando in quando qualche lacrima cadeva sulle maglie sottile e fitte: e cadendo sull'incrocio dei fili, formavan come una rosetta, trasformandosi in perle. E poiché i giorni passavano e il mare restava deserto e lui non tornava, le lacrime della bella isolana cadevano sempre più abbondanti sulla rete: finché una sera di luna, perdute le speranze del ritorno, con la mano sul cuore e sotto un tremulo fuoco di stelle, la fanciulla si spense...

E al mattino i pescatori trovarono sulla spiaggia una bella rete, fitta fitta e bianchissima, nella quale tante perline facevan delle rosette, che erano le lacrime solidificate della povera fanciulla; e poi c'eran su tante stelle marine, e fogliette e piccoli granchi e sottili meduse. La luna, correndo la notte l'arco del cielo, avuta pietà dell'innamorata, non potendo di meglio, aveva fermato il funebre bianco ricamo con un suo sottile capello...

E allora corsero a vedere tutte le ragazze dell'isola e raccolta delicatamente la bella rete fatta di lacrime e fili di luna, si ingegnarono a riprodurla. Così nacque il merletto di Burano.

  

MASSIME E RIFLESSIONI

 

I

Credo nel Signore, cosa perdo se il Signore non esiste? Credo nel Signore credo alla Vita eterna, se invece della vita eterna, v'è il nulla, cosa perdo? Niente. Al contrario se il Signore esiste quanto perde chi non crede? Tutto e per l'eternità.

 

II

Uno quando ama, veramente ama, nol ga bisogno de ragionamenti, ma l'ama solo perché el crede, perché el ga fede assoluta in quello che l'ama.

 

III

Megio in alto su la Crose che su le spale del popolo che ziga: Viva Barabba.

 

IV

 

L'omo gha messo in crose Gesù, El predicava Amore.

 

V

Verità: Gesù xe Dio, fio de Dio e basta! Da qua no se va più avanti, no ghe xe più da pensar, studiar e discuter.

 

VI

El rico nol xe che un scherzo de natura.

 

VII

La superbia e l'ingratitudine, de un anzolo la ga fato un demonio.

 

VIII

Fradeli, anca Caino e Abele gera fradeli.

 

IX

Che felicità se se podesse dir ai ladri: bongiorno signor ladro.

 

X

Quando se ghe fa monumenti ai vivi vol dir che se ga paura che da morti no se ghe ne fassa.

 

XI

Vuto una bona compagnia? Sta sempre insieme co ti solo.

 

XII

Una gran cità, che deserto!

 

XIII

Faser xe proprio gnente, saver taser xe tanto.

 

XIV

Se dise che'l tempo passa; no xe vero, semo nualtri che passemo e per sempre.

 

XV

Quanti interpreti per una legge sola.

 

XVI

I libri de certi scritori xe come bossete de cristalo tute ricamae de ori e colori bei ma che dentro le ga el velen.

 

XVII

Che facile criticar, far, che dificile.

 

XVIII

No penso che tuti i critici sia boni da gnente, ma certo tuti i boni da gnente xe critici.

 

XIX

Un bon critico dovaria esser come un bon papà, ma come xe possibile che quasi sempre, nol ga fioi.

 

XX

Xe passada a la storia e da secoli se conta de una certa Lucrezia romana. Che bruti doveva esser quei tempi perché una sola Lucrezia gabia fato epoca.

 

XXI

Quando a una roba, qualunque la sia, se ghe fa una gran reclame, stè pur sicuri che la val poco.

 

XXII

Se osservè, el popolo, parla sempre de diriti, mai de doveri. Tanto, parlando de lori, el fa una confusion malegnara, el riva perfin a dir: go el dirito de pagar l'affito.

 

XXIII

Da secoli e tuti co' parla de l'edera i va in languori, e no la xe, povara diavola, che una pelandrona che se rampega e vive su le spale de i altri.

 

XXIV

Massar uno xe un delito, e condanar a morte uno, cossa xelo?

 

XXV

Vider ben e pensar ben xe una gran bela roba, ma vedendo mal e pensando mal, purtroppo, la se indovina sempre.

 

XXVI

Una volta ghe gera i zoveni, zoveni; ancuo gavemo i zoveni seri. Che malora!...

 

XXVII

Ridendo se mostra el cuor, sorridendo se mostra i denti.

 

XXVIII

Se sbaglia, quando se crede che'l rico sia stimà, xe i so bessi che vien stimai.

 

XXIX

Ghe xe de la brava gente che no crede a gnente de spiritual, ma i ghe crede ai spiriti.

 

XXX

In quei luoghi dove se condanna o se assolve ghe xe scrito in grando: <<la legge è uguale per tutti>> ma la se trova dadrio le spale dei giudici.

 

XXXI

Tanto mal xe sta dito e se dise de le done epur da che mondo xe mondo se deventa mati per le done.

 

XXXII

Un segreto perché el reste segreto no bisogna esser in do a saverlo.

 

XXXIII

Erudito, solamente semplicemente erudito, no xe che una biblioteca ambulante.

 

XXXIV

Mi no digo che i filosofi sia dei zarlatani, ma quelo che i dise generalmente no xe che, come diseva quel principe danese de bona memoria, parole, parole e parole.

 

XXXV

Tuti i filosofi va dacordo per non andar dacordo fra de lori.

 

XXXVI

Pensando ben, libertà no voria dir altro che far quelo che i altri no vol.

 

XXXVII

In nome de la civiltà, in nome de la libertà, in nome de la patria quanti deliti xe stai fati.

 

XXXVIII

 

Patria mia. patria mia che Dio te salva dai <<pattriotti>> che te vol massa ben.

 

XXXIX

Una volta chi combateva gera militi, soldati, ancuo materiale umano.

 

XL

La storia no deve esser vista con ochiali rossi - verdi - azzurri - zali o negri, bisgogna vardarla coi ochi ben verti.

 

  

NOTA BIOGRAFICA

 

1878

Vittorio Zecchin nasce a Murano il 21 maggio 1878, figlio di Luigi e Domenica Rumor. Il padre è chimico del vetro. La madre è di Maniago, in Friuli

 

1894

Si iscrive all'Accademia di Belle Arti di Venezia e viene ammesso all'anno Preparatorio. Passerà l'anno accademico con il profitto di 69 1/5 su 80 e meriterà la medaglia premio del riconoscimento di 1° grado data ai migliori alunni ogni anno. Dal registro scolastico risulta abitare a Murano nella parrocchia di S. Pietro Martire al numero civico 228.

 

1895

E' ammesso all'anno 1° Comune dell'Accademia. E' rimandato con il profitto di 52 su 70. Agli esami di riparazione il profitto di 52 1/2 su 70 ottenuto non gli permetterà di superare l'anno accademico.

 

1896

E' riammesso all'anno 1° Comune che supererà con il profitto di 75 su 90 e meriterà la medaglia premio del riconoscimento di 2° grado.

 

1897

E' ammesso all'anno 2° Comune e al 1° Speciale Paesaggio tenuto da Guglielmo Ciardi. Dai registri dell'Accademia risulta che alla fine dell'anno non si presenterà agli esami e non c'è alcuna annotazione di punteggio; l'anno successivo però risulta iscritto al 3° Comune, il che fa pensare che Zecchin non si sia presentato agli esami del corso sul paesaggio mentre abbia probabilmente superato il 2° Comune.

 

1898

Risulta ammesso all'anno 3° Comune che passerà con il profitto di 64 4/5 su 80 e meriterà la medaglia premio del riconoscimento di 2° grado.

 

1899

Risulta ammesso all'anno 1° Speciale Ornato tenuto da Augusto Sezanne. Passerà l'anno accademico con il profitto di 29 2/5 su 30 e meriterà il premio per "l'Ornato".

 

1900

Risulta iscritto all'anno 2° Speciale Ornato tenuto da Augusto Sezanne. Passerà l'anno accademico con il profitto di 37 2/5 su 40 e meriterà il 2° premio per "l'Ornato".

 

1901

Risulta iscritto all'anno 3° Speciale Ornato, ma non si presenterà agli esami e abbandonerà l'Accademia.

 

1903

Per qualche mese lavora come impiegato municipale. Lascia questo inacarico e lavora come operaio in una delle tante officine vetrarie di Murano.

 

1903

Dipinge il suo Autoritratto.

 

1906

Alla Biennale veneziana può ammirare le opere dal simbolismo mistico di Jan Toorop: Giovane generazione e Le tre spose sono le opere che più lo colpiscono e che ispireranno alcuni quadri di soggetto religioso che esporrà a Ca' Pesaro.

 

1909

Partecipa alla Mostra primaverile di Ca' Pesaro.

Partecipa con quattro dipinti ad olio alla Mostra d'estate di Ca' Pesaro.

Partecipa con cinque quadri alla Mostra d'autunno di Ca' Pesaro.

 

1910

Alla Biennale veneziana può ammirare le opere esposte alla mostra personale di Gustav Klimt (l'artista che più lo influenzò) e i disegni di Aubrey Beardslay.

Espone quattro dipinti ad olio alla Mostra di primavera di Ca' Pesaro.

 

1912

Partecipa con tre dipinti ad olio alla Mostra annuale di Ca' Pesaro. E' probabilmente in questo momento che Zecchin approfondisce la sua amicizia e collaborazione col pittore Teodoro Wolf Ferrari, di ritorno dall'ambiente secessionista di Monaco, concependo la felice realizzazione delle opere esposte a Berlino e alla Biennale veneziana del 1914. E' in quest'anno che Teodoro Wolf Ferrari fonda tra i giovani di Ca' Pesaro il movimento L'Aratro, che ha come obiettivo la valorizzazione delle arti applicate; movimento al quale Zecchin aderisce.

In una lettera a Emilio Fuga, datata 16 novembre 1912, sottolinea la sua adesione al gruppo dei "secessionisti" e spera, anche grazie all'intraprendenza di Zanetti-Zilla, che l'iniziativa faccia strada.

 

1913

Alla Mostra annuale di Ca' Pesaro espone quattro dipinti a tempera e decora con Il giardino delle fate la sala che accoglie le sue opere.

Alla Prima Esposizione Internazionale d'Arte della Secessione, a Roma, espone due dipinti ad olio.

Nel dicembre, alla mostra delle arti decorative di Monaco di Baviera, espone assieme a Teodoro Wolf Ferrari alcune vetrate, vasi e lastrine in vetro-mosaico, eseguite dalla ditta "Artisti Barovier" di Murano.

E' l'inizio di una volontà sempre più forte, con non poca capacità autocritica, di volersi dedicare alle arti decorative. Da questo momento la pittura, che era stata il fulcro dei suoi interessi artistici, andrà gradualmente a passare in secondo piano rispetto a quelle arti minori che lo vedranno artista più originale e qualitativamente più vicino a quanto andavano allora facendo altri importanti artisti in campo internazionale.

 

1914

Alla Biennale veneziana espone, sempre assieme a Teodoro Wolf Ferrari, alcuni dei vetri esposti a Monaco più altre opere in vetro-mosaico eseguite sempre dalla "Artisti Barovier"; gli artisti presentano, con un loro scritto pubblicato in catalogo, le opere esposte.

Partecipa a Roma alla Seconda Esposizione Internazionale d'Arte della Secessione Romana con il dipinto Covegno Mistico.

A partire dal 20 giugno, all'albergo Excelsior del Lido di Venezia, partecipa alla Mostra dei Rifiutati della Biennale.

Per l'albergo Terminus di Venezia esegue, sotto l'influsso anche della decorazione che alla Biennale di quell'anno aveva eseguito Galileo Chini, un ciclo pittorico su tela di circa quaranta metri quardati con scene de' Le mille e una notte. Queste opere sono da considerasi tra i suoi lavori artistici di maggior importanza e sono ritenuti tra le più alte espressioni del Liberty a Venezia.

 

1915

A Roma alla Terza Esposizione Internazionale d'Arte della Secessione Romana, espone il dipinto Scolta Barbara.

A febbraio, all'Hotel Vittoria di Venezia, partecipa alla Esposizione di Bozzetti di Artisti Veneziani.

Esce il primo e unico numero di quella che doveva essere la rivista del gruppo di Ca' Pesaro: "I Pazzi".

Allo scoppio della guerra è esonerato dalla chiamata alle armi perché claudicante.

 

1916

Durante la guerra allestisce un laboratorio di arazzi in un ex convento presso la chiesa di San Donato a Murano dove, sotto la sua direzione, lavorano molte giovani ragazze isolane. Inventa un punto di ricamo che imita la pennellata dei dipinti. E' a quest'anno che si deve far risalire quello che è forse il primo incontro con Gabriele D'Annunzio, il quale fa visita (come ebbe a raccontare lo scrittore stesso ne' Una licenza in La Leda senza cigno, dove, nella prima edizione, mette questa dedica: <<Al grande artista Zecchin da Murano, che mangiò la polenta nella Valle dei Sette morti>> (parole ispirate da una favola che Zecchin un giorno raccontò al poeta) al <<monastero senza monache>> di Murano. Zecchin, in una intervista pubblicata in "Rassegna d'Arte Antica e Moderna" del 1920, ricorda l'incontro con D'Annunzio con queste parole: <<In una visita, che certo non desmentego, D'Annunzio ga trovà bei quei barbari [l'arazzo oggi conservato al Vittoriale] e li ga comprai. Quel giorno non me saria cambià col Scià de Persia>>. D'Annunzio sarà un grande estimatore di Zecchin che incontrerà, in varie riprese, durante la sua permanenza a Venezia. Quando si trasferirà poi al Vittoriale, inviterà Zecchin più volte a fargli visita, commissionandogli varie opere (lavori, come ebbe a lamentarsi il muranese, che il poeta mai gli pagò). In ogni caso, la frequentazione di D'Annunzio durante il periodo bellico, servirà a dargli grande notorietà alla fine della guerra.

 

1919

Alla fine della guerra abbandona il vecchio convento, dove aveva sede il suo laboratorio per arazzi, per un luogo più adatto e meno disagiato.

Partecipa con vari lavori in stoffa, nella sezione veneziana, alla mostra Italo-Britannica d'arti e mestieri di Roma, inaugurata il 25 marzo.

Ottiene una sala nella Mostra annuale di Ca' Pesaro dove espone arazzi, ricami e vetri smaltati (molte delle opere saranno vendute durante l'esposizione); con Gino Damerini (socio onorario), Gino Rossi, Teodoro Wolf Ferrari e Ercole Sibellato, compone la giuria di accettazione della mostra.

Opere eseguite da varie ditte veneziane su disegno di Zecchin, sono esposte alla mostra di New York tenuta alla Silo Fifth Avenue Art Galleries, promossa dall'Associazione per il Lavoro di Venezia e patrocinata dal Governo italiano.

Nel mese di agosto partecipa, con ricami su seta eseguiti su suoi disegni, alla Mostra di Bozzetti di Pittura e Scultura indetta dal gruppo femminile della Trento e Trieste al Lido di Venezia.

A Natale, partecipa con due pitture a tempera alla I^ Esposizione d'Arte della Galleria Geri-Boralevi di Venezia.

La contessina Pia di Valmarana apre a Saonara, Padova, un laboratorio di ricami; laboratorio che vede subito la collaborazione di Vittorio Zecchin.

 

1920

Partecipa con due opere in mosaico (eseguite dalla ditta "S.I.A.M." di Murano) alla Esposizione degli artisti dissidenti di Ca' Pesaro, inaugurata il 15 luglio presso la Galleria Geri-Boralevi, vicino a Piazza San Marco in Venezia. Firma, assieme a molti degli altri artisti dissidenti di Ca' Pesaro, un articolo di protesta, comparso ne' "La Gazzetta di Venezia", contro l'organizzazione della mostra capesarina; l'articolo sarà pubblicato anche nella presentazione del catalogo della mostra alla Galleria Geri-Boralevi.

A maggio, alla Galleria Pesaro di Milano, assieme a Vettore Zanetti Zilla, Guido Balsamo Stella e Benvenuto Disertori, con presentazione di Vittorio Pica, espone arazzi mosaici e vetri decorati in smalto e oro.

A Stoccolma, alla mostra dell'arte decorativa italiana, sono esposte opere eseguite su suoi disegni da varie ditte veneziane.

Si sposa con Agnese Camozzo.

 

1921

A Roma, a Palazzo delle Esposizioni, partecipa alla Prima Biennale Romana in Occasione del Cinquecentenario della Capitale esponendo un dipinto a tempera (C'era una volta). Lo stesso dipinto verrà fatto partecipare a Verona alla XXXVII Esposizione d'Arte della Società di Belle Arti nel Secentenario della Morte di Dante.

Il 4 agosto nasce la prima figlia, Caterina.

A settembre a Treviso, partecipa assieme al gruppo dei capesarini alla Prima Mostra Regionale d'Arte.

A Roma grazie alle pressioni della signora Maria Monaci Gallenga, con la collaborazione di Donna Bice Tittoni e della contessa Carla Visconti di Modrone, sorge la società <<Arte Italiana Moderna>> (A.M.I.), avente lo scopo di servire da tramite fra gli artisti che si dedicano alle arti applicate e il pubblico italiano e straniero. Nella sede romana di Via Veneto, battezzata con il nome di "Bottega d'Italia", è allestita una mostra-mercato permanente, dove sono esposte molte opere eseguite su disegni di Zecchin. Da lì a poco, le stesse opere esposte a Roma saranno proproste a Parigi, in una mostra-mercato similare dal nome "La Boutique Italienne", ubicata in rue de Miromesnil al n. 17.

Dal dicembre di quest'anno, si dedica a tempo pieno al vetro assumendo la direzione artistica, sostituendo Andrea Rioda (dal quale Giacomo Cappellin e Paolo Venini avevano prelevato la dissestata vetreria), della ditta "Vetri Soffiati Muranesi Cappellin Venini & C.", che, fondata a novembre a Murano, con sede in Fondamenta Vetrai al n. 47, aprirà ben presto una succursale anche a Milano, in via Montenapoleone ai n. 24 e 25.

 

1922

A marzo, promossa dalla sezione olandese della "Dante Alighieri", si tiene una esposizione di arte decorativa italiana alla galleria "Fetter" di Amsterdam, dove furono portati pannelli e vetri di Vittorio Zecchin.

Tiene una mostra individuale nella sala 18 della Biennale di Venezia, dove espone arazzi in lana e seta, una vetrata e una serie di vetri decorati a smalto e oro (eseguiti dalla "Cappellin Venini & C." - molte delle opere saranno vendute durante l'esposizione).

Partecipa, con vetri eseguiti dalla "Cappelin Venini & C." su suoi disegni, alla mostra primaverile della Società di Belle Arti, tenuta a Palazzo delle Esposizioni in Firenze.

Fa parte, assieme ad Emanuele Brugnoli e Riccardo Nobili, della Commissione del Consiglio di Vigilanza alla mostra annuale di Ca' Pesaro.

In Autunno a Parigi, al Salon d'Automne, espone con notevole successo i vetri della "Cappellin Venini & C.".

Dipinge, per la sala del teatro di Murano, una decorazione ad affresco raffigurante figure in processione. Il ciclo murale è probabilmente andato distrutto durante i lavori di ampliamento del teatro (potrebbero però esservi ancora tracce dell'opera sotto l'attuale intonaco).

 

1923

Ottiene notevole successo alla Prima Esposizione di Arti Decorative di Monza, esponendo l'allestimento di una sala da pranzo e di un studio con piccolo ambiente (ideato assieme all'architetto Giuseppe Berti - i mobili sono eseguiti dalla ditta Bagarotto di Venezia), una serie di pannelli decorativi in seta, un arazzo in cornice e dei piatti in ceramica. Espone, inoltre, centocinquanta vetri della ditta "Cappellin Venini & C.". Il suo nome figura tra i componenti della Giunta Esecutiva e, assieme all'architetto Giuseppe Berti, costituisce la Commissione di Coordinamento della sezione triveneta. Legata all'esposizione di Monza, è l'iniziativa che portò i produttori italiani di arti applicate a riunirsi in una associazione, Unione Industrie Artistiche, sotto gli auspici del Consorzio Milano-Monza-Umanitaria, atta a curare gli interessi degli aderenti sui mercati nazionali ed esteri. Zecchin partecipa all'associazione attraverso la "Cappellin Venini & C.".

Alla mostra di Monza, è premiato con il Gran Diploma d'Onore per i vetri, arazzi e mobili (lo stesso premio lo riceverà, sotto la sua direzione artistica, anche la ditta "Cappellin Venini & C.").

In una lettera a Nino Barbantini, datata 6 agosto 1923, scrive al critico di non aver i soldi per dipingere e decorare con ricchezza le tele da presentare a Ca' Pesaro; manifesta inoltre la volonta di voler tornare a dipingere, sempre come decoratore, una serie di tele da presentare alla mostra dell'anno successivo assieme, in ogni caso, a ricami, sbalzi e ceramiche.

Anche quest'anno fa parte, assieme ad Emanuele Brugnoli e Riccardo Nobili, della Commissione del Consiglio di Vigilanza della mostra annuale e annuale bis di Ca' Pesaro.

Alla Galleria Pesaro di Milano, presentato da Vittorio Pica, tiene una vasta mostra personale.

A Murano, è fondato il laboratorio d'incisione, intaglio, decorazione a smalto e doratura su vetro "S.A.L.I.R. - Studio <<Ars Labor>>", con il quale Zecchin collaborerà tantissimo, specie negli anni 1932 - 1938.

Il 21 dicembre 1923 nasce il figlio Giorgio.

 

1924

Alla Biennale veneziana espone, nella sala 43, una serie di vetri artistici (eseguiti dal maestro Diego Barovier della "Cappellin Venini & C."), piatti decorati in oro e due vetrate (eseguite da Pietro Chiesa).

 

1925

A Roma, alla Terza Biennale Romana, espone una serie di vetri artistici.

Nella Seconda Mostra Internazionale di Arti Decorative di Monza espone tessuti eseguiti, su suo disegno, dai "Laboratori Femminili" di Saonara, Padova, e vetri della "Cappellin Venini & C.".

All'Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi, nel Padiglione Italiano, partecipa con tessuti, mobili, vetri e pannelli ricamati. I vetri presentati, della "Cappellin Venini & C.", saranno premiati col Grand Prix.

I ricami del "Laboratorio" della contessina Pia di Valmarana, molti dei quali eseguiti su disegni di Zecchin, sono esposti a bordo della nave "Italia", in rotta attorno all'America Latina in una Fiera Navigante avente lo scopo di far conoscere i prodotti dell'artigianato italiano.

Giacomo Cappellin e Paolo Venini sciolgono la loro società vetraria durante l'Esposizione parigina (alla conclusione della mostra si presenteranno, infatti, ognuno con una propria ditta). Cappellin fonda la "M.V.M. Cappellin & C.", dove Zecchin rimarrà come direttore artistico, mentre Venini mantiene la ditta precedente rinominandola "Vetri Soffiati Muranesi Venini & C.", che avrà come direttore artistico Napoleone Martinuzzi che, accanto alla propria produzione, continuerà a proporre vetri eseguiti sui disegni di Zecchin rimasti alla ditta. La "Venini & C." terrà inoltre come proprio marchio commerciale il simbolo del vaso Veronese di Zecchin. Da questo momento, per non confondere la produzione, le due ditte firmeranno ad acido le loro opere.

 

1926

Alla Biennale veneziana espone vetri e due vetrate.

Alla mostra della Bevilacqua La Masa espone un gran lampadario e altri vetri della ditta "M.V.M. Cappellin & C.".

Un vaso in rame sbalzato, eseguito su suoi disegni dalla ditta "Valerio & Martini" di Udine, è premiato al concorso per la produzione artigiana dell'industria dello sbalzo, indetto dall'"Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per Il Lavoro" di Venezia.

 

1927

Alla III Mostra delle Arti Decorative di Monza, allestisce tre sale costituenti la cosiddetta "Bottega del Mosaico", all'interno della quale espone i suoi lavori: una prima saletta accoglie decorazioni di pareti, porte e finestre in cosmateschi colorati; una seconda, ideata come una specie di hall, è caratterizzata da tre nicchie decorate con pannelli musivi per una stanza da bagno; la terza, infine, costituisce la vera e propria "Bottega", dove sono raccolti gli attrezzi, le tessere, i cartoni e quanto necessita per dimostrare come si lavora a mosaico. Le opere a mosaico esposte in mostra furono eseguite, su disegni di Zecchin, dalla "Cooperativa Artisti Mosaicisti Veneziani".

Alla stessa Esposizione di Monza, furono premiati un calice, un ostensorio e una pisside eseguiti, su suoi disegni, dalla ditta "Valerio & Martini" di Udine.

Partecipa alla XVIII Esposizione dell'Opera Bevilacqua La Masa.

Zecchin, assieme all'architetto Giuseppe Berti, vince il concorso per il disegno di mobili usuali indetto dall'Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per il Lavoro con una serie di studi per la realizzazione di una stanza da pranzo. I disegni furono sviluppati in tutti i particolari progettuali in modo da servire ai laboratori per la lavorazione e furono raccolti, a cura dell'Istituto stesso, in un quaderno di dieci tavole.

Lascia la direzione artistica della "M.V.M. Cappellin & C." (sarà sostituito dal giovane Carlo Scarpa), decidendo di collaborare con questa solo saltuariamente. La vetreria continuerà a proporre ancora opere realizzate sui disegni di Zecchin; opere talvolta riviste con varianti dovute all'intervento dello stesso Cappellin.

 

1928

A febbriaio, partecipa con un ricamo in seta alla Raccolta Internazionale d'Arte offerta dagli autori in omaggio a Vittorio Pica, tenuta alla Galleria Scopinich di Milano.

A Roma, partecipa alla XCIV Esposizione di Belle Arti della Società Amatori e Cultori di Belle Arti.

Alla Biennale veneziana, figura con due mosaici esposti in una saletta allestita con la collaborazione dell'architetto G. Pulitzer, di A. Cernigal e di A. Chiarini.

Partecipa alla mostra delle arti decorative di Torino con opere in vetro e argento, vasi eseguiti dall'argentiere L. Sfriso di Venezia e stoffe eseguite dal "Laboratorio" della contessina Pia di Valmarana (queste ultime meriteranno il Gran Premio dell'Esposizione).

A Treviso, alcune sue opere, eseguite da varie maestranze venete, sono esposte alla Mostra Regionale dell'Artigianato Veneto.

Partecipa al "Concorso d'Esecuzione" per oggetti di uso domestico, indetto dall'Ente Nazionale per le Piccole Industrie, con un cuscino ricamato eseguito su suo disegno dalla ditta "Tancredi" di Venezia e vince un premio di £. 1.500.

 

1929

Alcuni mobili realizzati su disegni di Zecchin sono fatti partecipare, grazie all'intervento dell'Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per il Lavoro, alla grande fiera tedesca di Lipsia. E' probabile che alla fiera fossero esposti anche vetri e stoffe eseguiti sempre su disegno di Zecchin.

Ancora grazie all'intervento dell'Istituto Veneto, opere  di Zecchin sono presentate all'Esposizione Internazionale di Barcellona. Sempre a Barcellona, Zecchin sarà presente con vetri realizzati dalla "M.V.M. Cappellin & C.", che varranno alla ditta il Gran Premio.

 

1930

Espone alla Mostra Internazionale dell'Orafo della Biennale veneziana.

Alla Prima Mostra Femminile delle Arti Decorative, tenutasi

al Castello Sforzesco di Milano, sono esposte stoffe eseguite su disegni di Zecchin dal "Laboratorio" della contessina Pia di Valmarana.

Partecipa alla IV Triennale della arti decorative di Monza.

Vittorio Zecchin è Ispettore Artistico e Commissario Governativo alla <<Regia Scuola d'Arte Industriale>> di Cortina d'Ampezzo.

A settembre, a palazzo Bembo, partecipa alla mostra organizzata dall'Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per il Lavoro con alcuni mobili eseguiti su disegni suoi, ideati in collaborazione con l'architetto Berti e con Lorenzetti, ed eseguiti dal "Laboratorio Scuola per l'Arte del Legno".

Collabora con la vetreria muranese "Ferro & Toso".

Nel nuovo decennio, come già nel precedente, ma ora in modo più accentuato, oltre ad operare con le  vetrerie muranesi, allargherà la sua collaborazione disegnando opere per molte ditte nel settore delle arti applicate, come la "Lorenzo Rubelli e Figlio", la "Jesurum", la "Sfriso", o gli artigiani dell'Ampezzano e dell'udinese.

 

1931

A marzo, grazie al Consiglio Provinciale dell'Economia e all'Istituto Veneto per le Piccole Industrie e per il Lavoro di Venezia, vetri e stoffe, eseguiti su disegni di Zecchin, furono portati alla mostra di arti decorative al Museo Municipale di Amsterdam.

Attraverso l'Istituto Veneto per Le Piccole Industrie e per il Lavoro, una tovaglia d'altare e due mosaici furono esposti alla Mostra Internazionale d'Arte Sacra Cristiana Moderna della Fiera di Padova.

Alla XXII^ Esposizione dell'Opera Bevilacqua La Masa, partecipa con un pannello in stoffa eseguito dalla "Tessoria Asolana" di Asolo.

La ditta muranese "M.V.M. Cappellin & C.", con la quale Zecchin saltuariamente collaborava e della quale fu fino a qualche anno prima direttore artistico, è costretta a chiudere ed è messa in liquidazione.

 

1932

Insegna al Corso di Perfezionamento della "Civica Scuola Femminile <<Vendramin Corner>>" di Venezia e alla "Scuola Merletti <<Regina Margherita>>" di Burano.

Alla Biennale veneziana partecipa con bozzetti, merletti, mosaici e vetri incisi.

E' fondata a Murano la fornace "Arte Vetraria Muranese" ("A.V.E.M."), con la quale Zecchin collaborerà portando molti vetri eseguiti da questa su suoi disegni alle Biennali veneziane, a partire proprio da quella del 1932.

 

1933

Insegna ancora alla "Civica Scuola Femminile <<Vendramin Corner>>" di Venezia.

Partecipa alla V Triennale delle arti decorative di Milano con stoffe e vetri, eseguiti dalla "Arte Vetraria Muranese" di Murano.

In autunno, per la sala del teatro di Murano, dipinge una serie di pannelli con figure sacre e una grande tela raffigurante un bosco incantato con lago, figure e pioggia dorata (quest'ultima opera risulta oggi in collezione privata).

A Murano, è fondata la "Artistica Vetreria e Soffieria Barovier Seguso e Ferro" (dal 1937 "Seguso Vetri d'Arte"), dove alcuni dei modelli, nei primi anni (1933 - 1934), furono disegnati da Zecchin.

 

1934

Promosse dall'Istituto Fascista di Cultura, tiene, nella sala superiore della scuola "Ugo Foscolo" (Palazzo Colleoni) a Murano, una serie di lezioni (conferenza) sulle origini del vetro.

Insegna alla "Scuola Festiva di Disegno" e alla "Scuola per l'Industria Vetraria", entrambe di Murano.

Partecipa alla Biennale veneziana esponendo una serie di vetri incisi eseguiti su suoi disegni dalla ditta muranese "S.A.L.I.R.", sei cammei azzurri eseguiti dalla ditta "Ziffer Martinuzzi Olga" e due damaschi broccati in seta (Le Isole e Le Dune) eseguiti dalla ditta "Lorenzo Rubelli e Figlio".

Elabora disegni di vetri che saranno eseguiti dalla vetreria muranese "Barovier Seguso & Ferro".

Pubblica a Venezia il libro Lezioni di storia del vetro e scrive un opuscolo sul mosaico. E' forse in questo periodo che in Zecchin nasce l'idea di pubblicare, probabilmente col titolo di Peneláe o Vision de l'anema, un raccolta di brevi componimenti poetici in italiano e in dialetto veneziano. Le poesie ebbero il consenso anche di Emile Bernard, al quale furono mostrate, e che rispose in merito, a Zecchin, con una affettuosissima lettera.

 

1935

La ditta veneziana di Lorenzo Rubelli porta alla mostra d'arte decorativa contemporanea di Varsavia alcune stoffe eseguite su motivi ideati da Zecchin.

Insegna ancora alla "Civica Scuola Femminile <<Vendramin Corner>>" di Venezia.

 

1936

Partecipa alla Biennale veneziana.

Partecipa alla VI Triennale delle arti decorative di Milano.

Da quest'anno insegna agli apprendisti vetrai della "Scuola <<Abate Zanetti>>" di Murano. Durante l'insegnamento si avvale del suo opuscolo dal titolo Lezione di storia del vetro e di quello sul mosaico.

 

1938

Alla Biennale veneziana espone vetri eseguiti dalla ditta "Fratelli Toso".

Partecipa, con opere eseguite su suoi disegni dal "Laboratorio" della contessina Pia di Valmarana, alla I Esposizione Internazionale dell'Artigianato di Berlino.

 

1940

Partecipa alla Biennale veneziana esponendo vetri incisi a figure eseguiti, su suoi disegni, durante il Corso per Maestranze da egli tenuto alla "Scuola <<Abate Zanetti>>" di Murano, nonché pizzi e ricami eseguiti, sempre su suoi disegni, dal "Laboratorio" della contessina Pia di Valmarana e dall'"Istituto Professionale Femminile <<Vendramin Corner>>" di Venezia, dove continua ad insegnare.

 

1942

Alla Biennale veneziana espone vetri incisi eseguiti, su suoi disegni, dalla "S.A.L.I.R." di Murano. Espone inoltre vetri eseguiti dalla "Scuola Serale <<Abate Vincenzo Zanetti>>" di Murano, da lui diretta.

E' in questo periodo che inizia ad avere i primi disturbi causati dalla comparsa del morbo di Parkinson; malattia che col passare del tempo lo costringerà a non riuscire a continuare alcuna attività artistica.

 

1947

Muore a Murano il 15 aprile 1947.

  

RASSEGNA STORICO-CRITICA

 

<<Passammo per un monastero senza monache, vecchissimo, senza usci, senza imposte, pieno di donne cenciose e di bambini macilenti, brulicante di malattia e di miseria, sonante di ciarle e di strilli e di singhiozzi, popoloso e vuoto, dove ardeva e spandeva l'aria di un vetraio, laggiù, in fondo a un corridoio ingombro di legna: un cuore di fuoco domato>>.

(Gabriele D'Annunzio, Una licenza, in La Leda senza cigno, Milano, 1916).

 

<<Non mancano le iniziative isolate. Vittorio Zecchin ha, intanto, una "Scuola d'Arte e Italiana", che produce vetri e ricami. Fra questi, notevole un tappeto da muro di una accesa policromia lavorato per G. D'Annunzio...>>

(I Veneziani alla Mostra di Arti e Mestieri in Roma, in "Gazzetta di Venezia", sabato 5 aprile 1919).

 

<<...e infine Vittorio Zecchin la fantasia del quale scaldatasi alle ardenti fornaci delle sue vetrerie di Murano, timida in piccole tavolette preziose di primitiva ingenuità comparse nel 1909, fiorì poi in doviziose visioni di un favolesco orientalismo correndo dietro a principesse assire, indiane, ebree in giardini ed orti costrutti di gemme; ed ora si riposa nella elaborazione di quei pannelli ricamati, di quelle stoffe istoriate, di quei vetri dipinti, di cui la mostra attuale comprende saggi tanto suggestivi>>.

(Gino Damerini, Le mostre di Ca' Pesaro prima della guerra, in Catalogo dell'Esposizione di Palazzo Pesaro, Roma - Mila­no - Venezia, 1919).

 

<<Arte nuova che ha le sue radici nell'arte più remota e che è ben veneziana, nel languore, nel fasto; nell'atmosfera di sogno propria di quella città che in sé idealizzata ogni cosa (fin la sporcizia!). Arte sincera di un artista sincero che ama ciò che fa, e non fa che ciò che ama senza altra preoccupazione che il suo amore: e arte moderna in quanto rispecchia le indefinite aspirazioni e le dolorose ribellioni che sono in questo momento comuni a forme d'arte di paesi lontani e di artisti lontani, come, ad esempio Klimt. Qualche cosa c'è nell'aria (come già in altri tempi) che quasi uno strano malessere, un'inquietudine ansiosa da cui gli artisti sono presi dovunque, che incita tutti a lasciar le comode vie battute, per avventurarsi in sentieri aspri e bui, che condurranno certo alla conquista di una arte conforme ai tempi nuovi>>.

(E. R., L'arte e la casa - I pannelli di Vittorio Zecchin, in "Rassegna d'Arte Antica e Moderna", Roma 1920).

 

<<Ma chi mi parla ora dialetto veneziano accanto a me? Mi volgo e vedo la barba bionda, gli occhi sereni e scintillanti di Vittorio Zecchin.

"Con la bona maniera s'otien tuto a sto mondo", egli dice. Pittore, tessitore e vetraio, non espone che alcuni arazzi in lana e in seta, e un gruppo di vetri soffiati, i quali sono il suo vanto.

"Ho lottato, ho compiuto questi sforzi per salvare un'arte, e non per me": insiste Vittorio Zecchin con il suo carezzevole accento. Infatti egli s'è messo a ricamare piamente le stoffe con le sue mani, educando delle giovani maestranze femminili a seguirlo. Ha raggiunto così quei resultati di sfarzo coloristico e decorativo che nessuno dei contemporanei potè vantare prima di lui. Quanto ai vetri, essi sono adesso il suo trepido orgoglio, la sua consolazione, il suo regno.

Riprendere le tradizioni abbandonate, rieducare i giovani, discendenti diretti degli espertissimi vetrai muranesi, facendo rivivere il loro culto dell'arte loro, accarezzare la fragile e incandescente materia col palpito del cuore, con la genialità dell'occhio e delle mani, voler ottenere tutto per linea, lasciando al vetro la naturale purezza, i colori elementari, senza pretese eccentriche, far tutto sonoro e forbito, semplice e bello: ecco il programma di chi può dirsi apostolo del vetro, o del "vero", come dice lui.

Queste vaghe coppe con smalti e ori, questi puri vaselli e calici ricavati dai fiori, che sgorgano dal fuoco gentili, ed escono lirici dalle mani di Zecchin, sono cosparsi di lucentezze misteriose, brillanti, e sembrano meravigliati della loro stessa bellezza.

I nostri artisti tornano alle tradizioni che onorarono la razza nei secoli passati, e vi si abbandonano con la certezza di non rimanerne soggiogati. Lo spirito italiano, che perpetuamente si ridesta e rinnova nel prodigio creativo, è molto adatto a vincere la materia con l'aiuto del fuoco, a foggiarla in pure forme soavi>>.

(Francesco Sapori, in La XIII Esposizione d'Arte a Venezia, Bergamo, 1922).

 

<<Io non so trovare in tutta la Mostra un più evidente processo di chiarificazione di quello avvenuto per ispirazione di Vittorio Zecchin nei vetri usciti dalla fornace dei signori Cappellin e Venini. Prova ne è che tutti, chi più chi meno, dinanzi al crescente favore del pubblico si son messi a imitarli con quella comprensione che più tardi vedremo.

Ricordate come, fino a ieri, per vetro di Murano s'intendesse quella specie di complicazione bizzarra di forme, di riccioli, di filamenti e di spirali che ancor oggi sotto le Procuratie, forma la delizia dei forestieri da strapazzo? Era ed è il parossismo dell'abilità manuale: il vetro preso a schiaffi e a pizzicotti, tormentato, contorto, trafilato, gonfiato, arricciolato e disteso, per una specie di manìa da funamboli, illusi che l'arte consista nella piroetta o nel salto mortale.

Guardate invece sulle mense che Paolo Veronese opulento dipingeva e vi troverete quei vasi, quei calici che allora si soffiavano a Murano, così sobri e schietti da parere liquidi congelati e cristalizzati. Vittorio Zecchin, uno degli artisti più squisiti che abbia oggi l'Italia, ha il merito di aver capito di nuovo per primo che due qualità esseniali ha il vetro della sua Murano: la leggerezza e la limpidezza, tanto più evidentie gioiosequanto più son contenute in forme di semplice eleganza ed armonia. Egli ebbe la grande fortuna di trovare due industriali di gusto, Cappellin e Venini, che riposero fiducia in lui e che oggi meritamente associano nel successo sempre più vasto il loro nome a quello dell'artista>>.

(Roberto Papini, La Mostra delle Arti Decorative a Monza - III. - Le Arti della Terra, in "Emporium", Bergamo, luglio 1923).

 

<<Per compenso è apparso da qualche anno un genere di ricamo-arazzo in lana creato da Vittorio Zecchin e immediatamente quanto largamente imitato. E' una specie di musaico di lane policrome, dai colori violenti che la straordinaria sensibilità cromatica dello Zecchin sa armonizzare come nessun altro, chè altrimenti si cade nella banalità di quelle imitazioni...>>.

(Roberto Papini, La Mostra delle Arti Decorative a Monza - V. - Le Arti del Filo e della Stampa, in "Emporium", Bergamo, settembre 1923).

 

<<Sia data lode viva e sincera a questo laborioso modesto e valente artista muranese, il quale non ha creduto di demeritare da coloro che avevano incoraggiate le prime sue prove di pennello, piacevoli ma ancora incerte, né di scendere di grado, rinunciando deliberatamente ma coraggiosamente all'arte maggiore della pittura per le arti minori del vetro e della ceramica, del ricamo e del mobile>>.

(Vittorio Pica, in Vittorio Zecchin, Milano, 1923).

 

<<Assai piacevoli sono pure le murrine di Vittorio Zecchin e di Guido Cadorin, due artisti straordinariamente dotati di sensibilità per la decorazione...>>.

(Carlo Carrà, in L'Arte Decorativa Contemporanea alla Prima Biennale Internazionale di Monza, Milano, 1923).

 

<<All'arte decorativa più raffinata e tradizionale appartengono i vetri di Vittorio Zecchin, eseguiti da Cappellin e Venini>>.

(Francesco Sapori, La XIV Esposizione d'Arte Internazionale a Venezia, Roma, 1924).

 

<<La bellezza della materia vitrea nelle sue essenziali qualità di colore, nella lucentezza vivida delle tinte brillanti, delle delicate e languide intonazioni "fumée", delle lussuose iridescenze opaline di madreparla, depurata dalle scorie di ingombranti ornamenti, pare risorgere libera e pura. La bella forma è rinata con la bella materia: l'una integra l'altra, poiché linea e forma sono ideate e sentite in presenza e per virtù quasi della materia. Fu ed è questa la via per cui l'arte del vetro a soffio, creazione muranese, doveva riprendere il suo cammino per raggiungere l'antica grandezza>>.

(Giulio Lorenzetti, L'arte del vetro e del cristallo, in "L'Italia alla esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne - Parigi MCMXXV", Roma, 1926).

 

<<...sia per quei saggi d'arte vetraria purissima, dove meglio si precisano il carattere e la fervida concorrenza, nel gusto, nella linea, nelle intonazioni, e nella tecnica, di case che sanno tener ben alta la rinomanza di Murano.

Vale a dire, quelle che, sotto la direzione artistica di Vittorio Zecchin, e col titolo di "Maestri vetrai muranesi Cappellin e C." vediamo presente con qualche forbitissimo esemplare in una saletta, la quale fiammeggia anche per certe vetrate a calda intonazione, composte a tarsia di fulgide note pure, su motivi marinari dello stesso Zecchin...>>.

(Ugo Nebbia, in La Quindicesima Esposizione d'Arte a Venezia - 1926, Bergamo, 1926).

 

<<Vittorio Zecchin va da qualche anno attirando l'attenzione di tutti i buon gustai per una maniera personale di sentire la moderna decorazione. I suoi serici pannelli decorativi, dai colori vivacissimi, disegnati a tondi, a rombi, a rosoni, con accordi violenti di neri e bianchi, di rosa e blue, di verde e nero, sono quanto mai festosi. Allorchè, poi, Zecchin tratta la figura umana la sa stilizzare in modo tutto suo... I vetri, poi, foggiati a calici, a coppe, a bocce caratteristiche che finiscono in un collo di cicogna, sono carichi di dorature e di smalti. Lo Zecchin risolve il problema di saper essere fastoso senza cadere nella volgarità, nel provincialismo>>.

(Arturo Lancelotti, in Le Biennali Veneziane del Dopo Guerra, Roma, 1926).

 

<<E' stato un artista, un maestro che, pur non abbandonando la pittura, si dedicò alla casa, non per contingenti opportunità, ma per profonda vocazione "più ricco d'anima che di denaro">>.

(Giuseppe Dell'Oro, El gaveva studio in un vecio convento, in "Gazzetta di Venezia" (?), 22 maggio 1947).

 

<<Versatile artista, lo Zecchin comprende presto il valore dell'arte nuova nel campo figurativo: ammiratore di Toorop, di Beardsbey, di Klimt, egli fornisce agli artigiani disegni per mobili e mosaici, merletti e smalti, unificando nel concetto di un arredamento a stile unitario -concetto veramente moderno- le arti applicate. In quest'ambito è compreso il vetro, al cui rinnovamento lo Zecchin concorse con diretto contributo del proprio ingegno; essendo poi direttore artistico della fabbrica Maestri Vetrai Cappellin & C., egli ritorna alle forme eleganti del tradizionale soffiato in vetro bianco o fumé, con decorazioni talvolta incise talvolta dipinte, con gusto non immune da qualche simpatia per il Liberty, che anche da noi aveva trionfato ai primi del secolo. I virtuosismi del passato sembravano ormai superati>>.

(Giovanni Mariacher, in L'Arte del Vetro, Verona, 1954).

 

<<Pur nella sua umiltà il vetraio muranese Vittorio Zecchin senza avvedersene entra attraverso una interpretazione così alta di Klimt nell'orbita della Wiener Wekstätte, il più importante centro europeo dell'arte applicata nell'epoca che precedette la prima guerra mondiale, quello di Olbricht, di Otto Wagner, di Joseph Hoffmann, Oscar Strnad, una scuola che riuscì ad affascinare all'inizio anche un pittore d'eccezione come Paul Klee.

L'artista non avrebbe mai immaginato che la sua opera sarebbe entrata in una cerchia di interesse europeo, come avvenne nella mostra della Secessione di Monaco del 1914, nella quale fu presente con una serie di composizioni>>.

(Guido Perocco, in Primi espositori di Ca' Pesaro, Venezia, 1958).

 

<<Nella fornace "Vetri soffiati muranesi Capellin-Venini & C." lavorò per qualche anno Vittorio Zecchin che, come decoratore su vetro, si riallacciava tardivamente alla maniera di Klimt, ma che sul piano della forma dimostrava di aver appreso con intelligenza, senza venir meno allo spirito dell'Isola, anche la lezione razionalistica>>.

(x..., in Mostra del vetro di Murano, Venezia, 1963).

 

<<Zecchin, come altri artisti della sua generazione, aveva sentito la necessità di superare il realismo dell'Ottocento attraverso una propria strada, che s'avvicina sotto molti aspetti a quella del Casorati. Ma per Zecchin il simbolismo non è inquietudine, tentativo, cioè, come in Casorati, di superare il limite che lo lega troppo pesantemente alla realtà; per Zecchin il simbolismo grafico ad intonazione mistica di Jean Toorop costistuisce la rivelazione di un regno dalla quale l'artista non desidera più allontanarsi: aveva trovato il suo porto.

La mostra di Klimt nel 1910 alla Biennale confermava ancor più profondamente la vocazione di Vittorio Zecchin verso l'arte applicata, una vocazione di alta e rara qualità, come ci è dato poche volte di riscontrare in artisti del suo tempo>>.

(Guido Perocco, in Vittorio Zecchin, Milano, 1966).

 

<<Toorop e l'Oriente, la carica espressionista che aleggia in Ensor, Klimt, la Secessione e la "Wiener Werkstätte" (che fu la scuola d'arte applicata in cui operarono l'Olbricht, Hoffman, Wagner e lo Strnad) offrono quasi le coordinate dei punti nei quali lo Zecchin poté affondare le sue radici, rimanendo però sempre legato alla sua estrazione artigiana, alla genialità con la quale ha saputo tradurre ogni sua immagine in una visione di fiaba meravigliosa riconducendovi i ritmi della linea e l'incanto della sua tavolozza>>.

(Angelo Dragone, Le fiabe e i rilucenti ori nell'opera di Vittorio Zecchin, in "Stampa Sera", 10 ottobre 1967).

 

<<...Zecchin restituisce alla pittura, per mezzo delle cosiddette arti applicate, uno spiraglio e una intuizione originali, più spinta di quanto non si creda...>>.

(Paolo Fossati, Nel clima della secessione, in "L'Unità", 11 ottobre 1967).

 

<<Zecchin è uno dei più grandi maestri del nostro Liberty. Le sue realizzazioni in vetro in collaborazione con Wolf Ferrari e la consulenza fornita alla fornace di Paolo Venini a Murano lo pongono tra i maestri europei dell'arte applicata, che mai come nel Liberty conobbe tanto splendore nell'integrazione tra pura invenzione e funzionalità degli oggetti d'uso>>.

(Renzo Margonari, Riscoperta di Vittorio Zecchin, in "Gazzetta di Mantova", 27 ottobre 1967).

 

<<Non sono infatti i Nabis ad essere i veri continuatori, nel nuovo secolo della tradizione simbolista, le cui fortune ben vi s'addentrano per alcuni decenni: e non come mere sopravvivenze. Esistevano naturalmente situazioni corali, di variazione di schemi corali d'origine secessionista, per esempio, come fu il caso, ne gruppo rotante attorno alle mostre d'avanguardia di Ca' Pesaro a Venezia, di un Vittorio Zecchin...>>.

(Enrico Crispoldi, in L'Arte Moderna, x..., 1967).

 

<<Fu artista aperto alle suggestioni del decadentismo simbolista e debitore in particolare della secessione viennese... Nel 1923 ottenne un importante riconoscimento alla Prima Biennale di Arti Decorative di Monza>>.

(Carlo Munari, Gli artisti di Ca' Pesaro, Rovereto/Bolzano, 1967).

 

<<Ciò che costistuisce il lato più attraente e personale di Zecchin, è il sapore arcaico che gli elementi klimtiani assumono in lui; come se, vogliam dire, egli riconquistasse, sotto Klimt, i padri del modernismo più quintessenziano: Beardsley, Toorop, Margaret Macdonald>>.

(Rossana Bossaglia, in Il Liberty in Italia, Milano, 1968).

 

<<Zecchin fu pittore apprezzato di gusto Klimtiano, ma soprattutto assai attivo nel campo del disegno per l'artigianato applicato (vetri, tessuti, tappeti, mobili e mosaici) ed ebbe una parte rilevante nella I Biennale di Monza del '23>>.

(Luciano Gallarini, in Casorati, Opere grafiche sculture scenografie, Novara, 1968).

 

<<...Vittorio Zecchin, uno dei più geniali interpreti dei modi della Secessione viennese nell'arte applicata...>>.

(x..., in Civiltà di Venezia, Venezia, 1973).

 

<<...lavori tutti che egli trattò con sensibilità e con un gusto favolistico e con una raffinatezza che ne fanno uno tra gli esponenti più interessanti dell'adesione all'Art Nouveau in Italia>>.

(Lara-Vinca Masini, in Art Nouveau, Firenze, 1976).

 

<<Nel 1919 intanto, per la Mostra di Ca' Pesaro, Vittorio Zecchin aveva ideato una serie di vetri sottilissimi dalle forme riecheggianti la linearità della vetreria rinascimentale, decorati a smalti opachi e brillanti o a foglio d'oro con animali o figure di donna. Era un ritorno all'antico in chiave critica poiché del millecinquecento muranese egli non mirava ad eseguire copie puntuali ma voleva recuperare la piena adesione delle forme al materiale-vetro e la leggerezza. Con queste opere ci troviamo ancora di fronte a pezzi unici, non pensati per una produzione in serie seppur ad alto livello, come avverrà invece dopo l'incontro dello Zecchin con il commerciante veneziano Giacomo Cappellini e l'avocato milanese Paolo Venini. Assieme a costoro e come direttore artistico nel 1921 egli fondò la fornace "Vetri Soffiati Muranesi Cappellin Venini & C." che lanciò sul mercato vetri sottilissimi dalla linea essenziale e privi di decorazione. Nacquero allora i modelli "Veronese" ed "Holbein" così chiamati perché ripresi da motivi dei due maestri ma, altri tipi erano assolutamente originali come la "Libellula", elegante calice dalle ampie ed agili anse.Colpì profondamente i muranesi il coraggio e la sensibilità di questi uomini che avevano voluto rompere con il decorativismo imperante e che impostavano la totalita della produzione in base a principi assai rigorosi senza scendere a compromessi per pure ragioni commerciali. Rimase affascinato il mondo dei critici e dei compratori quando poté ammirare le vetrine della nuova ditta alla Mostra di Monza del 1923 ed alla Biennale del 1924 e confrontarle con quelle di altri produttori muranesi>>.

(Rosa Barovier Mentasti, in Vetri di Murano del '900, x..., 1977).

 

<<Vittorio Zecchin, figlio di un maestro vetraio di Murano, si orientò subito, attraverso l'esperienza diretta delle Biennali, verso la pittura di Jean Toorop e di Gustav Klimt per liberarsi da ogni remora dell'insegnamento accademico. Alla Mostra di Ca' Pesaro del 1919 Vittorio Zecchin figurò con un'intera sala di opere d'arte decorativa: arazzi, ricami, vetri. Questa rassegna preparò l'opera fondamentale di Zecchin, alla quale egli dedicò il suo entusiasmo di maestro e la sua genialità d'artista: la rinascita del vetro di Murano>>.

(Guido Perocco, in Ca' Pesaro, Museo d'Arte Moderna, Venezia, 1980).

 

<<L'Art Nouveau è arrivata a Murano molto tardi cioè attorno al 1910 grazie anche alla collaborazione dei vetrai con alcuni pittori del gruppo secessionista di Ca' Pesaro, in particolare con Vittorio Zecchin>>.

(Rosa Barovier Mentasti, in Manualità Città dell'artigianato, x..., 1980).

 

<<Confermatosi grande decoratore, capace di rispondere a stimoli aggiornati con gusto sicuro e una sua naturale innocenza ...>>.

(Rossana Bossaglia, Oro Zecchin, in "Antiquariato", Luglio, 1981).

 

<<Vittorio Zecchin ha così spiccato il gusto dell'ornato che si avverte anche nella maturazione della sua attività la crisi tra la pittura e l'arte applicata. Dopo i primi saggi di pittura, non ha dubbi nell'esplicare il suo ingegno nell'arte applicata ed in questo è sulla stessa via di alcuni dei maggiori artisti dell'Art Nouveau in Belgio, in Germania ed in Austria>>.

(Guido Perocco, in Vittorio Zecchin, catalogo della mostra a Ca' Pesaro, Milano, 1981).

 

<<Lo stile liberty sopravvisse a Murano fino ai primi anni del dopo-guerra e l'episodio più interessante fu allora costituito dalla mostra di Vittorio Zecchin per l'esposizione di Ca' Pesaro del 1919. Abbandonata la tecnica delle "murrine", egli ideò sottilissimi soffiati decorati a smalto ed oro con motivi ora consistenti in delicati grafismi, ora in suntuose superfici policrome. Di lì a poco lo stesso Zecchin compì il passo definitivo per lo svecchiamento della vetraria muranese>>.

(Rosa Barovier Mentasti, Dal Liberty ed oggi, in Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia, 1982).

 

<<Coloro che lasciarono invece le maggiori traccie nell'arte vetraria furono nel secondo decennio del secolo, i pittori Teodoro Wolf Ferrari e Vittorio Zecchin, il cui sodalizio, formatosi negli anni ferventi delle prime esposizioni di Ca' Pesaro, portò alla realizzazione di quei vetri a murrine esposti a Monaco di Baviera nel 1913 e alla Biennale del 1914, che segnarono decisamente l'affermazione del nuovo stile nel vetro di Murano>>.

(Astone Gasparetto, Dalla realtà archeologica a quella contemporanea, in Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia, 1982).

 

<<Vittorio Zecchin, è un artista artigiano, nato e vissuto nell'isola di Murano, tipicamente muranese per la purezza di fantasia che accompagna la sua opera poetica, legata all'incanto del vetro e all'illusione traslucida del cristallo. Senza Murano e il bruciare lento delle sue fornaci per depurare il vetro, trasfigurare la materia, darle un altro aspetto per sublimarla, non sarebbero neppure pensabili gli artisti tipici dell'isola dai Vivarini del Quattrocento a Vittorio Zecchin nel Novecento.

Zecchin non sente in Klimt l'atmosfera di decadentismo che circonda l'arte del pittore viennese quella dissolvenza della forma che porta un'immagine quasi sensitiva di languori trasognati, di profumi d'Oriente dal sapore dolcissimo e velenoso, di quell'estetismo che vari aspetti della moda fecero proprio.

Zecchin è dotato di un candore d'eccezione, non ha nessun aspetto di "poete maudit": le sue Salomè e tutte le sue principesse di "mille e una notte" hanno perduto ogni sensibilità tattile, divengono motivi di fiabe meravigliose ed irreali, d'una dolcezza aerea propria dei sogni d'infanzia>>.

(Guido Perocco, in I Maestri di Ca' Pesaro 1908 - 1923, x...,

1982).

 

<<E' in questo periodo che assumono un ruolo importante artisti come Vittorio Zecchin e Guido Balsamo Stella che creano disegni degli oggetti o delle decorazioni che li devono ornare, giungendo ad ottenere caratteristiche di singolare eleganza nella costante semplicità formale>>.

(Attilia Dorigato, in Murano Il vetro a tavola ieri e oggi, nel catalogo della mostra, Venezia, 1983).

 

<<La più significativa testimonianza dell'epilogo Klimtiano della cartolina modernista è rappresentato dalla serie "Smalti e murrine" di Vittorio Zecchin, che anche cronologicamente suggella la vicenda della carto-Liberty...>>.

(x..., in La Cartolina Art Nouveau, x..., 1985).

 

<<...è il ciclo pittorico decorativo del Le mille e una notte, una sequenza di pannelli realizzata nel 1914 per l'albergo Terminus e considerati tra i vertici della pittura liberty a Venezia. Sul filo della narrazione fiabesca orientale, l'artista svolge una raffinata decorazione ritmata su accordi e contrasti di colori puri, piatti e smaglianti, esaltati da linee ad arabesco prive di qualsiasi sensibilità tattile: cortei di principesse e guerrieri, dagli abiti trapuntati d'oro recano doni alla regina di Saba e al re Salomone sullo sfondo di una natura astratta e stilizzata, quanto mai accattivante e melodiosa nei suoi ornati a mosaioco tessellato>>.

(Susanna Zatti, in Secessione Romana 1913 - 1916, Roma, 1987).

 

<<In Vittorio Zecchin il vetro soffiato di Murano ebbe uno dei suoi più raffinati interpreti, al quale va ascritto, inoltre, il merito di aver saputo riportare nell'isola, con le sue creazioni, quella eleganza e quella semplicità formale che avevano connotato la produzione cinquecentesca muranese>>.

(Attilia Dorigato, Il vetro soffiato di Murano alle esposizioni di Ca' Pesaro, in Venezia  Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra nell'Ala Napoleonica e Museo Correr, Milano, 1987).

 

<<...e le nuove idee della Secessione tedesca rivolte verso l'arte applicata, soprattutto quella vetraria, dove [Teodoro Wolf Ferrari] trovò un alleato di gran gusto come Vittorio Zecchin, il nostro più grande artista del vetro moderno...>>.

(Guido Perocco, in Venezia: gli anni di Ca' Pesaro, 1908 - 1920, catalogo mostra nell'Ala Napoleonica e Museo Correr, Milano, 1987).

 

<<...Vittorio Zecchin che nel campo delle arti applicate definì il suo linguaggio tra il 1905 e il 1910, adottando il simbolismo grafico a intonazione mistica di Toorop, cogliendo il ritmo musicale della linea ad arabesco e assimilando nel loro splendore policromo i preziosi colori di Klimt...>>.

(Luigi Menegazzi, in Il manifesto italiano, Milano, 1989).

 

<<"Veronese", il vaso di linea netta ed elegante realizzato nel 1921 in vetro trasparente e colorato, è il simbolo della Murano moderna. L'autore, Vittorio Zecchin, direttore in quell'anno della fornace muranese Artisti Barovier e pittore di un certo talento, si sarebbe ispirato a un'Annunciazione di Paolo Veronese, al suo colore terso e splendente e alla semplicità lucidamente costruita delle sue composizioni. Un'ispirazione felice che rivitalizza la tradizione vetraria muranese>>.

(Silvia Colombo, Un soffio d'arte moderna trasforma i vetri di Murano, in "Antiquariato", ottobre 1990).

 

<<Dal pittore viennese, di cui è solo in apparenza acritico seguace, deriva la conferma alla sua vocazione per l'arte applicata che darà le sue prove più alte nel campo del vetro, del ricamo e dell'arazzo. Dalla sensualità disfatta di Klimt egli si distacca nettamente per il tono fiabesco, per i colori iridescenti e la decorazione vivace di suggestione orientale. Ne riprende invece il ritmo musicale arabescato, ma usa spesso il colore sotto l'influsso del mosaico veneziano; preferisce perciò la tempera all'olio che con la sua fluidità meglio riflette lo splendore del mosaico...>>.

(x...., Dizionario Enciclopedico dei Pittori e degli Incisori Italiani, x..., ...).

 

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