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PITTURA E FOTOGRAFIA, ANALOGIE E TECNICHE

di Marco Mondi 

  Quando nel 1839 da Parigi si diffuse la notizia della scoperta della fotografia, lo sconcerto e lo scompiglio che provocò nel giro di pochissimo tempo fu enorme. Se si vuol oggi renderne l'idea, si può far riferimento al clamore, ben più modesto an­che se sicuramente più sconvolgente, apportato negli ultimi decenni dalla rivoluzio­ne, tutt'ora in corso, dell'informatica.

  Il filo diretto che lega la storia della fotografia all'informatica rimane per in­ciso la tecnologia con i suoi passi da gigante compiuti nell'ultimo secolo in un crescendo vorticoso ed esponenziale.

  Bill Gates, il re dei computer, com'è stato nominato, che l'11 novembre dello scorso anno alla Christie's di New York s'è aggiudicato, per oltre 48 miliardi di lire, il Codice Hammer di Leonardo, è convinto che l'informatica nel prossimo decen­nio sarà alla base di ogni azione. In quella che è stata definita <<l'era dell'auto­strada telematica>>, il nuovo medium ha percorso e sta percorrendo, ben s'intenda in termini sostanzialmente diversi, in un certo qual modo l'iter evolutivo dell'impatto che la fotografia ha avuto, dalla sua comparsa, con la tradizione millenaria dell'arte.

  Le scoperte di Niepce, di Daguerre, di Talbot, ecc., portarono l'intero mondo dell'arte a meditare attentamente sul rapporto che vi doveva essere col nuovo mezzo di riproduzione, e da quel momento l'arte tradizionalmente intesa non poté, nei più differenti modi, se non convivere in un reciproco interscambio con la fotografia. E' quello che sta succedendo oggi con l'universo dell'informatica, della telematica, del compact disc, del microsoft, del chip, delle fibre ottiche... della realtà vir­tuale. Il vecchio computer usufruiva di immagini in bianco e nero, come le prime fo­tografie. Poi si è riusciti a riprodurre una gamma cromatica di 16 colori: analoga­mente nelle prime fotografie a colori gli esperimenti convergevano nello studio dei colori primari e complementari. In seguito per la fotografia il colore non fu più un problema: oggi esiste una generazione di nuovi computer in grado di visualizzare 16 milioni di colori, ben più di quanto l'occhio umano possa percepite. Questi raffron­ti rimangono comunque alquanto superficiali. Resta il fatto, però, che l'impatto del mondo dell'arte con la fotografia può essere paragonato a quello che oggi ha con l'informatica quando si pensa a quanta inquietudine suscita, tra i tanti esempi ci­tabili, la possibilità di usufruire di Cd-Rom popolari sull'arte (l'editoria arti­stica del futuro), di visite a musei virtuali, di schermi sottili da appendere ai muri di casa riproducenti a piacere tutte le opere d'arte prescelte, di una realtà immaginaria che si muove nel cyberspazio e nel cybertempo. Non sorprende quindi la ferma reazione di coloro che guardano a tutto ciò, come centocinquant'anni fa si guardava alla fotografia, con diffidenza e che mettono in guardia dal mitizzare i multimedia perché, se <<usati per la comunicazione e per l'educazione...>>, in alcu­ni settori dell'arte, possono <<...essere letali>> in quanto vi sarebbe, come avreb­be detto Pasolini, uno sviluppo senza progresso. L'esempio classico è quello della Gioconda di Leonardo, trasformata dalle sue riproduzioni in un feticcio turistico. Un'operazione, questa, chiamata da qualcuno il "crimine perfetto", vale a dire l'o­pera d'arte uccisa dal suo doppio: al fruitore non interessa contemplare e capire la Gioconda, ma verificare la sua corrispondenza con l'immagine conosciuta dalla sua riproduzione. L'artista moderno corre il rischio (e non è detto che questo debba per forza essere positivo o negativo, ma sicuramente è diverso) di formarsi attraverso una realtà virtuale, cibernetica e telematica, capace di alterare la sua percezione visiva e di rompere il legame temporale e spaziale con le opere d'arte del passato. L'opera d'arte a furia di esser riprodotta non rimane più tale per la nostra perce­zione, portando alla <<liquidazione del valore tradizionale dell'eredità culturale>>, diceva Walter Benjamin in merito alla riproducibilità, con una sorta di preveggenza quanto mai attuale.


 

  L'artista, prima dell'avvento della fotografia, percepiva la realtà, e di conse­guenza la stessa arte, in maniera sostanzialmente diversa dalla nostra. L'arte, in qualche modo, aveva sempre come punto di riferimento la mimesi, l'imitazione del mondo visivo. Il figurativo, ieri come oggi, deve essere inteso come l'operazione conoscitiva intrapresa dalla mente umana per poter definire un qualcosa che esiste al di fuori e che può essere visualizzato attraverso il filtro ottico dell'occhio. In natura non esiste figurazione ne' astrazione. Astratto è quindi tutto ciò che non trova un nome od un riconoscimento dal processo cognitivo umano di sintesi attuato dal nostro intelletto, affinché possa essere compiuta una valutazione della realtà che ci circonda. Allo stesso modo la scrittura si serve delle parole, entità di per sé astratte, alle quali convenzionalmente è stato dato un significato al fine di po­ter formulare un'idea.

  La pittura rupestre, ed ogni genere di successiva stilizzazione, s'è valsa della qualità simbolico-convenzionale dei segni per poter comunicare. L'uomo primitivo non è che non sapesse disegnare o dipingere se nelle sue raffigurazioni ricorreva alla stilizzazione (tra l'altro, vi sono alcune rappresentazioni, soprattutto di animali, sorprendentemente realistiche), solo che le sue esigenze espressive apotropaico-taumaturgiche meglio venivano soddisfatte attraverso la simbologia.

  Il ritratto nell'antichità nasce per lo più quale forma sostitutiva della persona morta. Non necessariamente, in origine, doveva intendersi con le connotazioni essen­ziali della somiglianza nei tratti fisici e della individuazione del carattere mora­le, prerogative che trovano particolare sviluppo, in Occidente, soprattutto dall'an­tichità classica. I primi ritratti dovettero essere una sorta d'immagine antropomor­fica dall'alto valore simbolico. E, per le civiltà primitive, piuttosto che parlare di vero e proprio ritratto, è forse meglio considerare il problema della "identifi­cazione" con una persona ben definita, sia questa umana o divina. In ogni caso, tan­to meno l'immagine era stilizzata quanto più era esorcizzato l'incubo del trascen­dente: in effetti, una fioritura del ritratto si riscontra ogni qual volta una ci­viltà raggiunge momenti di benessere economico, d'indifferenza religiosa e di preva­lere dell'organizzazione cittadina sulla teocrazia religiosa e politica.

  Durante l'antichità classica, è con l'ellenismo che si ha uno dei momenti più fe­lici per la ritrattistica dove, come per le sculture raffiguranti i personaggi più famosi dell'epoca o per la prodigiosa ritrattistica del Fayyum, un alto valore ven­gono ad assumere, nella somiglianza, i caratteri fisionomici psicologico-celebrati­vi. Con la mummificazione nell'antico Egitto e con il ricorso ai calchi nell'epoca greca e romana, nonché nell'età moderna con altri espedienti (vedi la camera ottica), nel cercare la somiglianza non erano disdegnati ogni sorta di procedimenti meccanici che potessero aiutare. Soprattutto dalla metà del XVI secolo, però, si i­nizia a distinguere tra imitare e ritrarre, in quanto al ritratto viene dato un va­lore superiore, rispetto alla semplice qualità di mimesi dell'imitare, attraverso la capacità di cogliere al di là dell'immagine stessa esteriore della persona effigia­ta. In questo senso, la fotografia sarà da alcuni a lungo accusata di saper solo co­gliere l'immagine, l'involucro della persona, senza saperne fare il "ritratto". Ed è nel continuo dibattito tra la capacità creativa di ritrarre e la fredda possibilità d'imitare che si snoderà gran parte della storia del ritratto in fotografia, con tutte le inevitabili, reciproche, influenze e correlazioni col ritratto in pittura.

 

  Fin dai tempi più antichi, l'uomo s'è servito di procedimenti meccanici nella rea­lizzazione delle sue opere artistiche e la distinzione tra scienza ed arte non aveva un limite così netto come l'attuale. Già nel mondo greco, per osservare gli astri, si usarono certi congegni assai simili alle camere ottiche. Gli Arabi, sin dall'XI secolo, conoscevano i principi della camera oscura e sapevano che la luce altera l'aspetto del cloruro d'argento. Durante l'Umanesimo ed il Rinascimento, la scoperta della prospettiva fissava delle regole matematiche attraverso le quali riportare la realtà sulla tela. Negli stessi anni, molti artisti si servirono di veri e propri baldacchini e di un'innumerevole quantità di altre invenzioni, sia meccaniche sia lenticolari, in grado, anche nei ritratti, di garantire una fedeltà d'imitazione sempre maggiore. Gli artisti del Barocco, con le loro ricerche scenografiche e con le loro illusioni ottiche, diedero un notevole contributo alla conoscenza della ca­pacità visive dell'occhio. Nel Seicento Vermeer, con ogni probabilità, e nel Sette­cento Canaletto e Guardi, non furono i soli a servirsi nell'esecuzione delle loro straordinarie opere della camera ottica, strumento piuttosto diffuso. Gli artisti che usavano la camera oscura non avrebbero desiderato altro che avere la sua immagi­ne stabilmente fissata sulla carta. Si tentò quindi, nei modi più diversi, di riu­scire in questo.

  I primi esperimenti fotografici veri e propri vennero fatti tra gli ultimissimi anni del XVIII ed i primissimi del XIX secolo. Ma il fenomeno ottico e quello chimi­co furono per la prima volta messi in correlazione nel 1822 dal francese Joseph-Nic­éphore Niepce, il quale, nel 1826, ottenne con una posa di otto ore la prima foto­grafia. Le successive scoperte di Luis-Jacques-Mandé Daguerre sempre in Francia, che era in contatto con Niepce, e di William Henry Fox Talbot in Inghilterra, fecero sì che, attraverso l'insigne voce dello scienziato e membro repubblicano della Camera dei Deputati François Arago, nel 1839 l'Académie des Sciences di Parigi annunciasse al mondo l'invenzione della fotografia.

 

  Soggetto, composizione e luce furono dapprima, e lo sono ancora, per la fotografia gli elementi su cui l'artista si trovò subito a lavorare per ottenere, nelle diffe­renti ricerche, i risultati voluti. Naturalmente, la fotografia per lungo tempo at­tinse a piene mani dalla pittura: proprio questo, per alcuni fotografi, divenne il maggior limite alla autonoma capacità creativa della fotografia.

  Il campo dove, praticamente da subito, le prime fotografie, i dagherrotipi (dal nome del suo inventore, Daguerre, che portò avanti le ricerche di Niepce), trovarono enorme impiego e grande richiesta, fu il ritratto.

  La fotografia portò il genere artistico del ritratto ad una diffusione mai avuta prima. Da sempre, in pittura, il ritratto fu prerogativa quasi esclusiva dei ceti sociali più elevati: re, principi, signori e la loro corte, alto clero, nobiltà, ricca borghesia. Nelle tante eccezioni riscontrabili, soprattutto per alcuni periodi storici, si può comunque affermare che generalmente la qualità artistica del ritrat­to è direttamente collegata all'importanza del ruolo sociale assolto dalla persona effigiata: Tiziano, che fu uno straordinario mercante di sé stesso, eseguì quasi e­sclusivamente ritratti alle personalità di maggior rilievo politico-sociale dell'Eu­ropa del Cinquecento. La fotografia portò a quella che è stata definita come una de­mocratizzazione di questo (e non solo questo) genere artistico: Disderi, l'inventore della carte de visite (riproduzione, spesso in più esemplari e di piccolo formato, dell'effigie di una persona), che in pochi anni si espanse a macchia d'olio in tutto il mondo, arrivò a vendere ben 2.400 ritratti al giorno. Il costo per un ritratto fotografico era notevolmente inferiore rispetto a quello pittorico, quindi accessi­bile ad un numero sempre più elevato di persone.

  Se tecnicamente il ritratto fotografico nei confronti di quello pittorico aveva numerosi vantaggi, e tra questi l'assoluta somiglianza nella resa dei lineamenti fi­sionomici della persona effigiata, aveva altresì numerosi svantaggi. Confrontato con la pittura, il ritratto fotografico mancava innanzitutto del colore. Questa "singo­lare incisione" o questo "disegno eseguito dal sole", com'era al suo comparire cu­riosamente definita, trovò da prima un diretto raffronto con il disegno e l'incisio­ne (e nei confronti dell'incisione, la fotografia ne assorbirà il secolare ruolo di divulgazione di immagini per mezzo della carta stampata, influenzando, quindi, non poco sugli artisti anche attraverso la fedele riproduzione delle stesse opere d'ar­te). Il problema del colore rimase per tutto il secolo scorso ed una buona parte del nostro (almeno fino alla fine degli anni Trenta, quando dalla Kodak e dall'Agfa fu­rono messe in vendita le prime pellicole a colori) un campo dove la scienza fotogra­fica si impegnò continuamente: esperimenti di fotografie a colori vennero fatti già verso la metà dell'800; ed è da tenere in particolare considerazione il rapporto, forse ancora troppo poco studiato, di questi esperimenti con le nuove teorie scien­tifiche sui colori in campo artistico, che portarono verso la fine del secolo alla formazione di movimenti, in Francia, come il Pointillisme, ed in Italia, come il Di­visionismo. Al problema del colore, comunque, la soluzione più semplice ed immediata fu di colorare direttamente il bianco e nero della fotografia. Il legame con la pit­tura, in questo senso, com'è ovvio, fu strettissimo.

  Un'altro grave inconveniente delle prime fotografie fu il lungo tempo di posa ne­cessario affinché l'immagine potesse essere impressa sulla lastra. Singolari risvol­ti si ebbero nel genere del ritratto. Osservando i dagherrotipi e le prime fotogra­fie su carta si riscontrano, più o meno visibili, alcune conseguenze costanti dovute a questo inconveniente, che vengono gradualmente a sparire con le nuove scoperte tecniche. Tra queste, una delle più singolari, che a primo acchito sembra il frutto di una moda, è la posizione del braccio e della mano dell'effigiato quasi sempre ap­poggiati al volto, dando al modello una seducente aria cogitabonda. Ciò era dovuto alla necessità di garantire la maggiore stabilità ed immobilità possibile al volto, affinché durante i lunghi tempi di posa non si muovesse. I pittori si servirono pra­ticamente subito della fotografia, e questo particolare atteggiamento pensoso compa­rirà per qualche decennio anche nei loro ritratti, perché, appunto, tratti dalla fo­tografia. Il fotografo della metà del secolo scorso escogitò comunque ben presto e­spedienti per evitare questo inconveniente, tra i quali, ad esempio, dei veri e pro­pri appoggiatesta invisibili alla macchina fotografica.

  E' la luce ad imprimere la lastra fotografica durante il tempo di posa. La lun­ghezza dei tempi di posa era dovuta alla scarsa sensibilità della lastra, che ri­chiedeva, quindi, anche una forte illuminazione. La luce del sole era spesso l'idea­le. Le fotografie all'interno era più problematiche in quanto richiedevano una forte luce artificiale o, come spesso avveniva, un complicato gioco di specchi che ne por­tasse dentro la luce solare. La forte illuminazione impediva all'effigiato di tener sempre gli occhi aperti. Molti dei primi ritratti fotografici lo mostrano, infatti, con gli occhi chiusi. A questo si poneva rimedio dipingendogli successivamente gli occhi.

 

  Le continue ed accelerate scoperte tecniche nel campo della fotografia portarono a rapidi cambiamenti nei risultati. Con i dagherrotipi era possibile ottenere un'imma­gine perfettamente nitida con una resa minuziosa dei particolari. Ciò non influenzò poco la contemporanea pittura che se ne servì, la quale divenne tendenzialmente, co­me si usa dire tutt'oggi, "fotografica". Il Realismo, ma anche le successive scene di genere, sono in stretto rapporto con l'impiego della fotografia.

  Gli esperimenti di Talbot e le prime fotografie su carta portarono ad ottenere ef­fetti molto diversi rispetto a quelli del dagherrotipo. Alla lucida minuziosità, so­prattutto, si sostituì un modulato sfumare chiaroscurale per le zone in ombra che si contrapponeva in modo piuttosto marcato con le chiare zone di luce. Anche questo non tardò ad influire sulla pittura contribuendo ad avvalorare nuove tendenze artisti­che. Se ancora non si sa fino a che punto, ad esempio, Manet fosse stato influenzato dalla fotografia, certamente ci sono delle analogie tra il suo colorare ad ampie campiture cromatiche e l'alternarsi della parti chiare e di quelle scure nella con­temporanea fotografia.

 

  Pittura e fotografia si influenzarono reciprocamente avvalendosi, spesso, una dei mezzi espressivi dell'altra. Se vi furono molte forme di collaborazione, sin da principio, la fotografia fu vista dagli artisti come una pericolosa antagonista. Nel genere del ritratto, in modo particolare, considerata la sua pressoché irraggiungi­bile abilità di riprodurre i lineamenti fisionomici, i pittori si sentirono minac­ciati. Sorsero non poche polemiche e vi furono artisti che si schierarono apertamen­te a suo favore, come Delacroix, o contro, come Ingres.

  Una delle principali paure era che la fotografia potesse rubare il lavoro ai pit­tori. Questo si rivelò vero solo in parte, con esclusione forse per il genere della miniatura, che venne effettivamente messo in crisi. Per la pittura, in un certo sen­so, la fotografia fu benefica, in quanto da un lato portò ad una più chiara distin­zione tra pittori di mestiere ed artisti, dall'altro aiuto gradualmente a liberare l'arte pittorica dalle secolari convenzioni dell'imitare la realtà dandole la possi­bilità d'indagare nuovi campi e di usufruire di nuovi mezzi espressivi.

  Ci vollero, però, non poche lotte e non poco tempo perché la fotografia fosse ri­conosciuta apertamente come genere artistico. La sua meccanicità, nel giro di qual­che decennio, dette la possibilità a chiunque di usarla. Molti pittori di mestiere, messo in crisi il loro lavoro dalla fotografia, divennero fotografi ed un gran nume­ro di essi continuarono a servirsi del mezzo fotografico secondo gli schemi della pittura. La fotografia veniva accusata di saper solo ritrarre obiettivamente, senza interpretare. Per reagire a questo, molti fotografi, affondarono ancora di più la fotografia nella visione artistica della pittura, credendo che nella sua imitazione stesse la possibilità di innalzarla all'empireo dell'arte. Solo pochi, rispetto all'enorme massa di persone che scattarono fotografie, furono coloro che capirono che la fotografia era un'altra cosa rispetto alla pittura e che si serviva di mezzi espressivi totalmente differenti. Nadar, che fu un grande amico degli impressioni­sti, tanto che la prima mostra da loro tenuta fu allestita nel suo ex studio foto­grafico, non si sforzò mai di far fotografie impressioniste; tuttavia, il suo rap­porto, emblematico sotto molti aspetti, con la pittura degli impressionisti, ma an­che con la pittura in genere, appare molto più profondo e sentito rispetto a coloro che dalla pittura attinsero a piene mani, snaturalizzando il mezzo fotografico di cui si servivano.

  Presa coscienza dei propri mezzi espressivi, la fotografia concentrò la sua atten­zione non più solo sul momento dello scatto (scelta del soggetto, scelta dello sfon­do, messa in posa, illuminazione, ecc.), bensì anche sulle fasi dello sviluppo e della stampa, accorgendosi così che il risultato estetico poteva essere ottenuto an­che servendosi di altri processi tipicamente fotografici. Questa presa di coscienza stimolò tantissimo gli artisti a sperimentarne tutte le possibilità espressive ri­cercandone, al tempo stesso, delle nuove, sollecitando così ed attingendo dalle in­novazioni tecniche e dalle ricerche scientifiche.

  In campo artistico, la reazione alla fotografia può essere sostanzialmente ricon­dotta a due modi diversi di subirla o di accettarla. Nel primo caso, la fotografia, come conseguenza dello sviluppo tecnologico della società moderna, era vista anch'essa come il risultato di un mondo entro il quale l'arte sarebbe stata gradual­mente sostituita dalla macchina. L'artista, allora, doveva cercare altri luoghi nei quali indirizzare le sue ricerche figurative: è la reazione, ad esempio, dei simbo­listi con la loro fuga in un universo artistico, o in un paradiso perduto, lontano dalle dispute della società moderna, all'interno della quale non riuscivano a trova­re più un loro spazio. La fotografia, nel secondo caso, era considerata invece il risultato delle continue ricerche apportate dalla scienza moderna per contribuire, assieme all'arte, alla costruzione di una società che si potesse servire della mac­china per raggiungere un benessere sempre maggiore. L'artista, allora, poteva ser­virsi liberamente della fotografia al pari di ogni altro mezzo espressivo, in quanto il suo scopo era intervenire attivamente nella costruzione della nuova società, an­che se far questo poteva voler dire attaccarne violentemente le regole affinché ve­nissero revisionate, corrette o totalmente rivoluzionate. Per questo artisti come Degas e Toulouse-Lautrec la sfruttarono senza remore, allo stesso modo di come gli architetti del funzionalismo si serviranno, una volta presa coscienza delle grandi possibilità espressive dei nuovi mezzi di costruzione, del cemento armato e dell'ac­ciaio. Questa dicotomia nell'arte rimase sostanzialmente anche nel nuovo secolo fino ai nostri giorni: con il razionalismo, ad esempio, del Bauhaus contrapposto all'ir­razionalismo Dada e surrealista, o poi con la Por art contrapposta all'arte della pubblicità asservita al circuito consumistico della società moderna.

  La fotografia, una volta riconosciuta come genere artistico al pari di tutti gli altri, non fu più considerata come un semplice e sterile frutto della tecnologia, ma entrò a pieno titolo tra le forme espressive dell'uomo, seguendo l'indirizzo esteti­co voluto di volta in volta dall'artista che se ne doveva servire. 

 

 

ALCUNE OPERE ANALIZZATE

di Marco Mondi

 

1) - SANTA SINDONE, lenzuolo di lino, cm. 436 x 110, Torino, Cappella della Santa Sindone.

  Il drappo funebre nel quale fu avvolto, secondo la narrazione evangelica, il corpo di Gesù Cristo dopo essere stato deposto nel sepolcro è considerato da un gran nume­ro di studiosi come l'effetto prodotto da un'impressione per "vaporografia". In bre­ve, i patimenti subiti da Gesù crocifisso ricoprirono il suo corpo di sudore febbri­le, le cui componenti chimiche fermentarono al contatto dell'umidità atmosferica dell'interno del sepolcro, permettendo l'emanazione di vapori che andarono ad im­pressionare il tessuto di lino che, abbondantemente impregnato di aromi sensibili, ne conservò l'immagine in negativo, con un procedimento analogo a quanto avviene sulla pellicola fotografica per azione della luce. Il processo di "vaporografia" qui sommariamente descritto, illustrato nel 1954 dal Vignon, non ha incontrato serie confutazioni. La Santa Sindone può esser quindi considerata, sotto molti aspetti, la più antica fotografia del mondo.

  Ad accorgersi che la Santa Sindone era una sorta di negativo fotografico fu il fo­tografo piemontese Secondo Pia, quando nel 1898, con il consenso dei Savoia, foto­grafò per la prima volta il sacro linteo. Grande fu la sorpresa quando il Pia vide, sulle due lastre impiegate per la riproduzione, il positivo dell'immagine impressa nel sacro drappo. L'immagine di Cristo sulla Sindone era pertanto un vero e proprio negativo simile a quello fotografico. L'<<azione suggestiva potentissima>> dell'im­magine ottenuta in negativo (il positivo del negativo della Sindone), aiutò in se­guito altresì di escludere alcune delle supposizioni sull'origine della figurazione.

  La Santa Sindone riproduce perfettamente l'intero corpo di una persona e, come prima fotografia della storia, evidenzia subito una delle sue principali caratteri­stiche: la capacità di riprodurre perfettamente il reale. A differenza della pittu­ra, ed esempio, dove ogni immagine prodotta dalla lunga storia dell'arte porta ine­vitabilmente la caratterizzazione stilistica dovuta alla cultura figurativa del pro­prio tempo, l'immagine impressa nella Santa Sindone, qualora fosse quella di Gesù Cristo (l'autorità ecclesiastica, pur permettendone la venerazione, non ne ha mai dichiarato l'autenticità), ne sarebbe indubbiamente un fedelissimo ritratto. Non è infine casuale che la cultura figurativa si sia da sempre ispirata alla tipologia di questo volto per figurare quello del Cristo.

 

2) - PIERO DELLA FRANCESCA, Dittico dei duchi di Urbino, ritratto di Battista Sforza e Federico II da Montefeltro, 1465, tavola, cm. 47 x 33, Firenze, Uffizi.

  Tra le principali caratteristiche della fotografia, da subito riconosciute, vi fu l'assoluta fedeltà nel riprodurre la realtà visibile con risultati che nessun arti­sta, servendosi della pittura, avrebbe mai potuto raggiungere; e questo nonostante alcune imprecisioni, ben presto svelate, come ad esempio quelle dell'alterazione prospettica operata da obiettivi diversi. La fotografia, comunque, si trovò in parte ad assolvere a quella volontà di mimesi da secoli perseguita in arte.

  Nella mentalità scientifica del primo rinascimento italiano, l'arte doveva tratta­re certezze e non opinioni, e si riteneva che le certezza potessero essere raggiunte essenzialmente dalla matematica. Compito dell'artista era quindi riprodurre una realtà "ideata" prima nella teoria e sperimentata poi nella pratica: la realtà in pittura era ciò che si poteva provare occupasse una data posizione nello spazio il­lusorio di una superficie. La scoperta della prospettiva scientifica vien fatta ri­salire al Brunelleschi il quale si servì, in almeno un dipinto, di mezzi meccanici per provare la validità della sua teoria. Enunciata per la prima volta da Leon Bat­tista Alberti, il quale inventò una specie di camera oscura in grado di esaltare l'artifizio che lo portò ad creare immagini che egli stesso chiamò <<miracolo della pittura>>, la prospettiva scientifica fu rappresentata nel modo più pieno da Piero della Francesca.

  Il genio di Piero, che in quest'opera propone superbamente anche un esempio di sintesi tra la cultura del primo Rinascimento italiano e quella della lucida minu­ziosità fiamminga (Rogier van der Weyden per gli effigiati, i fratelli van Eyck per lo straordinario paesaggio), torna utile per evidenziare tale ricerca scientifica nel ritratto. Le figure dei duchi d'Urbino sono volutamente colte nell'insolito ta­glio di profilo per meglio rendere la loro costruzione geometrico-matematica: nel rigore compositivo, è infatti proprio la perfetta riduzione geometrica, ed il conse­guente uso della luce e del chiaroscuro in funzione di questa, a suggerire la roton­dità dei volumi, quindi l'esatta posizione occupata dalle figure nello spazio. Cia­scuno dei ritratti, senza la presenza di alcun elemento di mediazione spaziale, si staglia imponente nella stessa atmosfera che avvolge il lontano e minuto paesaggio colto a volo d'uccello dall'alto in basso. E' una finestra aperta, dove Piero collo­ca gli effigiati in una posizione vicinissima a chi guarda, idealizzandoli in una razionalità geometrica che trova la sua perfetta esaltazione spaziale nella profon­dità del paesaggio, altrettanto idealizzato, che si apre al di là, colto, sembra quasi, attraverso l'impiego di qualche artifizio ottico.

  Questo modo di concepire la realtà non esclude l'uso, come fu per Brunelleschi e Leon Battista Alberti, di aiuti meccanici, venendo questi assorbiti subito dalla ri­gorosa scienza matematica della costruzione geometrica dello spazio. Quasi come se una fotografia dovesse adattare la sua capacità di riprodurre la realtà ad una pre­stabilita riduzione geometrica dell'immagine inquadrata, che è, in fondo, ciò che avviene nella prospettiva fotografica quando si cambia l'ottica dell'obiettivo.

 

3) - GIORGIONE, Ritratto di donna (Laura) (part.), 1506, olio su tela da tavola, cm. 41 x 33,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

  Se Tiziano inventa il colore, Giorgione lo scopre. Giorgio Vasari, nella Vita di Tiziano, racconta che Giorgione usava <<di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con le tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava, senza far disegno>>. In realtà, anche Giorgione, come gli altri pittori, disegnava, ma in modo diverso, seguendo la pro­pria visione pittorica, non dando importanza alla linea di contorno e senza comporre col disegno grovigli di immagini, mirando invece principalmente agli effetti di luce e di ombra, con zone chiare e zone scure, con un tratto abbozzato e non finito. La stessa libertà aveva il colore, che attraverso la luce, l'ombra, la gradazione del tono e l'intensità del contrasto cromatico permetteva di raggiungere quell'assoluto equilibrio e quella straordinaria fusione, raramente eguagliata in tutta la storia dell'arte, tra pittura e poesia. Con il suo modo di dipingere, Giorgione inaugurò la tradizione moderna della pittura. Sulla cultura del Bellini, attraverso Leonardo e Dürer, egli rese, quello che era il soggetto del quadro, il motivo sul quale l'opera si doveva sviluppare. Si servì della realtà per dipingere immagini della fantasia (in termini sostanzialmente diversi, è un processo analogo a quello fatto da Hirony­mus Bosch), non curandosi di collegare il significato alla tradizione religiosa o letteraria. In questo senso egli presenta immagini piuttosto che raccontare storie. E' per questo che nelle sue opere il paesaggio, o un qualsiasi altro oggetto, ha lo stesso valore delle figure: è per questo che il colore ricopre ogni parte della su­perficie pittorica con la stessa intensità e preziosità di accordi, in maniera tanto libera da permettergli, come in molte delle sue opere, profondi ripensamenti nel soggetto. Lo stesso motivo gli permette di raggiungere il suo "sogno" figurativo senza per forza giungere a completare l'opera (molti suoi dipinti non furono voluta­mente finiti), con un lavoro lasciato non finito per gli altri, ma finito per sé stesso. Contrariamente alla tradizione che vedeva come principali committenti degli artisti la Chiesa ed i regnanti, Giorgione dipinge per sé e per i suoi amici: tant'è vero che quasi tutti i soggetti dei suoi dipinti sono di difficilissima interpreta­zione proprio perché soddisfavano la colta volontà di una ristretta cerchia di amici eruditi.

  La volontà di mimesi in Giorgione va oltre la regola matematica per sottostare al­la poesia interiore, alla sensibilità dell'artista. La sua rivoluzione pittorica gli permette di avvicinarsi alla realtà servendosi della realtà. Come racconta il Vasa­ri, Giorgione si pone davanti alle <<cose vive e naturali>> e le rappresenta nel mo­do più naturale possibile: in natura la linea non esiste, ma esiste il colore. Sulla natura così concepita, egli dà vita alla sua straordinaria visione poetica. Tre se­coli dopo, la fotografia, con la sua assoluta mancanza della linea di contorno, e dando la stessa importanza ad ogni oggetto in essa raffigurato, non farà che avval­lare la geniale intuizione di Giorgione, che non gravita solo attorno allo sfumato leonardesco. Una sorta di sintesi, in questo senso, la fa Manet con il suo Le déjeu­ner sur l'herbe quando riprende il soggetto del giorgionesco  del Concerto campestre del Louvre dipingendolo con ampie e piatte campiture cromatiche e forti contrasti di chiaro e scuro che sicuramente sono da mettere in relazione con gli effetti provoca­ti dalla luce sulla sensibilità della pellicola fotografica.

  Dopo questa lunga premessa, è più facile leggere la cosiddetta Laura, dipinta da Giorgione quasi sicuramente nel 1506. Il dipinto è verosimile nella rappresentazione della natura, cioè del visibile, ma è altresì attentamente studiato nell'invenzione iconografica, nella scelta della luce, del colore, della positura da ricreare sulla tela una "realtà" nuova, elaborata secondo la delicata sensibilità dell'artista. La fisionomia dell'effigiata è sicuramente fedele al modello, ed è quindi un ritratto anche se allo stesso tempo è più di un ritratto: tra le varie interpretazioni s'è pensato anche ad <<una allegoria matrimoniale, dove il lauro e il seno scoperto stanno ad indicare le virtù e i piaceri delle nozze>> (Pignatti). Il fascino allego­rico del dipinto trova sostegno nell'apparente naturalezza della positura dell'effi­giata, che in realtà è stata acutamente "messa in posa", e nulla è casuale, e tutto è calcolato nella rigorosa essenzialità: la posizione a mezzo busto, voltata di tre quarti (come in van Eyck e Dürer) per accentuare la profondità spaziale, il manto con la bordatura del vaio aperta, la serpentina del velo, lo sguardo in diagonale, il lauro alle spalle, lo sfondo scuro. Tutto questo trova una straordinaria soluzio­ne poetica nel controllo della luce, e con la luce nell'essenzialità del colore: si osservi solo come il rosso mantello bordato con il marron della pelliccia, sullo sfondo di tonalità più scure, faccia staccare in una morbida risonanza cromatica il rosa delle carni scoperte.

 

4) - ALBRECHT DÜRER, Disegnatore che ritrae un uomo, 1525, xilografia.

  Questa bella xilografia del Dürer mostra come la cultura figurativa del Cinquecen­to non disdegnasse assolutamente l'uso di sistemi meccanici per agevolare in pittura la riproduzione del reale. Seppur nella pittura di paesaggio e di vedute di città (per mezzo della camera ottica, ad esempio, in Vermeer o Canaletto), l'impiego di vari strumenti aiutò a rendere fedelmente il soggetto di un dipinto, anche nel ri­tratto si escogitarono sistemi meccanici in grado di facilitare la possibilità di imitare quanto più possibile sia i caratteri fisionomici dell'effigiato che la sua esatta ambientazione in una realtà spaziale. Nel caso illustrato dal Dürer, un pan­nello trasparente veniva posto alla distanza scelta dal soggetto da ritrarre ed uno strumento verticale garantiva l'esatta posizione dell'occhio dell'artista affinché si potessero evitare le distorsioni formali. Il pittore poteva così ottenere un'im­magine piuttosto fedele da utilizzare successivamente per il ritratto. Questo metodo ha non poche analogie con la fotografia, compresa la necessità dell'assoluta immobi­lità imposta all'effigiato e la conseguente scelta di una posizione comoda, come era richiesto pure dai lunghi tempi di posa nei primi scatti fotografici.

 

5) - BRONZINO, Ritratto di Ugolino Martelli, 1535 c., olio su tavola, cm. 102 x 85, Berlino, Staatliche Museen.

  Il Manierismo, soprattutto a Firenze, portò all'esasperazione intellettuale ogni ricerca figurativa dei decenni precedenti, ed fu soprattutto una forma di reazione alla classica monumentalità del pieno Rinascimento in un momento di diffusa crisi ed instabilità religioso-politico-economica, specie per la capitale toscana, che vede configurarsi un potere tendenzialmente assolutistico. Anche nel genere pittorico del ritratto viene ad affermarsi sempre più una marcata tendenza ad esaltare la crescen­te sofisticatezza della più chiusa, ricca e colta committenza, la quale ora preferi­sce essere riconosciuta per il suo valore intellettuale piuttosto che per la somi­glianza fisionomica. Agnolo Bronzino è sicuramente tra i massimi interpreti di que­sta nuova visione dell'arte, è ben può essere preso ad esempio nell'elaborazione di un genere di ritrattistica che non poco influenzerà, in modo particolare nella posi­tura degli effigiati, la fotografia quando questa apertamente s'ispirerà all'icono­grafia pittorica nel genere, appunto, del ritratto.

  Il Bronzino fu un grande artista dall'intelligenza lucida e fredda. Nella sua straordinaria ritrattistica egli esalta la figura sociale dei suoi modelli e crea opere dove l'individuo è colto preoccupandosi solo marginalmente di renderne la so­miglianza fisionomica, che rimane pur sempre fedele, dando invece enorme importanza a tutto quanto costituisce ciò che è l'"essere-per-gli-altri". Il ritratto di Ugoli­no Martelli identifica chiaramente la levatura sociale ed intellettuale del giovane effigiato. La figura è ambientata nello spazio severo e puro del palazzo rinascimen­tale, che nella lucida geometria delle decorazioni architettoniche nello sfondo, nonché del davanzale e della ringhiera della finestra in primo piano sulla destra, allude immediatamente alla razionale personalità del Martelli, educatasi in un con­tinuo e rigoroso applicarsi allo studio, con tutta la raffinata eleganza del più e­rudito ceto sociale fiorentino, cresciuto sulle rivoluzionarie intuizioni umanisti­che, come suggerisce la statua di Donatello della collezione di famiglia. Anche nel­la persona del giovane umanista vi è tutto un insieme di attributi significativi colti nella perfetta unità dell'immagine presentata, come il vestire signorile e ri­gorosamente sobrio che disdegna ogni sorta di affettazione esteriore, o il libro del Bembo e quello dell'Iliade. Questo ritratto presenta, più che un carattere psicolo­gico, un ben determinato modo di vivere: le bellissime mani, ad esempio, come l'in­tera figura giocata nel percorso ad arco acuto attraverso l'apertura delle braccia, non sottolineano certo l'abitudine all'esercizio delle armi o ai giochi sportivi, ma, al contrario, la consuetudine degli studi. La stessa posizione dell'effigiato, di tre quarti, dove i contorni delle maniche rigonfie appare spezzato e nervoso, suggerisce un percorso tra le mani ed il volto che è lungo ed inquieto, alludendo quasi alla distanza che vi è tra l'azione ed il pensiero (Argan). Alla stessa tregua son trattati i colori, limpidi e freddi, ad esaltare la narrazione di un ritratto intellettuale.

  Non è difficile trovare nei ritratti fotografici, soprattutto del secolo passato, un'altrettanto sofisticata ricerca di elementi significativi, di positure studiate e di particolari soluzioni luminose,  che hanno lo scopo, ereditato dalla pittura, di presentare un ritratto dove l'effigiato non sia solo riconoscibile per i suoi linea­menti fisionomici, ma anche per le sue qualità intellettuali e sociali.

 

6) - VERMEER, Astronomo, 1668 (?), olio su tela, cm. 50,8 x 46,3, Parigi, Collezione Rothschild (?).

  Più studiosi hanno supposto, soprattutto per le vedute, l'impiego da parte di Ver­meer della camera oscura. Tanto è ossessionante l'idea di conquistare la dimensione della profondità e tanto è puntigliosa la resa del vero, anche nei più minimi parti­colari, attraverso la luce con un interesse puramente formale quasi assolutamente indifferente all'espressione interiore, che non è casuale se Vermeer fu uno di que­gli artisti con i quali la fotografia, nelle seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni del nostro, osò confrontarsi proprio per suffragare la sua altrettanto lucida capacità d'imitare il mondo reale. Deve imputarsi più a questo l'entusiasmo che i fotografi ebbero per la pittura di Vermeer, piuttosto che alla riscoperta del suo straordinario genio ad opera della critica del secondo Ottocento, che si trovo pressoché a riesumare una personalità artistica dalla quasi totale noncuranza avuta durante tutto il XVIII secolo. Noncuranza dovuta non solo alla scarsità di opere (solo trentacinque sono i dipinti che la critica gli ascrive oggi, dei quali due con riserva), che ha fatto pensare egli dipingesse pochissimo, forse uno o due quadri l'anno, quanto piuttosto al fatto che dipinse probabilmente soprattutto per sé stes­so e per una ristretta cerchia di amici, restando più di ogni altro pittore del suo secolo al di fuori dei convenzionali rapporti sociali tra committente ed artista. Aspetto, questo, che semmai lo allontana dalla fotografia, più che avvicinarlo, con­siderato il fatto che uno dei punti forza della diffusione della fotografia sta pro­prio nella sua possibilità d'avere una amplissima scelta di committenze. Ma, nella complessa difficoltà d'interpretare e capire la sua opera, come sempre avviene di­fronte al prodigio del genio, Vermeer si preoccupava anche di dipingere con metico­losità e tormento un mondo che apparisse reale, impegnandosi con caparbietà affinché tutto fosse somigliante, facendo più ancora di quello che fa oggi la fotografia. Fu in special modo questo ad interessare molti fotografi, perché essi videro in lui un maestro della prospettiva "fotografica", un maestro della luce e un maestro del co­lore (quel colore, appunto, di cui per lungo tempo la fotografia non poté usufruire, se non ricorrendo ad espedienti di colorazione). Nelle polemiche tra pittura e foto­grafia nel secolo scorso, Vermeer era quasi portato come un esempio magistrale di come fosse possibile, attraverso la fedele reinvenzione del reale, fare arte ad al­tissimi livelli: nel senso, cioè, che anche alla fotografia era possibile accedere alla dignità di arte se si fosse servita della sua capacità d'imitare per creare un qualcosa che prima non c'era o mostrare un qualcosa che prima era così difficile da vedere; vale a dire, facendo sì che l'artista usasse un processo meccanico come li­bero mezzo di espressione figurativa.

  Grande importanza ha in Vermeer la luce, perché la luce per lui è colore. L'Astronomo non è un ritratto, pure se è ben possibile che il modello sia stato fe­delmente ritratto. Ma viene anche da pensare che egli forse non avrebbe mai potuto dipingere un ritratto, anche se ha dipinto ritratti, in quanto troppo spesso la sua principale preoccupazione è quella di rendere, per mezzo della luce, che per lui è colore, la sua capacità percettiva di cogliere il mondo che lo circonda e arrivare all'arte servendosi di esso. Fare ciò, non è poi lontano da quanto hanno fatto pa­recchi fotografi sfruttando la particolare percezione che ha l'occhio dell'obbietti­vo di una macchina. Nell'Astronomo vi è indubbiamente l'allegoria, ma vi è, come in ogni altro suo dipinto, un assoluto equilibrio tra arte idea e natura (lo stesso che vi è tra composizione, disegno e colore), volendo rispettare nel vedere, e allo stesso tempo sentire e fantasticare, tutto nel quadro secondo le naturali apparenze del vero. Il dipinto dà adito a molte forme di lettura. Tra queste si può ricercare la prospettiva "fotografica" nella profondità della scena e la scelta della comoda, ma spaziale, ponderazione del personaggio, rimasto immobile per il lungo "tempo di posa" necessario affinché l'artista dipingesse l'opera, così come si riscontra l'at­tenta "messa in posa" di ogni altro oggetto nel quadro. Si può ricercare la raziona­lità della luce che si fa colore, ricercare il colore trattato nella sua purezza lu­minosa dove tutte le tinte sono perfettamente in armonia con l'insieme rendendo per­fettamente il volume, lo spazio, l'intera scena. Anche nell'Astronomo vi è lo straordinario occhio-obbiettivo dell'artista che si sa servire di tutto quanto in esso filtra per rigenerarlo sulla tela, sulla quale è così difficile discernere tra il simbolismo nascosto, la pura gioia della composizione e dell'effetto del colore, e la poesia creativa.

 

7) - HONORE' DAUMIER, Fotografia. Nuovo procedimento, 1856, litografia.

  La comparsa della fotografia nell'ultimo decennio della prima metà dell'Ottocento suscitò nel mondo dell'arte non poche reazioni. Vi fu chi, e tra questi anche molti pittori, l'accolse con entusiasmo; altri che la videro come una pericolosa antagoni­sta e si schierarono contro cercando a tutti i costi non riconoscerle la possibilità di accedere all'empireo dell'arte. Nel campo del ritratto, i primi dagherrotipi, se per gli artisti valenti furono un aiuto prezioso alla loro arte, per i meno capaci divennero motivo di contrasto e minacciarono seriamente di lasciarli senza lavoro: tra tutti, gli unici a subirne serie conseguenze furono soprattutto gli autori di ritratti in miniatura, specie quando Disderi introdusse le sue carte-de-visite. Mol­ti dei pittori di minor qualità non tardarono a diventare fotografi: anche Nadar, prima di diventare il grande fotografo che conosciamo, si dilettava in pittura.

  Per motivi essenzialmente tecnici, i primi ritratti fotografici dovevano essere fatti ricorrendo a non pochi espedienti per evitare gli inconvenienti dei lunghi tempi di posa necessari allo scatto. Tra i principali problemi da superare, vi era la necessità di garantire l'immobilità degli effigiati. Come bene illustra in manie­ra satirica questa caricatura di Honoré Daumier (che non era certo tra coloro che vedevano la fotografia come una antagonista), Fotografia. Nuovo procedimento, i fo­tografi si servivano di particolari aggeggi che permettevano una maggior immobilità della testa delle persone ritratte, dando un punto d'appoggio fermo e allo stesso tempo nascosto all'obbiettivo della macchina.

 

8) ANONIMO, Ritratto, 1845, dagherrotipo.

  Questo dagherrotipo mostra l'espediente di usare la base d'appoggio del braccio e della mano, per alleviare la difficoltà di tener immobile la testa. E' interessante notare come un gran numero di ritratti eseguiti a cavallo della metà del secolo scorso, anche in pittura (quando i pittori si servivano della fotografia), hanno nell'effigiato la posizione ricercata del braccio e della mano; affettazione che po­trebbe far pensare ad una particolare moda in gran voga in quegli anni, quando inve­ce era dovuta proprio alla conseguenza di ovviare al problema dei lunghi tempi di posa in fotografia.

 

9) - INGRES, Ritratto della contessa d'Haussonville, 1845, olio su tela, cm. 136 x 92, New York, Frick Collection.

  Jean-Auguste-Dominique Ingres fu tra i primi pittori a servirsi nei ritratti dei dagherrotipi, mandando le persone che doveva effigiare a farsi fotografare da Nadar, evitando loro i lunghi tempi di posa a cui sarebbero altrimenti state costrette. Tuttavia, Ingres fu anche uno di coloro che più apertamente "odiarono" la fotogra­fia, nonostante ciò non sia evidentemente ben conciliabile col suo modo, da straor­dinario accademico, d'intendere l'arte. A lui, inoltre, si fa risalire l'affermazio­ne che i pittori di ritratti dovevano emulare l'accuratezza del dagherrotipo aste­nendosi, però, dal dirlo. Tant'è vero che non esiste una vera prova concreta che te­stimoni l'effettivo uso della fotografia per le sue opere. Nonostante ciò, lo si può facilmente dedurre, ed i suoi ritratti possono essere considerati come dei <<dagher­rotipi ingranditi>>.

  Vale la pena sottolineare come Ingres sia stato anche uno tra i primissimi ad usa­re il dagherrotipo quale mezzo di documentazione delle opere d'arte. Infatti, sin dal suo ritorno a Parigi nel 1841, dopo il soggiorno a Roma, in una lettera scrive di essere in attesa di far fotografare un suo dipinto prima di verniciarlo ed espor­lo al pubblico. Inutile sottolineare in questa sede l'importanza crescente che le riproduzioni fotografiche di opere d'arte ebbero, ed hanno tutt'oggi, nello studio della storia dell'arte e nello sviluppo stesso della storia dell'arte, paragonabile, ma sicuramente superiore, a quella che nei secoli passati avevano avuto le incisio­ni.

  Il Ritratto della contessa d'Haussonville fu un impegno a cui Ingres si dedicò con particolare devozione, considerata anche la serie piuttosto considerevole di studi, dai quali è facile intuire una prima idea della composizione con la modella in posa pressoché analoga alla versione definitiva. Oltre ad aver conservato costante la po­situra della contessa in tutti questi lavori, confrontando gli studi con il quadro finito, una prima considerazione salta subito all'occhio: la figura ritratta negli studi è esattamente speculare rispetto a quella dell'opera finita. Ciò convalida no­tevolmente la tesi che Ingres si sia avvalso di un dagherrotipo per questo ritratto. Il dagherrotipo, infatti, usufruisce della lastra impressa direttamente come positi­vo, il che comporta il ribaltamento speculare dell'immagine. Inoltre, come già s'è detto sopra, i tempi di posa per i dagherrotipi erano alquanto lunghi, pertanto la persona effigiata doveva assumere una posa che gli permetesse di rimanere quanto più immobile possibile, specialmente nella testa. Da qui, come in questo ritratto, il particolare atteggiamento apparentemente pensoso provocato dall'accostare la mano al viso.

Ancora, l'estrema minuziosità della descrizione di ogni particolare del dipinto, dalle pieghe dell'abito alla splendida natura morta alle spalle della contessa, por­ta a pensare all'uso di un dagherrotipo, che era capace di riprodurre il mondo reale con un'altrettanto minuziosità descrittiva da poter essere osservata con la lente d'ingrandimento. Se poi si vanno a confrontare i colori delle sue opere con quelli dei dipinti posteriori al 1841, non è difficile riscontrare un passaggio da tonalità piuttosto fredde e delicatamente tinteggiate dall'effetto quasi di porcellana, a co­lori più caldi e decisamente metallici, che assomigliano alle tinte delle lastre co­lorate dei dagherrotipi. Le ampie campiture di luce che vanno ad illuminare la figu­ra e gli oggetti, in fine, riproducono piuttosto fedelmente la forte illuminazione a cui il fotografo sottoponeva il soggetto da ritrarre, esaltando quindi i contrasti tra le zone chiare e scure. Non è da escludere che nel presunto dagherrotipo impie­gato da Ingres per questo ritratto, la contessa d'Haussonville apparisse con gli oc­chi chiusi o per lo meno con le pupille mosse: nel primo caso, ciò era dovuto alla difficoltà di rimanere per lungo tempo con gli occhi aperti davanti alla forte luce necessaria per imprimere la lenta sensibilità della lastra, così, spesso, gli occhi venivano dipinti a mano una volta fissata l'immagine; nel secondo caso, perché l'ef­figiato non riusciva a stare con gli occhi fissi a lungo, e anche qui allora si ri­correva a correzioni eseguite a mano direttamente sulla lastra.

 

10) - EUG+NE DURIEU, Studio di figura dall'album di Delacroix, 1853 c., fotografia; EUG+NE DELACROIX, Odalisca, 1857, olio su tavola, cm. 30 x 35, Londra, Collezione Stavros Niarchos.

  A contrario di Ingres, Eugène Delacroix fu tra i pittori del XIX secolo che videro la scoperta della fotografia come un grande vantaggio per la pittura. Per alcuni an­ni, almeno, si servì della collaborazione di un attivo studio fotografico, appoggiò i fotografi affinché le loro opere potessero comparire affianco ai dipinti nei Salon annuali, fu socio fondatore della prima società fotografica francese, formulò, nei suoi diari e nei suoi saggi, acute osservazioni sulla fotografia e sul suo rapporto con la pittura, nonché si servì apertamente e senza timori della fotografia, anche se la sua arte, tutta così di getto e di impeto, sembra poter lasciar poco spazio alla fotografia (mentre quella più rigorosamente accademica del suo "antagonista" Ingres sembra essere, ed in parte lo fu, ben più disposta ad accoglierla e sfruttar­la).

  Servendosi della collaborazione dell'amico Durieu, Delacroix fece scattare un grande numero di fotografie che poi utilizzò per i suoi dipinti. Assieme al fotogra­fo decideva quali soggetti riprodurre e, soprattutto per le figure, ne sceglieva le persone da ritrarre, ne decideva la posizione, il vestiario, l'illuminazione, l'an­golo di ripresa, ecc. La fotografia servì a Delacroix non solo per le scene dal ve­ro, ma osservò e studiò attentamente anche le riproduzioni fotografiche di opere pittoriche del passato, come quelle di Rubens, ad esempio, e colse in pieno l'uti­lità che il nuovo mezzo d'informazione poteva avere per l'artista anche sotto questo punto di vista. Tanto fu entusiasta della fotografia, che ad un certo momento, nel suo diario, scrisse che se la sua scoperta fosse stata fatta soltanto trent'anni prima, forse il suo tempo sarebbe stato meglio impiegato.

  Tra i tanti usi che ne fece, la fotografia lo interessava in modo particolare in quanto essa era in grado di riprodurre con estrema esattezza, proporzione e soprat­tutto naturalezza (in questo senso, anche, egli si collega con un certo contrasto al nuovo movimento del realismo pittorico capeggiato in Francia da Gustave Courbet), la realtà dei personaggi da ritrarre o da introdurre nelle sue composizioni. S'accorse subito che la realtà fino ad allora riprodotta in pittura era corretta quasi incon­sciamente dall'occhio dell'artista, che ne alleviava alcune goffaggini, ne rimodel­lava alcune forme o ne rivedeva l'eleganza nella posa. La fotografia, invece, poneva davanti all'occhio del pittore una realtà più vera, <<in un certo senso falsa a for­za di essere esatta>>, che, se usata da un uomo di genio come dovrebbe essere usata, gli permette di sollevarsi <<ad altezze finora sconosciute>>. Nonostante questo, e­gli stesso nelle sue opere nelle quali attinse dalla fotografia continuò a portare quelle leggere correzioni ad un'immagine che se rimaneva abbastanza credibile nella fotografia, sarebbe stata invece incredibili nel quadro.

  Per il piccolo dipinto dell'Odalisca, Delacroix fece aperto uso del modello foto­grafico, come appare chiaro confrontandolo con lo scatto di Durieu, conservato in uno degli album fotografici che l'artista possedeva. Più che soffermarsi sulla ri­presa quasi alla lettera del soggetto riprodotto da Durieu, vale la pena evidenziare alcune caratteristiche del dipinto che sono state filtrate dalla fotografia e ria­dattate alla logica pittorica del dipinto. L'odalisca nel bozzetto ha la stessa na­turalezza e disinvoltura di movimento che una persona nella stessa posizione ha nel­la realtà riprodotta dalla fotografia. In taluni particolari Delacroix ha cercato lo stesso di correggere quelle "naturalezze" accettabili nella fotografia, ma tanto reali che nel dipinto sarebbero apparse semplicemente ineleganti e sgraziate, quindi anche errate: si guardino ad esempio le gambe nella fotografia, grossolanamente pie­gate ed ingrossate dalla prospettiva fotografica là dove la carne appoggia pesante, mentre nel dipinto l'artista ha dato loro una logica pittorica allungando e snellen­do le cosce, rendendole così accettabili nella prospettiva del quadro; anche il po­sare del piede sinistro a terra è stato rivisto dall'artista, perché se riportato fedelmente come risulta dalla fotografia sarebbe apparso doppiamente sgraziato.

 

11) - NADAR, Ritratto di Charles Baudelaire, 1859, fotografia; EDOUARD MANET, Ri­tratto di Charles Baudelaire, 1865, acquaforte.

  Andando avanti negli anni, è sempre più frequente trovare pittori che si servirono della fotografia per il loro lavoro. E' ben difficile dire, però, fino a che Edouard Manet sia stato influenzato dalla fotografia nel rendere il suo caratteristico e de­ciso modo di colorare, che tanto fu ammirato dagli impressionisti al punto che fece­ro, di Manet, pure per questo il capo spirituale del loro movimento. Certamente, ol­tre e più della fotografia, vi fu l'influenza della grande pittura spagnola, dal Greco a Velasquez a Goya, e allo stesso tempo delle stampe giapponesi, con le loro zone piatte di colore, i loro neri e la loro mancanza di resa tonale. Confrontando comunque questa fotografia di Nadar con l'acquaforte di Manet, al di là della ripre­sa diretta del soggetto, è possibile vedere anche nell'incisione come il pittore ab­bia saputo sfruttare artisticamente i forti contrasti tra le zone chiare e quelle scure tipiche delle fotografia contemporanee. Manet ne accentua anzi il contrasto, ottenendo nell'incisione effetti del tutto analoghi a quelli adoperati in pittura attraverso ampie campiture di colore piatto contrapposte a forti zone decisamente più scure, che danno una vivacità ed una brillantezza cromatica ai suoi lavori al­trimenti impensabili con le tradizionali tecniche accademiche del chiaroscuro.

 

12) - NADAR, Ritratto di Sarah Bernhardt, 1859, fotografia.

  Nadar fu sicuramente uno dei maggiori fotografi francesi del secolo scorso. Arrivò alla fotografia dalla pittura, e con i pittori continuo ad avere sempre stretti con­tatti e collaborazioni: nota a tutti è la prima esposizione impressionista del 1874 tenuta nell'ex atelier di Nadar a Parigi. Con gli impressionisti fu forte ed emble­matico il suo rapporto di amicizia, di reciproca fede e stima. Grande influenza si­curamente egli ebbe, con la sua opera, sui numerosi artisti suoi amici, dei quali rimangono le splendide fotografie da lui scattate intorno al 1860, che rappresenta­vano una cospicua parte del suo "Panthéon" fatto di 250 ritratti.

  Il ritratto di Sarah Bernhardt è uno dei capolavori della fotografia di quegli an­ni. Sofisticata è la ricerca della posizione, annullata e sottolineata al tempo stesso dal ricco drappeggiare della veste mossa e ridondante come un panneggio ba­rocco dal quale emerge vibrante la fresca epidermide dell'effigiata, con un contra­sto armonico che rimanda quasi alla pittura di Giorgione. Richiesta la mano al viso dalla lunghezza del tempo di posa, che viene però, come nei quadri di Ingres, per­fettamente riassorbita nell'elegante composizione dell'insieme. Il fondo è neutro, come nella grandiosa pittura veneziana del cinquecento, per esaltare in tutto la fi­gura dell'attrice. Nadar si oppone apertamente a tutti quegli enfatici espedienti che molta fotografia contemporanea impiegava per assomigliare quanto più possibile alla pittura, come, ad esempio, la colorazione o il fondo dipinto alle spalle. Dà piena autonomia alla fotografia come mezzo espressivo libero ed artistico, e proprio facendo questo si collega nel modo più stretto e naturale alla pittura. Grande amico degli impressionisti, egli non tentò mai di fare fotografie impressioniste, perché aveva capito che la tecnica del suo fare arte era profondamente diversa da quella di un pittore: la fotografia doveva muoversi come mezzo artistico autonomo, anche se in contatto con le altre espressioni artistiche. Riconoscere la fotografia come mezzo artistico voleva dire usare la macchina fotografica per quello che era e per come poteva essere sfruttata al fine di ottenere un valido risultato estetico. Fare al­trimenti, significava muoversi come si mossero i primi architetti strutturalisti, che sulle perfette strutture in ferro ed in cemento, che le nuove tecniche di co­struzione permettevano di usare, sovrapponevano un mediocre apparato ornamentale e di decorazione per dissimularne la funzionalità (Argan). Solo fino a quando non ci si liberò della vergogna per la paura della non artisticità della nuova tecnica, non si ebbero grandi architetti strutturalisti: lo stesso vale per i fotografi, e Nadar fu un grande artista perché non si vergogno di essere fotografo e di fare fotogra­fie.

 

13) - DISDERI, Carte-de-visite, 1860 c., fotografia, Rochester, George Eastman House.

  Con Adolphe-Eugène Disderi il ritratto fotografico trova la sua prima grande dif­fusione di massa. Egli fu l'"inventore" della carte-de-visite, un genere di ritratto che riproduceva in piccolo formato l'effigie di una persona e che veniva usata, come suggerisce il nome stesso, quale vero e proprio bigliettino da visita. Il successo fu enorme, anche dal punto di vista economico, al punto che egli arrivò a vendere ben 2.400 ritratti al giorno. La carte-de-visite fu presto esportata in tutto il mondo e può essere considerata, per il suo basso costo rispetto al ritratto pittori­co, quindi per l'accessibilità ad un numero sempre maggiore di persone, grazie anche alle continue innovazioni tecniche, come il primo fenomeno di diffusione di massa della fotografia. Possibile con l'avvento di nuove sostanze sensibili alla luce as­sieme all'uso di negativo e successivo positivo su carta (il che dava la possibilità di stamparne numerose copie), essa contribuì notevolmente a soppiantare l'uso del dagherrotipo, il quale, nonostante la sua precisa minuziosità e limpidezza d'immagi­ne, richiedeva attrezzature più ingombranti, maggiori tempi di posa e maggiori co­sti, e soprattutto, essendo il dagherrotipo un negativo fatto positivo, poteva esi­stere in un unico esemplare.

  Come si può vedere dalla carte-de-visite qui riprodotta, in una unica lastra veni­vano impressi più scatti, che ritraevano l'effigiato in diverse posizioni. Una volta stampate su carta le copie richieste, il foglio veniva tagliato ed impiegato come biglietto da visita. Oltre alla praticità del lavoro e alle esigenze del richieden­te, la carte-de-visite tende a soddisfare la ricerca di una certa naturalezza nel soggetto, con posizioni che spesso sono collegabili a quelle dei dipinti, anche se queste viengono man mano stereotipandosi nelle tipiche messe in posa.

 

14) - DISDERI, Carte-de-visite del principe  e della principessa di Metternich, 1860 c., fotografia; EDGAR DEGAS, Ritratto della principessa di Metternich.

  Il gruppo dei pittori riconducibile al movimento degli impressionisti è stato, già si è accennato, ognuno a suo modo, influenzato dalla fotografia. Tra questi, uno di coloro che maggiormente si servono del nuovo mezzo di riproduzione, è sicuramente Edgar Degas. Egli fece largo uso della fotografia, soprattutto nel cercare di rende­re il movimento, che è parte preponderante dell'intera sua poetica. Tanto si rese conto che la fotografia gli era utile per le sue ricerche compositive che egli stes­so, a partire con ogni probabilità dal 1895, si dilettò a fotografare. Andando a ve­dere i suoi quadri è facile scoprirvi la matrice fotografica che sta alla base. L'inquadratura del soggetto, così simile a quello di un'istantanea, che taglia per­sone e cose in un modo impensabile da parte di un pittore senza l'uso dell'apparec­chio fotografico, ma in modo particolare lo sfruttare la capacità dell'istantanea nel fermare l'anatomia e la conseguente configurazione del corpo umano nello spazio ad opera del movimento, sono certamente tra le soluzioni formali che l'impiego della fotografia indubbiamente facilitò e rese possibile all'occhio geniale di Edgar De­gas. La sua attenzione alla fotografia, rispetto ad altri artisti, era principalmen­te rivolta all'aspetto compositivo e alla possibilità di cercarne lo scattante movi­mento del corpo umano ed animale, cercando apparentemente di trascurare le soluzioni coloristiche che la fotografia in bianco e nero suggeriva; reagendo semmai ad esse, in alcune opere, col mescolare colori ad olio e pastelli attraverso decisi tratti. Tuttavia, in alcune delle sue prime opere, l'uso della fotografia traspare anche nel modo di colorare. E' questo il caso della Ritratto della principessa di Metternich, le cui ampie campiture di colore chiaro tradiscono il fascino emanato, ed da lui in­terpretato, dalla fotografia dei coniugi Metternich scattata da Disderi all'incirca intorno al 1860. Degas non ebbe probabilmente mai conosciuto la principessa, ma do­vette aver visto la fotografia di Disderi ed essere stato attratto dalla singolare fisionomia della donna. Adoperò la fotografia per il suo quadro isolando la figura della principessa e cogliendola di tre quarti, mantenendone lo sfondo, ma rendendo la posizione di stasi, che la donna assume al fianco del marito nella fotografia, in un fermo di movimento scattante che ben preannuncia la sua futura, dinamica ricerca formale.

 

15) - TOULOUSE-LAUTREC, Ritratto del signor Fourcade, 1889, olio su cartoncino, cm. 77 x 63, San Paolo, Museo de Arte.

  All'interno del gruppo di artisti legati al movimento impressionista, Henri de Toulouse-Lautrec, assieme a Edgar Degas, sicuramente fu tra coloro che maggiormente si servirono della fotografia nell'esecuzione delle loro opere.

  La pittura impressionista, nel più stretto significato di questo stile, annovera un numero piuttosto basso di opere, una parte delle pitture di artisti come Monet, Renoir e pochi altri. Gli stessi principali fautori del movimento artistico reagiro­no ben presto, ognuno a proprio modo, alla pittura impressionista. Altri artisti, e tra questi Toulouse-Lautrec, gravitarono nell'orbita dell'impressionismo superandone però, con la loro poetica, le premesse. Nonostante questo, l'atteggiamento di Tou­louse-Lautrec nei confronti della fotografia si mantenne sempre pressoché identico a quello degli impressionisti. Se la fotografia aveva messo in crisi i pittori di me­stiere, aveva anche spostato la pittura più elevata ad un'attività di élite. Il rap­porto che questa instaurò con la fotografia tendeva a considerare il modo di fare arte, negli aspetti più diversi, o come un'attività spirituale (simbolisti, ad esem­pio), che non poteva quindi essere sostituita da un mezzo meccanico, o come un'atti­vità concentrata sul problema della visione (realisti ed impressionisti), nel qual caso bisognava ben chiarire e definire distintamente tipi e funzioni dell'immagine pittorica e dell'immagine fotografica (Argan). In quest'ultimo caso, la pittura vin­ne ad essere liberata dal tradizionale compito di "raffigurare il vero" acquisendo la facoltà di ottenere risultati e soluzioni formali altrimenti irrealizzabili. Per questo motivo, pittori come Toulouse-Lautrec accettarono e sfruttarono la fotografia allo stesso modo con cui si servirono della grafica o della scultura, ed indiretta­mente ricobbero ad essa la dignità di arte.

  Il Ritratto del signor Fourcade è chiaramente preso da una fotografia: lo prova il taglio dell'effigiato e quello, in pittura tradizionalmente inconsueto, delle perso­ne che affollano la sala, così come lo prova il dinamismo scattante della posizione del signor Fourcade. Ma Toulouse-Lautrec non si fece intimidire dalla fotografia e se ne servì liberamente ricostruendo, ad esempio, la prospettiva della sala, o ado­perando una tecnica pittorica che gli permise di avere una figurazione rapida, dut­tile, intensamente significativa e comunicativa. Il colore non è un colore che rea­gisce alla mancanza della linea nella fotografia, ma è un colore libero da ogni co­strizione che non sia quella figurativa, anzi, strutturale dell'opera. Per questo i suoi dipinti, nella struttura di linea e colore, possono essere paragonati alla ten­sione funzionale e strutturale di architetture quali la Tour Eiffel. Al pari delle nuove tecniche di costruzione che permettono strutture prima impensabili, anche nel­lo sfogo decorativo, la linea ed il colore della pittura di Toulouse-Lautrec staran­no alla base dei virtuosismi dello stile floreale, dell'Art Nouveau o, in Italia, Liberty.

 

16) - LUIGI MONTABONE, Ritratto di Amedeo di Savoia, 1880 c., fotografia colorata.

  Uno dei principali svantaggi della fotografia rispetto alla pittura era la mancan­za dei colori. La comparsa delle prime fotografie fu accompagnata da appellativi co­me "disegno del sole" o "singolare incisione". Da principio, probabilmente, la foto­grafia trovò un primo confronto, proprio per l'assenza dei colori, più col disegno e con l'incisione piuttosto che direttamente con la pittura. E la fotografia, ad esem­pio, sopprimerà quasi completamente, quando diverrà un mezzo di massa accessibile a tutti, l'incisione nella sua usanza secolare di riprodurre e divulgare le riprodu­zioni di opere d'arte; oppure si sostituirà al disegno e all'acquerello nella docu­mentazione figurativa durante i viaggi. Daltronde, già i viaggiatori della fine del XVIII secolo, con la loro cultura romantica, sentirono la mancanza di un mezzo mec­canico in grado di riprodurre quanto più oggettivamente possibile vedute e panorami di paesaggi e città. Quest'esigenza sarà, infatti, tra le spinte principali che por­terà diverse persone a sperimentare i più svariati metodi, e non per ultimi dei veri e propri procedimenti fotografici, in grado di fermare le immagini che scorrevano davanti al loro occhio di viaggiatori.

  Nel confronto con la pittura, la mancanza di colore della fotografia ha portato ad escogitare numerosi modi per colorarla. Nelle lastre dei dagherrotipi si interveniva direttamente con pennello e colori o, tra gli altri metodi, si ricorreva all'appli­cazione, nel verso della lastra, di superfici colorate. La colorazione col pennello fu anche usatissima nelle fotografie su carta e, a volte, vennero usate le giganto­grafie come una sorta di disegno base su cui colorare ad olio come in un vero e pro­prio quadro. Alquanto interessanti sono gli esperimenti fatti, già dalla metà del secolo scorso, per ottenere delle fotografie propriamente a colori, usando emulsioni particolari capaci di reagire cromaticamente in fase di sviluppo. Quest'ultimo tipo di sperimentazioni devono vedersi in modo strettamente legato, forse più di quanto sino ad oggi s'è fatto, con le contemporanee teorie sui colori primari e complemen­tari che molti artisti andavano sperimentando in pittura e che porteranno agli alti risultati estetico-scientifici del Pointillisme francese e del Divisionismo italia­no, che staranno al loro volta alla base delle conoscenze acquisite necessarie, nel nuovo secolo, per giungere alla fotografia a colori.

  La  colorazione della fotografia può, a seconda dei casi, aumentare o diminuire il valore estetico dell'opera. E' risaputo che è molto facile snaturare una fotografia attraverso la colorazione (a meno che, quest'intervento, non venga usato come mezzo, al pari della fotografia stessa, per raggiungere un determinato risultato artistico), in quanto ciò che si vuole ottenere non è una fotografia che sia un'ope­ra d'arte, ma una fotografia che sia semplicemente una fotografia colorata con ef­fetti estetici paragonabili a quelli della pittura. Le fotografie colorate hanno in­dubbiamente un loro fascino. Tuttavia solo raramente acquisiscono un solido valore artistico, restando per lo più legate al tentativo di confrontarsi, nel campo della pittura, con la pittura (come in pittura succedeva esattamente l'opposto, quando es­sa voleva, appunto, apparire come una fotografia). Esse si presentano addobbate di un artificio che tradisce quel senso d'inferiorità sofferto dai fotografi nel momen­to in cui si misuravano con la pittura, non riconoscendo pertanto, loro stessi, la dovuta autonomia artistica alla tecnica fotografica. Così, in questo Ritratto di A­medeo di Savoia, l'uso del colore per ottenere effetti simili a quelli di un dipin­to, non fanno che evidenziare la mancanza di originalità fotografica, facendo dell'effigiato una specie di maschera carnevalesca.

 

17) - ANONIMO, Loïe Fuller, 1895-1900 c., fotografia.

  La bravissima danzatrice Loïe Fuller, con le sue esibizioni serpentine e sinuose (più ancora di quelle dell'americana Isadora Duncan), nelle quali faceva fluttuare nell'aria, servendosi di un'asta sottilissima ed invisibile, metri e metri di veli leggeri mossi di continuo dai suoi vortici e da potenti ventilatori, e colorati dal­le splendenti luci di più proiettori, ispirò un enorme numero di artisti: da Toulou­se-Lautrec al poeta Mallarmé, dall'architetto Sauvage allo scultore Rodin a Van de Velde a Kolo Moser a Lalique a Tiffany, ecc. La Fuller divenne uno dei simboli dell'Art Nouveau. Questo nuovo stile artistico, che si affermò tra la fine del seco­lo scorso ed i primi decenni del nostro in tutta Europa ed in America come una vera e propria coinè, fu sotto più aspetti una forma di reazione, e talvolta di "fuga", nei confronti di un atteggiamento diffuso ed ossessionante verso una società che mi­nacciava di diventare troppo "meccanica" e "grigia". Anche la crescente diffusione della fotografia come mezzo fedele di riproduzione figurativa meccanica, contribuì ad esaltare questo senso di evasione dalla realtà da un lato, o di estenuante ricer­ca di decorazioni stilizzate dall'altro. Così molta pittura cercò di sublimare la fotografia creando immagini che mai la macchina fotografica avrebbe potuto cogliere. Dal canto suo, la fotografia come mezzo artistico, sentì pure essa la necessità di uscire da quei vincoli che minacciavano di rilegarla al rango di mestiere, cercando, con i sui mezzi di riproduzione, nuove forme espressive. Questa bellissima fotogra­fia di Loïe Fuller, pur non essendo un ritratto inteso nella forma tradizionale, è uno splendido esempio delle possibilità espressive di un mezzo meccanico, qualora dietro l'apparecchio ci sia un artista in grado di cogliere dalla realtà l'ispira­zione necessaria per adeguare il proprio linguaggio fotografico ai nuovi stilemi ar­tistici dell'Art Nouveau. In più, come già ben avevano saputo cogliere Degas e Tou­louse-Lautrec, la capacità di fermare il movimento proprio della fotografia e di la­vorare su di esso, soprattutto grazie ai contributi di fotografi come Muybridge, Ma­rey od il nostro Bragaglia, oltre ad aiutare ad aprire nuovi campi figurativi agli altri generi artistici, fu per la fotografia stessa una straordinaria opportunità per affermare la propria valenza estetica.


 

18) - HEINRICH KÜHN, Lotte mentre coglie un fiore, 1910 c., fotografia, Parigi Musée d'Orsay.

  A partire dagli ultimi anni dell'Ottocento, la fotografia sentì sempre di più l'e­sigenza di affermarsi come mezzo artistico autonomo al pari di tutti gli altri. Ac­canto a nuove ed originali soluzioni compositive, i fotografi, come nel caso di que­sta fotografia, impararono a sfruttare con maestria tutte le possibilità di ottenere effetti speciali attraverso la manipolazione nelle fasi di sviluppo e di stampa del negativo, e non solo, come succedeva quasi sempre in passato, nel momento dello scatto. Così facendo, la loro attenzione si spostò gradualmente verso le possibilità espressive endogene del processo fotografico, ed il soggetto da ritrarre, pur sempre rimanendo una parte del lavoro da studiare, divenne talvolta un puro pretesto. In questa fotografia, che non può essere considerata un vero ritratto, nonostante l'ar­tista individui nel titolo la persona con il nome, il pittoricismo che traspare non è interamente frutto della scelta del soggetto, quanto piuttosto della bravura del fotografo nel saper sfruttare al meglio le possibilità espressive della fotografia nel momento dello scatto, dello sviluppo e della stampa.

 

19) - GUSTAV KLIMT, Giuditta (I), 1901, olio su tela, cm. 84 x 42, Vienna Österrei­chische Galerie; STUDIO D'ORA, Danzatrice, 1923, fotografia, Vienna Collezione pri­vata.

  Gustav Klimt fu un artista che si servì solo saltuariamente della fotografia. Tut­tavia la sua opera, anche all'interno della manifattura artistica della Wienerwer­kstätte, influenzò non poco la fotografia che gravitò nell'orbita delle secessioni mitteleuropee. Il contributo appare a primo acchito essenzialmente nell'introdurre il suo "pensiero pittorico"  attraverso la scelta delle tematiche, la posizione e l'abbigliamento dei personaggi ritratti, la loro illuminazione o il taglio delle in­quadrature. E tutto questo è facilmente intuibile andando a confrontare un'opera co­me la sua Giuditta del 1901 con la fotografia dello studio D'Ora raffigurante una danzatrice. Tuttavia, è possibile notare come alcuni effetti "klimtiani", quali ad esempio certi contrasti "cromatici" nelle graduazioni di bianco e di nero o le sfu­mature granulose chiaroscurali, siano perseguiti dal fotografo pure attraverso l'uso particolare, nella fase dello sviluppo e della stampa, del tiraggio all'argento bru­no.

 Anche in questo caso, entrambe le opere non possono essere considerate dei veri ri­tratti di persone bene identificabili, quanto semmai degli straordinari ritratti della femme fatale di fine-inizio secolo e, al tempo stesso, dell'atteggiamento del­l'uomo nei confronti del suo pauroso "complesso di Salomè". L'arte di Klimt si pre­sentò ai fotografi, come ai pittori, con tutto il fascino di un'estetica raffinata all'inverosimile dove convivevano, in armonia assoluta, Oriente mistico e Occidente secessionista, dramma e gioia icastica, felicità d'esecuzione ed evasione allusiva nell'introspezione umana. Nelle sue opere, la travagliata atmosfera di dissoluzione sensuale e psicologica, di disfacimento ed di esaltazione della profonda insicurezza di una Vienna prossima al crollo imperiale, affascinò ed ispirò tanto la pittura quanto la fotografia. Nell'orbita di Klimt, la fotografia secessionista ha prodotto degli straordinari ritratti femminili, nei quali la persona effigiata appare essa stessa il ritratto della donna ritratta, della donna = sensualità, della figlia del tempo dell'insicurezza, dell'Enide weiningeriana.

 

20) - ETIENNE-JULES MAREY, Un pugile inglese, 1880-1890, cronofotografia.

 Con Etienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge la fotografia imparò a sfruttare certe sue capacità di vedere una realtà impensabile prima, anche se alcuni artisti in pas­sato, per intuizione, talvolta si accostarono a soluzioni avvicinabili. I lavori di Marey, tuttavia, sono sostanzialmente diversi da quelli di Muybridge, ed i due arti­sti influenzarono la pittura in modi profondamente divergenti. Muybridge, nelle sue sequenze di persone o di animali in movimento, in ogni scatto fermava il soggetto nel suo dinamismo attraverso lo spazio, ed era quindi, con le sue chiare immagini, facilmente compreso dagli artisti che seguivano la tradizione naturalistica del XIX secolo. A contrario, Marey, con la cronofotografia, metteva in evidenza le realtà più astratte della natura, andando così ad influenzare numerosi movimenti e correnti artistiche del nostro secolo. Le sue cronofotografie, infatti, tendevano a mostrare il movimento in sé piuttosto che un oggetto in movimento. Entrambi gli artisti, i­noltre, con i loro lavori e le loro sperimentazioni contribuirono in maniera più o meno diretta all'invenzione cinematografica.

  Nella fotografia Un pugile inglese, appare chiaro che l'interesse di Marey non è rivolto al soggetto in quanto tale, ma al suo movimento nello spazio. La fotografia mostra come una determinata forma si sviluppa nel tempo attraverso il movimento e svela nello spazio fotografico non solo, contemporaneamente, più sequenze del pugi­le, ma anche sovrapposizioni e trasparenze della sua figura tanto da rompere ogni tradizionale legame con la necessità di mimesi di ciò che l'occhio vede, sino ad al­lora quasi esclusivamente perseguita dalle arti figurative.

 

21) - MARCEL DUCHAMP, Marcel Duchamp che scende una scala, 1912, cronofotografia; MARCEL DUCHAMP, Nu descendant un escalier, n. 2, 1912-1916, acquerello, inchiostro, matita e pastello su carta fotografica, cm. 147 x 89, Philadelphia, Museum of Art.

  Marcel Duchamp fu uno di quegli artisti che si mossero sempre contro corrente, an­dando a scovare senza remore tutto quanto si cela sotto le censure repressive della società moderna. Egli intuì che nella società moderna l'uomo si abitua a convivere con la macchina al punto che il suo stesso funzionamento biologico, col tempo, subi­sce una sorta di trasformazione che lo fa simile al funzionamento tecnologico, al funzionamento cioè delle macchine. Per questo considera il cubismo, analitico prima, e sintetico poi, di Picasso, Braque e Gris come un meccanismo statico ed in questo ne ravvisa un limite formalistico: nonostante i suoi iniziali, profondi intenti ri­voluzionari, il Cubusmo si fonda ancora su di un ragionamento razionale, mentale, costruttivo; la storia con le sue contraddizioni, prova che l'uomo non è così razio­nale, così classico. Dall'altra parte, Duchamp va oltre la ricerca  del moto dinami­co futurista, che determina un mutamento della configurazione dell'oggetto nello spazio, in quanto l'abitudine al movimento meccanico altera non solo l'aspetto este­riore ma anche, come già detto, la biologia interna dell'oggetto. Nella sua rivolu­zionaria ricerca artistica, la conoscenza delle possibilità che la fotografia mette­va a sua disposizione per vedere una realtà che non fosse <<puramente retinica>>, gli fu di notevole aiuto. Egli ammise in più occasioni di esser stato stimolato dal­le fotografie di Muybridge e soprattutto da quelle di Marey, fotografi le cui opere, non solo lui, ma <<tutti conoscevano>>, futuristi compresi.

  La cronofotografia di Marcel Duchamp che scende una scala, è indubbiamente stata suggerita dalle analoghe sperimentazioni di cogliere il movimento nello spazio foto­grafico effettuate da Marey. Egli non esita a servirsi di questa fotografia per creare il Nu descendant un escalier, e tanto sente la necessità di servirsene da in­tervenire direttamente su di una carta fotografica di grandi dimensioni, probabil­mente preventivamente impressionata con un soggetto analogo. Quello che nella foto­grafia, però, era chiaramente individuabile come una persona che scende le scale in tutte le sue sequenze, sovrapposizioni e trasparenze, nel dipinto diviene il  com­portamento di un uomo che fa inconsciamente un movimento ripetitivo, identico a quello di una macchina, cosicché il suo funzionamento diviene in tutto e per tutto il funzionamento di un organismo meccanico, che perde nel movimento le connotazioni umane per trasformarsi in un congegno artificiale in tutto, esteriormente ed inte­riormente.

 

22) - PABLO PICASSO, Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, olio su tela, cm. 92 x 65, Mosca, Museo Puschkin.

  Picasso è un artista che nella sua lunga vita ha sperimentato tutto, ha subito in­fluenze ed ha influenzato tutto, fotografia compresa. Tra i suoi più alti contributi portati all'arte contemporanea, indubbiamente vi sono le sue esperienze cubiste. Il Cubismo, partendo dalla possibilità di far completa tabula rasa nei confronti della tradizione artistica del passato, così come Rousseau il Doganiere aveva dimostrato poteva essere possibile, e sviluppando le tesi formali di Cézanne, il vertice massi­mo della cultura figurativa contemporanea, <<l'estrema civiltà>>, contrapponendole alla validità estetica, artistica e storica della scultura negra primitiva (primiti­va, almeno rispetto alla civiltà occidentale), <<l'estrema barbarie>>, apriva all'arte uno scenario espressivo completamente nuovo e rivoluzionario, inaugurando un ciclo creativo ancora in atto ai nostri giorni. Il Cubismo fu, comunque, e rima­se, un'arte essenzialmente classica, la quale si servì di tutte le cognizioni intel­lettuali, che l'individuo ha acquisito dalla realtà che lo circonda durante il corso della sua vita, per scomporre e successivamente ricomporre, secondo una ben precisa logica di analisi razionale e di costruzione per edificare una nuova realtà che prende corpo sulla superficie della tela. Senza rinunciare alla raffigurazione di un oggetto in tutto il suo essere nello spazio visibile, attraverso lo scorrere del tempo, da ogni angolazione possibile, e registrando anche, di conseguenza, sulla te­la il mutare delle circostanze che durante l'esecuzione dell'opera l'artista viene ad incontrare, facendo cioè finire l'opera diversamente da come era iniziata, pro­prio a causa del fluire del tempo, il Cubismo continua tuttavia a rimane pur sempre vincolato da regole chiaramente individuabili: la linea verticale per indicare l'al­tezza, la linea orizzontale per indicare la larghezza, quella obliqua per la profon­dità spaziale, quella curva per il volume, ecc. Nonostante il suo intento rivoluzio­nario, il Cubismo restava una ricerca conoscitiva, e le sue opere, ancora <<opere da museo>>. Sarà contro questa logica razionale che Duchamp reagirà, fino a giungere all'estrema illogicità della "non arte" dadaista; e sempre sostanzialmente da que­sto, partirà la reazione "orfistica" di Robert Delaunay.

  Il Cubismo non ebbe un vero e proprio rapporto diretto con la fotografia, ma non c'è dubbio che la fotografia contribuì a rendere l'artista cosciente delle nuove e­sigenze che la società moderna richiedeva. La fotografia aveva partecipato al dibat­tito sulla mimesi, vincendo nei confronti dei pittori di mestiere e distribuendosi i ruoli nei confronti dei pittori di talento; ma allo stesso tempo aveva contribuito ad esaurire quel ciclo secolare di analisi esteriore della realtà da imitare sulla tela, e favorito l'aprirsi di una nuova concezione artistica che vede la tela come il luogo dove si crea una realtà nuova: il Cubismo ne fu il risultato, e fu il punto di rottura tra il vecchio ed il nuovo modo di concepire l'arte. Nel Ritratto di Am­broise Vollard, Picasso non si è preoccupato di rendere la fisionomia dell'effigia­to, che è appena riconoscibile nel volto, perché anche il ritratto, come ogni altra cosa, come ogni intervento nella storia, è azione, e la tela, in pittura, è il campo dove si svolge l'azione, dove si lavora affrontando tutti i problemi e le difficoltà di un'impresa che si intraprende e che non si sa dove vada a finire.

 

23) - ANTON GIULIO BRAGAGLIA, Balla in sequenze dinamiche davanti al suo quadro "Di­namismo di un cane al guinzaglio", 1911, fotografia.

  E' risaputo lo stretto legame esistito tra Futurismo e fotografia. Le cronofoto­grafie di Marey, soprattutto, ispirarono tantissimo la rappresentazione del movimen­to nella pittura dei futuristi; ed essi furono a lungo accusati dalla critica con­temporanea di non far altro che della fotografia. Boccioni manifestò il suo disap­punto a tal proposito scrivendo in più occasioni: <<Si gridò allo scandalo a Parigi e altrove: fummo chiamati fotografi>>; <<Una benché lontana parentela con la foto­grafia l'abbiamo sempre respinta con disgusto e con disprezzò perché fuori dall'ar­te>>; la capacità della fotografia di riprodurre ed imitare oggettivamente, ha libe­rato l'artista <<dalla catena della riproduzione esatta del vero>>. Nonostante que­sto, Boccioni, che fu forse l'unico vero genio del movimento, e tutti gli altri fu­turisti, furono profondamente debitori tanto nei confronti della fotografia, quanto anche nei confronti del cinematografo. Gli stessi titoli di molte loro opere sono spesso derivazioni, e vengono così pure più facilmente compresi, dalla terminologia scientifica usata da Marey nell'esemplificare le sue cronofotografie.

  Il Futurismo, l'unica avanguardia italiana di levatura europea, nonostante la sua ossessione di modernità ed il suo "odio" nei confronti della tradizione artistica del passato, rimase sostanzialmente un movimento artistico ancora legato ad una for­ma di tardo romanticismo di natura ottocentesca portato, certo, alle estreme conse­guenze: nel suo fanatismo, infatti, di rappresentate a tutti i costi il movimento, solo raramente riesce a liberarsi dai vincoli di mimesi tradizionale, di riprodurre cioè quello che poteva essere visto dall'occhio attraverso particolari accorgimenti. Lo sforzo principale dei futuristi rimase pertanto la raffigurazione del movimento (anche se talvolta si finì col rappresentare l'oggetto in movimento) per mezzo della simultaneità e dell'interpenetrazione della forma; raramente intervenendo creativa­mente nella struttura di una nuova realtà che si forma grazie alla pittura. E non è casuale se la sua ridondante eco europea attecchì in modo particolare proprio in Russia. Tuttavia, il suo metodo spesso scientifico di indagine del movimento contri­buì non poco agli studi in aerodinamica, ad esempio, come in altri campi. Il suo at­teggiamento, infine, nei confronti della fotografia, appare alquanto limitativo se si pensa che nel manifesto del Fotodinamismo futurista, del 1913, di Anton Giulio Bragaglia, fotografo, si legge: <<Noi vogliamo realizzare una rivoluzione, per un progresso nella fotografia; e questo per purificarla, nobilitarla ed elevarla ad ar­te>>. La fotografia non era, quindi, considerata un mezzo artistico per le sue ca­ratteristiche endogene, ma doveva sfruttare quelcos'altro per diventarlo: si torna­va, pertanto, alla vecchia soggezione della fotografia che doveva imitare la pittu­ra.

  Oggetto primo del Futurismo, s'è detto, fu rappresentare il movimento. Per questo nella ritrattistica esso diede vita a poche opere: l'oggetto del dipinto diveniva sostanzialmente un pretesto. Anche in questa fotografia di Bragaglia, che ritrae Balla davanti ad un suo famoso dipinto, si nota, molto suggestivamente, l'impaccio di come raffigurare l'effigie di una persona (come parimenti avveniva per la pittu­ra), senza che la ricerca del movimento ne vanificasse l'intento.

 

24) - DU HAURON (e altri), Trasformismo: serie di ritratti, 1889, fotografia.

  La fotografia, s'è detto in più occasioni, aveva la necessità di prendere coscien­za dei propri mezzi espressivi, liberandosi nel contempo della necessità di imitare altre forme artistiche (e tra queste, prima fra tutte, la pittura), per poterle sem­mai sfruttare. Verso la fine del secolo scorso, la sua grande diffusione, che permi­se praticamente a tutti di adoperarla, rese più che mai necessario al fotografo pro­fessionista sperimentarne tutte le possibilità espressive. Alcuni di questi esperi­menti o trucchi, si chiusero nell'ambito della novità pubblicitaria e della diver­tente raffigurazione di una realtà colta nel modo meno convenzionale possibile. Ma anche queste prove servirono a mettere a fuoco le capacità estetiche della fotogra­fia. Il cosiddetto "Trasformismo", che si affermò in maniera piuttosto diffusa, con le sue manipolazioni soprattutto nella fase della stampa, servì proprio a questo. Nella fotografia di Du Hauron e collaboratori, il ritratto di una persona viene ri­prodotto in più immagini, ognuna distorta in maniera differente, ad imitazione degli antichi trucchi degli specchi. L'effetto ottenuto è di vera e propria caricatura. Vale la pena ricordare che anche in pittura, proprio in quegli anni, la caricatura servì all'artista per uscire dal vincolo di imitare la realtà a tutti i costi, e gli permise di prender coscienza di nuove forme espressive. Così, se spesso queste mani­polazioni fotografiche nacquero come divertimenti salottieri o passatempi fotografi­ci, non tardarono ad interessare seriamente i più valenti artisti, grazie ai quali, da lì a pochi anni, la fotografia raggiungerà la sua piena emancipazione, influen­zando tra l'altro, non poco, le moderne tendenze pittoriche.


 

25) - BLOUNT, Ritratti e natura morta, 1873, pittura e fotomontaggi; MARC CHAGALL, Io e il villaggio, 1911, olio su tela, New York, Museum of Modern Art.

  Come per il "Trasformismo", anche i fotomontaggi ed i collages nacquero pressoché per gli stessi motivi e furono ben presto presi in considerazione dagli artisti qua­li nuove possibilità espressive della fotografia. Diretto, in questi casi, è il rap­porto con molte tendenze pittoriche del nuovo secolo: si pensi, ad esempio, all'in­serimento dei collages nel Cubismo, per dimostrare che non c'è separazione tra lo spazio reale e quello artistico. Per i fotomontaggi in modo particolare, il rapporto più immediato è forse col Surrealismo, che si servì di essi per provare che pure nell'arte è possibile ragionare con la stessa logica che governa, ad esempio, la no­stra attività onirica: nel sogno la situazione più assurda appare perfettamente nor­male, perché anche quella, come logica dell'inconscio, è parte integrante del nostro modo di ragionare. Si confronti questa fotografia di Blount con il dipinto Io e il villaggio di Chagall. Nonostante la diversità di intenti e l'abissale differenza qualitativa, non è difficile scovare le analogie compositive e d'effetto. Il foto­montaggio, come la poetica surrealista (e attraverso la poetica surrealista), dà la possibilità di alterare la realtà proponendo situazioni apparentemente insensate, allucinanti o inverosimili, che però permettono di comunicare contenuti altamente espressivi e significativi legati al mondo dell'inconscio e dell'onirico.

 

26) - MAN RAY, Attaccapanni, 1920, mm. 180 x 295, fotografia.

  L'americano Man Ray fu pittore e fotografo, ma anche "scultore", "artigiano" e "scrittore". Nel 1918 aderì a Dada, movimento nato a Zurigo nel 1916. Con Duchamp e Picabia, prima del '18, partecipò alla rivista <<291>>, la quale anticipava molti temi del Dadaismo. E' un errore, nell'ottica del Dadaismo, e nella sua comprensione, separare tra loro le operazioni plastiche, pittoriche, fotografiche o visive in ge­nere, così come non è corretto separarle da quelle poetiche, teatrali, verbali: tra questi diversi tipi di intervento non c'è analogia o parità, c'è semplicemente indi­stinzione (Argan). Il Cubismo era stato una grande rivoluzione, ma continuava a pro­durre <<opere da museo>>, produrre cioè sempre una merce, la più preziosa, che veni­va assorbita dalla logica del mercato della società moderna, conferendo ai possesso­ri una prova tangibile della loro ricchezza, della loro autorità, del loro potere. Nella sua rivoluzione figurativa, il Cubismo rientrava nel sistema di valori costi­tuiti. Dada reagì a questo volendo rimuovere l'attenzione dall'oggetto al soggetto, dal prodotto al produttore (Fagiolo). Per far ciò, aveva bisogno d'interventi ironi­ci, demistificatori, disordinati, sconcertanti e, soprattutto, scandalistici. Perché l'oggetto artistico non fosse assorbito dalle preposte leggi di mercato e potesse essere solo opera dell'artista, l'unica vera arte doveva essere l'anti-arte. Il Da­daismo fu questo controsenso, il controsenso cioè di un movimento artistico che negò l'arte. I dadaisti spesso rinunciarono volutamente alle tecniche ed ai materiali tradizionalmente considerati artistici, per servirsi di quelli industriali, snatu­randoli, però, e adoperandoli nei modi più diversi rispetto a quelli prescritti ed abituali. In questo senso vanno intesi i ready made di Duchamp, i Merzbau di Schwit­ters, il cinematografo per Richter e la fotografia per Man Ray.

  L'Attaccapanni non è niente di preciso se non una fotografia che riprende un sog­getto accuratamente e "casualmente" studiato nella composizione, nella scelta del modello, nell'equilibrio, nella luce, ecc., dove parte integrante dell'opera è anche il titolo, che ne suggerisce una possibile lettura. E' un intervento artistico che vuole annullare le regole convenzionali della fotografia e della concezione dell'ar­te presentando un soggetto, che potrebbe essere un ritratto come una qualsiasi altra cosa, il che non ha importanza, in una situazione assurda, inusuale e scandalosa, perché solo così è possibile la negazione delle tecniche come operazioni programmate in vista di un fine. E', insomma, un'azione di disturbo, molto più provocatoria di quanto saranno i successivi Rayogrammes e Solarizzazioni, maggiormente legati al linguaggio dell'inconscio surrealista.


 

27) - ETIENNE-JULES MAREY, Traiettoria di un movimento lento, 1885, fotografia ste­reoscopica; PAUL KLEE, Il buffone beffato, 1930.

  Il una posizione sotto molti aspetti alquanto diversa rispetto a quella del Dadai­smo, si colloca l'altissima poetica di Paul Klee. La prima guerra mondiale tracciò una profonda linea di sutura all'interno e tra le molte tendenze espressive. Per i dadaisti, ad esempio, la guerra fu la logica conseguenza del progresso scientifico e tecnologico: bisognava pertanto negare tutta la storia passata e ogni progetto per il futuro che si basava sulle stesse regole, e ricominciare daccapo in maniera to­talmente diversa. Per altri artisti, e tra questi anche Klee, la guerra doveva esse­re considerata come un passo falso, un incidente di percorso nella lenea razionale della storia. Agli errori che avevano portato alla guerra, bisognava reagire rimet­tendo la società sulla giusta strada della ragione, e per far ciò bisognava interve­nire con azioni forti, energiche e mirate. In questa direzione si mosse la scuola del Bauhaus, nella quale Klee entrò come insegnate dal 1921, tenendo corsi di lezio­ne sulla pittura.

  Tutte le ricerche artistiche di Klee, soprattutto durante il periodo d'insegnamen­to al Bauhaus, si basavano su di un assoluto e rigoroso rapporto tra teoria e prassi pittorica. I suoi dipinti sono di una grande complessità tecnica e la sua visione artistica libera di scegliere in una grande gamma di motivi e di materiali. Su tutto il suo lavoro di ricerca, ed è il caso di dire, scientifica, egli indagò il territo­rio del magico e del fantastico con un completo controllo razionale su tutto, dai mezzi ai soggetti, dalle tecniche ai materiali. Scoprì nuove possibilità espressive andando a verificarle nella riflessione didattica, teorizzandole, quindi, al fine dell'insegnamento e al tempo stesso per meglio focalizzare l'immenso universo dei segni significanti, così come del colore significante, della forma significante, della composizione significante.

  E' ovvio che nel rigoroso lavoro di studio, Klee non rinnegò assolutamente le ri­cerche artistiche e scientifiche del passato, di qualsiasi natura esse fossero, con­siderandole sempre oggetto di analisi e di esegesi. La fotografia era uno straordi­nario mezzo artistico e scientifico di cui si poteva servire per sperimentare, chia­rire ed ulteriormente convalidare le sue ricerche. Conosceva perfettamente tutti gli esperimenti fotografici di Marey, come la fotografia stereoscopica qui riprodotta, e li sfruttava senza timore, perché gli servivano quali mezzi da usare nella complessa poetica espressiva della sua arte, come ha fatto per Il buffone beffato del 1930.

 

28) - MAN RAY, Solarizzazione, 1931, mm. 190 x 250, fotografia, Parigi, Bibliothèque Nationale.

  Una volta presa coscienza che l'immagine ottenibile dall'artista poteva essere, essa stessa, una realtà nuova e quasi completamente autonoma rispetto a quella tra­dizionalmente contemplata attraverso la mimesi, in grado, pertanto, di esprimere va­lori e significati diversi a seconda che si volesse puntare l'obbiettivo ora sulla capacità d'introspezione del sentire umano, ora sulla possibilità d'intervenire at­tivamente sulla realtà che circonda l'uomo, anche il problema della scelta del mezzo figurativo si pose in termini totalmente nuovi. La qualità artistica, liberata dai vincoli delle distinzioni settoriali, poteva essere raggiunta con qual si voglia tecnica, o insieme di tecniche, che l'artista più considerava opportuna. Alla stesso modo, all'interno di una stessa tecnica espressiva, ogni canone prima vigente poteva essere ignorato o adoperato in modo alterato e particolare al fine di ottenere il risultato desiderato. Nella fotografia, forse più che altrove, ciò portò la ricerca estetica dell'artista a sfruttare e a indagare tutte le possibilità tecniche usu­fruibili, e non solo, ma permise di schierarsi, in più, dalla parte della ricerca scientifica per individuarne delle nuove. E tutto questo all'interno di poetiche tra loro differenti e spesso antitetiche. Man Ray, legato prima al Dadaismo e poi al Surrealismo, fu tra i principali fautori della proposta di immagini fotografiche nuove e rivoluzionarie, e fu egli stesso collaudatore di nuove tecniche di sperimen­tazione. Con la solarizzazione, ad esempio, che sfruttando l'inversione del processo di annerimento della pellicola fotografica a causa dell'esposizione ad una luce di gran lunga superiore a quella richiesta la quale, oltre ad un certo limite, invece di provocare il totale annerimento produce una immagine già positiva anziché negati­va, ribaltò ogni precedente accurato studio sull'illuminazione del soggetto. Di­mostrò di saper ottenere, anche utilizzando particolari accorgimenti nella fase del­lo sviluppo e della stampa, un qualità artistica di grande suggestione soprattutto, come nel caso della fotografia qui riprodotta, nel campo del ritratto. Ritratto fo­tografico che viene ad essere al tempo stesso una prodigiosa sintesi di scelta del soggetto, della composizione e della tecnica impiegata.

 

29) - ANDRE' KERTESZ, Distorsione n. 47, 1933, fotografia; FRANCIS BACON, Ritratto di un uomo d'affari, 1953, trittico, olio su tela, cad. cm. 61 x 51, Torino, Colle­zione privata.

  La fotografia, sin con i lavori di Muybridge e Marey, aveva reso possibile visua­lizzare alcuni aspetti della realtà che era difficile, o impossibile, poter cogliere solo con l'occhio umano. Tra questi vi erano, ad esempio, oltre al trasformismo vi­sto, le riprese in sequenza degli sconvolgenti movimenti di persone disabili e mala­te, o forme di distorsione ottenute con particolari espedienti dall'apparecchio fo­tografico. La fotografia del 1933 qui riportata di André Kertesz, mostra una spetta­colare deformazioni della figura umana che dà all'opera un senso di tragico ed orri­do.

  Nella visione artistica di Francis Bacon, non è difficile immaginare come egli sentisse con particolare stimolo la forza espressiva della distorsione fotografica, o di certe sconvolgenti realtà che la macchina da presa metteva a nudo. Nel trittico raffigurante il Ritratto di un uomo d'affari, Bacon sembra applicarvi alcune di quelle distorsioni che la fotografia ci ha fatto conoscere. Anche certi fotogrammi cinematografici, che mostrano in sequenza, come appunto in questo trittico, primi piani strazianti e terrificanti, hanno sicuramente attirato l'attenzione di Bacon: lo provano alcuni confronti fatti, ad esempio, tra le sue opere e scene tratte da' La corazzata Potemkin di Eisenstein.

  Il Ritratto di un uomo d'affari è il ritratto di una categoria sociale, non di un singolo individuo. A Bacon interessa dimostrare come dietro alla figura umana attua­le, che indossa l'immagine della finzione, ogni ceto sociale celi la sua cruda ve­rità, e questa cruda verità non sia elezione bensì degrado e caduta della sua stessa umanità. Egli è un artista figurativo perché la figurazione gli serve per essere de­figuralizzata, devalorizzata, avvilita, disfatta fin quasi alla sua completa distru­zione fisica. E' sicuramente l'artista più "barocco" del nostro secolo, perché sen­tiva in molti artisti del Barocco il suo modo di vedere la realtà, ed era sicuro che, se non fossero stati legati al rispetto della convenzione, sarebbero giunti ai suoi stessi risultati, mettendo a nudo non il sacro o il divino, ma il demoniaco dell'uomo: non avrebbero costruito opere scenografiche e teatrali attorno all'uomo, ma dentro all'uomo.

 

30) - ROY LICHTENSTEIN, Ragazza al pianoforte (part.), 1963, New York, Collezione H. N. Abrams.

  Il ritratto spesso, sia in fotografia che in pittura, nella nuova concezione arti­stica affermatasi con le avanguardie storiche e sviluppatasi poi con i movimenti, con le correnti e con le tendenze artistiche durante le due guerre e con i primi de­cenni del dopoguerra, viene a perdere quella sua valenza storica di ritrarre la per­sona nelle fedeltà dei lineamenti fisionomici i quali, assieme allo studio dell'e­spressione, della messa in posa, della composizione generale, del colore, della lu­ce, ecc., erano sempre serviti ad identificare l'effigiato nel suo essere esteriore, e attraverso questo suggerire le sue connotazioni intellettuali, morali e psicologi­che. Si arriva, talvolta, ad una sorta di rinuncia al genere stesso. Ciò che all'ar­tista allora sembra interessare, è per lo più il mondo spirituale dell'individuo, inteso come un qualcosa del tutto indipendente dall'aspetto fisico. Il ritratto pare eseguire l'effigie del sentire umano, di ciò che va al di là dell'individualità fi­sica, per rendere, al contrario, quanto è comune a tutti, o quasi. Klee, ad esempio, afferma che se avesse dovuto dipingere <<un autoritratto assolutamente vero, si ve­drebbe uno strano guscio e, dentro - ma bisognerebbe spiegarlo a tutti - me ne sta­rei io>>. Una parte della pittura, in questo senso, ha demandato alla fotografia l'atto di ritrarre l'involucro, non perché voglia, dopo un secolo ormai, riaccendere le antiche polemiche, ma perché una parte della fotografia artistica, e soprattutto l'impiego della fotografia, assieme allo stesso cinematografo ed in seguito alla te­levisione, come un enorme mezzo di diffusione di massa (e non certo solo per l'uso di tessere fotografiche o simili), propone in continuazione un esorbitante numero di ritratti. Ritratti dei quali ci si è accorti presto non essere poi così veritieri né nella rassomiglianza fisionomica, né in special modo nella corrispondenza tra ciò che l'"immagine" comunica, o vuole comunicare, e ciò che si nasconde dietro ad essa. Si è capito che anche nel  ritratto, nella logica della civiltà del consumo, quello che veramente conta è, appunto, solo l'immagine, ottenendo così, se si vuole, la completa distruzione del ritratto attraverso il doppio della sua riproduzione oppor­tunistica. Autore della riproduzione opportunistica è il medium che produce l'imma­gine, ed in ciò che l'immagine dove comunicare il vero messaggio è proprio il me­dium, cioè il medium non fa che comunicare sé stesso (Mc Luhan). Infine, bisogna constatare, ed accettare, che non basta prend­ere coscienza di questo fenomeno e rea­gire in un modo più o meno drastico, come ad esempio fece la Pop art americana, per bloccare l'inevitabile alterazione percettiva della nostra capacità fisica di vedere causata dal continuo uso dei nuovi mezzi di comunicazione.

  Roy Lichtenstein si oppone al processo di mercificazione dell'immagine facendo e­sattamente l'inverso di ciò che fa la catena di produzione delle immagini stesse: in quest'opera parte dalla figura di donna di un fumetto (un ipotetico ritratto di una donna qualsiasi, scaturita dall'intera avventura narrata nel fumetto e non dalla singola immagine), cioè il prodotto finito del ciclo di produzione seriale, e la in­grandisce riproducendola a mano ed imitandone la tecnica tipografica. In questa ope­razione, è sintomatico come Lichtenstein ricorra alla fotografia, o meglio, alla diapositiva, della quale spesso si serve per proiettare l'immagine sulla superficie dei suoi dipinti e ricopiarne il disegno. Comunque sia, egli recupera l'immagine ar­chetipa sottraendola al normale consumo che ne fa la società di massa. Gli scopi che si prefigge con questa operazione sono molteplici. Forse il più importante è il sug­gerimento dato al consumatore cercando di fargli capire che a lui, più che all'arti­sta, è ancora riservato il potere di fruire esteticamente dei prodotti dell'indu­stria; di quei prodotti che sono per natura standard, che hanno tutti il medesimo valore e dei quali nessuno nasce privilegiato, a meno che non lo voglia il consuma­tore. Ma questo rischia di diventare anche un'estrema forma di accettazione della logica alla quale ci si voleva sottrarre, finendo col fare cultura di massa, di op­posizione sì, ma prevista ed autorizzata dal sistema.

 

31) - ANDY WARHOL, Marilyn Monroe, 1964, serigrafia, New York, Collezione Leo Ca­stelli.

  Anche Andy Warhol si inserisce, in termini profondamente diversi e talvolta anti­tetici rispetto a Lichtenstein, nel problema dell'importanza e del ruolo svolto dall'immagine nella società del consumo. I circuiti d'informazione di massa (pubbli­cità, giornali, televisione, ecc.) ci propinano senza tregua continue immagini, im­magini di ciò che, in gergo giornalistico, "ha fatto notizia". Ce le fanno vedere migliaia e migliaia di volte, cosicché entrano a far parte della nostra memoria in­conscia e noi arriviamo a riconoscerle senza osservarle. Quasi sempre intaccano la nostra memoria per breve termine, altrimenti fuoriuscirebbero dalla logica del con­sumo. Ciò non impedisce che vengano, però, mitizzate, anzi renderle un mito è vera­mente quello che conta: magari per una sola ora, ma un qualcosa che viene fatto ap­parire importante è un qualcosa che si vende. Per questo, nei  circuiti dell'infor­mazione, tutto diventa notizia: dall'incidente stradale all'assassinio in diretta di Kennedy, dalla lattina della Coca-cola al volto di Marilyn Monroe. L'importante è che ad una notizia ne segua subito dopo un'altra, presentata con altrettanta enfasi, per evitare il formarsi di giudizi: il giudizio dà o toglie valore, e questo può fermare il consumo. Andy Worhol blocca il consumo delle immagini prelevandole dai circuiti dell'informazione e presentandole logore, sfatte, "consumate" e magari os­sessivamente ripetute in serie sulla superficie del quadro, come succede nella vita di tutti i giorni. Non fa il ritratto a Marilyn Monroe, ma si serve del ritratto della sua immagine, saldamente stampato nella nostra memoria, al pari di un qualsia­si altro bene di consumo. Come tale lo semplifica, e ne esalta formalmente e colori­sticamente ciò che lo rende un archetipo subito riconoscibile. Lavora sull'immagine portandovi quanto si è impresso di essa nel nostro inconscio  e ri-assegnadola alla sfera della coscienza mettendola a nudo. Riscatta così l'immagine mercificata di Ma­rilyn Monroe dal meccanismo del consumo attribuendole valore estetico.

 

32) - MIMMO ROTELLA, Marilyn, 1963, collage, cm 190 x 132.

  Come i due artisti americani su visti, anche Mimmo Rotella si serve della fotogra­fia in una delle sue più diffuse applicazioni, la riproduzione foto-litografica pub­blicitaria, per riscattare il valore estetico dell'immagine dai meccanismi della ci­viltà del consumo. I lacerti dei manifesti e dei cartelli pubblicitari strappati, che si possono vedere su tutti i muri delle città, non fanno altro che testimoniare la nostra consapevolezza, attraverso un gesto inconscio, lo strappo, della provviso­rietà e precarietà delle immagini che ci vengono imposte dalla società del consumo. Ciò che di loro rimane dentro di noi può essere paragonato a questa stratificazione di cartelloni incollati uno sull'altro e poi strappati. L'intento informativo-consu­mistico dell'immagine vivace ed effimera viene pertanto automaticamente vanificato dall'uomo moderno, in quanto in essa appare alla fine solamente un miscuglio di frammenti di notizie, che tra loro non hanno alcun rapporto o nesso. Mimmo Rotella, con i suoi décollage, rivaluta così l'immagine consumistica tornando a darle capa­cità estetica, perché ormai essa è stata privata della sua funzione pubblicitaria. Il ritratto di Marilyn Monroe, allora, riappare come il ritratto della persona vera che sta dietro l'immagine, riuscita a sopravvivere alle spietate leggi del mercato quotidiano e passata alla storia.

 

33) - MARLENE DUMAS, Ritratto di Michael Jackson, Collezione privata.

  La società contemporanea dà talmente tanta importanza all'immagine esteriore ed ha talmente tanto condizionato il nostro modo di guardare, che ha creato veri e propri ideali astratti del bello e della presentabilità. I mezzi d'informazione entrando ovunque, in ogni casa, attraverso i più diversi canali, mettendo in continua prova la nostra capacità di confronto tra quello che esiste nella realtà e quello che esi­ste nella finzione, così da far sì che i confini tra le due diventino sempre meno distinguibili. Alla fonte, l'industria dell'immagine si serve di mezzi sempre più sofisticati per imporre un ideale perfetto dei valori speculativi della contempora­neità. Il canale principale attraverso il quale tutto viene filtrato è il computer. Le sue infinite possibilità di intervenire in modo diretto e indiretto sulla realtà, avvicinano il mondo civile sempre più alla realtà virtuale della onnipotente macchi­na. Alterando le nostre capacità visive secondo un modo di vedere che è il suo ed non quello naturale, la nuova macchina altera le nostre capacità percettive ed in­tacca in profondità il nostro essere uomini moderni. L'immagine impostaci fino a po­chi anni fa era artefatta in modo quasi manuale rispetto alle straordinarie capacità del computer di gestirne, in tutto, l'aspetto. Una delle caratteristiche peculiari della fotografia, dalla sua comparsa, era la fedeltà nel riprodurre la realtà, o un qualcosa che era pur sempre visibilmente reale, anche se passava attraverso il più sofisticato genere di manipolazione. Il mondo della cibernetica ha privato la foto­grafia di questa sua caratteristica: la modella che posa per una pubblicità, vede la sua immagine fotografica filtrata dal computer e corretta nei difetti fisici secondo il canone estetico che vuole essere imposto. Chi vive della propria immagine, e per la propria immagine, non può non seguire le stesse regole, stampate profondamente nel suo inconscio, intervenendo chirurgicamente per mutare l'"epidermide" della pro­pria figura fisica. La Dumas, col Ritratto di Michael Jackson, mostra uno dei casi emblematici di questo processo di mutazione nella fisicità della persona. Lo mostra attraverso la sua maschera di cera fondente e fa sentire tutta la mostruosa altera­zione a cui rischiano di andare incontro coloro i quali entrano nel circuito dell'immagine virtuale proposta dalla cibernetica.

  

ELENCO DELLE OPERE CITATE NEI TESTI: 

- 1) - SANTA SINDONE, lenzuolo di lino, cm. 436 x 110, Torino, Cappella della Santa Sindone (Bolaffiarte, p.11).

- 2) - PIERO DELLA FRANCESCA, Dittico dei duchi di Urbino, ritratto di Battista Sforza e Federico II da Montefeltro, 1465, tavola, cm. 47 x 33, Firenze, Uffizi (Del Buono, p. 100, tavv. LX, LXI).

- 3) - GIORGIONE, Ritratto di donna (Laura) (part.), 1506, olio su tela da tavola, cm. 41 x 33,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum (Pignatti, p. 27).

- 4) - ALBRECHT DÜRER, Disegnatore che ritrae un uomo, 1525, xilografia (Combatti­mento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 5) - BRONZINO, Ritratto di Ugolino Martelli, 1535 c., olio su tavola, cm. 102 x 85, Berlino, Staatliche Museen (Argan, 1988, p. 125, fig. 180).

- 6) - VERMEER, Astronomo, 1668 (?), olio su tela, cm. 50,8 x 46,3, Parigi, Colle­zione Rothschild (?) (Ungaretti, p. 96, tav. XLII).

- 7) - HONORE' DAUMIER, Fotografia. Nuovo procedimento, 1856, litografia (Scharf, p. 35, fig. 8).

- 8) ANONIMO, ritratto, 1845, dagherrotipo (Scharf, p. 45, fig. 14).

- 9) - INGRES, Ritratto della contessa d'Haussonville, 1845, olio su tela, cm. 136 x 92, New York, Frick Collection (Radius, p. 112, tav. IL).

- 10) - EUGéNE DURIEU, Studio di figura dall'album di Delacroix, 1853 c., fotografia (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.);  EUG+NE DELACROIX, Odalisca, 1857, olio su tavola, cm. 30 x 35, Londra, Collezione Stavros Niarchos (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 11) - NADAR, Ritratto di Charles Baudelaire, 1859, fotografia (Scharf, p. 62, fig. 29); EDOUARD MANET, Ritratto di Charles Baudelaire, 1865, acquaforte (Scharf, p. 62, fig. 30).

- 12) - NADAR, Ritratto di Sarah Bernhardt, 1859, fotografia (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 13) - DISDERI, Carte-de-visite, 1860 c., fotografia, Rochester, George Eastman House (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 14) - DISDERI, Carte-de-visite del principe  e della principessa di Metternich, 1860 c., fotografia (Scharf, p. 195, fig. 129); EDGAR DEGAS, Ritratto della princi­pessa di Metternich (Scharf, p. 195, fig. 130).

- 15) - TOULOUSE-LAUTREC, Ritratto del signor Fourcade, 1889, olio su cartoncino, cm. 77 x 63, San Paolo, Museo de Arte (Caproni, p. 102, tav. XI).

- 16) - LUIGI MONTABONE, Ritratto di Amedeo di Savoia, 1880 c., fotografia colorata (Fotografia Italiana dell'Ottocento, p. 101).

- 17) - ANONIMO, Loïe Fuller, 1895-1900 c., fotografia (Lara-Vinca Masini, p. 52, fig. 113).

- 18) - HEINRICH KÜHN, Lotte mentre coglie un fiore, 1910 c., fotografia, Parigi Musée d'Orsay (Vienne 1880 - 1938, L'Apocalypse Joyeuse, p. 379).

- 19) - GUSTAV KLIMT, Giuditta (I), 1901, olio su tela, cm. 84 x 42, Vienna Öster­reichische Galerie (Dobai, p. 98, tav. XVIII); STUDIO D'ORA, Danzatrice, 1923, foto­grafia, Vienna Collezione privata (Vienne 1880 - 1938, L'Apocalypse Joyeuse, p. 383).

- 20) - ETIENNE-JULES MAREY, Un pugile inglese, 1880-1890, cronofotografia (Scharf, p. 271, fig. 181).

- 21) - MARCEL DUCHAMP, Marcel Duchamp che scende una scala, 1912, cronofotografia (Argan, p. 526, fig. 577); MARCEL DUCHAMP, Nu descendant un escalier, n. 2, 1912-1916, acquerello, inchiostro, matita e pastello su carta fotografica, cm. 147 x 89, Philadelphia, Museum of Art (Argan, p. 527, fig. 578).

- 22) - PABLO PICASSO, Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, olio su tela, cm. 92 x 65, Mosca, Museo Puschkin (Martini, p. 44, tav. XVIII).

- 23) - ANTON GIULIO BRAGAGLIA, Balla in sequenze dinamiche davanti al suo quadro "Dinamismo di un cane al guinzaglio", 1911, fotografia (Scharf, p. 282, fig. 197).

- 24) - DU HAURON (e altri), Trasformismo: serie di ritratti, 1889, fotografia (Scharf, p. 246, fig. 167).

- 25) - BLOUNT, Ritratti e natura morta, 1873, pittura e fotomontaggi (Scharf, p. 293, fig. 208); MARC CHAGALL, Io e il villaggio, 1911, olio su tela, New York, Museum of Modern Art (Faustinelli, p. 61).

- 26) - MAN RAY, Attaccapanni, 1920, mm. 180 x 295, fotografia (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 27) - ETIENNE-JULES MAREY, Traiettoria di un movimento lento, 1885, fotografia stereoscopica (Scharf, p. 321, fig. 242); PAUL KLEE, Il buffone beffato, 1930 (Scharf, p. 321, fig. 243).

- 28) - MAN RAY, Solarizzazione, 1931, mm. 190 x 250, fotografia, Parigi, Bibliot­hèque Nationale (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 29) - ANDRE' KERTESZ, Distorsione n. 47, 1933, fotografia (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.); FRANCIS BACON, Ritratto di un uomo d'affari, 1953, trittico, olio su tela, cad. cm. 61 x 51, Torino, Collezione privata (Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, p. s. n.).

- 30) - ROY LICHTENSTEIN, Ragazza al pianoforte (part.), 1963, New York, Collezione H. N. Abrams (Faustinelli, p. 157).

- 31) - ANDY WARHOL, Marilyn Monroe, 1964, serigrafia, New York, Collezione Leo Ca­stelli (Argan, p. 743, fig. 906).

- 32) - MIMMO ROTELLA, Marilyn, 1963, collage, cm 190 x 132 (Argan, p. 741, fig. 904).

- 33) - MARLENE DUMAS, Ritratto di Michael Jackson, Collezione privata (Panzeri, p. 9).

  

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA 

ALBERTO MARTINI, Picasso e il Cubismo, Milano, 1967.

ORESTE DEL BUONO, L'opera completa di Piero della Francesca, Milano, maggio 1967.

GIUSEPPE UNGARETTI, L'opera completa di Vermeer, Milano, agosto 1967.

EMILIO RADIUS, L'opera completa di Ingres, Milano, aprile 1968.

TERISIO PIGNATTI, Giorgione, Milano, 1969.

GILLO DORFLES, Fotografia, in "Enciclopedia Universale dell'Arte", vol. V, Firenze, 1972 (rist.).

LIONELLO VENTURI, Giorgione, in "Enciclopedia Universale dell'Arte", vol. VI, Firen­ze, 1972 (rist.).

AA. VV., Ritratto, in "Enciclopedia Universale dell'Arte", vol. XI, Firenze, 1972 (rist.).

HORST GERSON, Vermeer, in "Enciclopedia Universale dell'Arte", vol. XIV, Firenze, 1972 (rist.).

Combattimento per un'immagine / Fotografi e pittori, catalogo a cura di DANIELA PA­LAZZOLI e LUIGI CARLUCCIO, Torino, Galleria Civica d'Arte Moderna, marzo - aprile 1973, Torino, 1973.

KENNET CLARK, Il paesaggio nell'arte, Milano, 1973.

LARA-VINCA MASINI, Art Nouveau, Firenze, 1976.

GIUSEPPE LUIGI MARINI, La foto piùantica della storia, in "Bolaffiarte - Fotografia 1977", supplemento al n. 70, Torino, maggio - settembre 1977.

GIORGIO CAPRONI, L'opera completa di Toulouse-Lautrec, Milano, agosto 1977 (rist.).

CARLA MANENTI, NICOLAS MONTI e GIORGIO NICODEMI, Luca Comerio fotografoe cineasta, Milano, 1979.

AARON SCHARF, Arte e Fotografia, Torino, 1979.

Fotografia Italiana dell'Ottocento, catalogo a cura di AA. VV., Firenze, Palazzo Pitti, ottobre - dicembre 1979, Venezia, Ala Napoleonica di Palazzo Correr, gennaio - marzo 1980, Firenze, 1979.

GIULIO CARLO ARGAN, L'arte moderna 1770 / 1970, Firenze, 1981 (rist.).

JOHANNES DOBAI, L'opera completa di Klimt, Milano, marzo 1981 (rist).

MARIO FAUSTINELLI, Il XX Secolo, Milano, 1983.

Vienne 1880 - 1938, L'Apocalypse Joyeuse, catalogo a cura di AA. VV., Parigi, Centre Pompidou, 1986, Parigi, 1986.

D'Annunzio e la promozione delle arti, catalogo a cura di ROSSANA BOSSAGLIA e MARIO QUESADA, Gardone Riviera, Villa Alba, 2 luglio - 31 agosto 1988, Milano-Roma 1988.

GIULIO CARLO ARGAN, Storia dell'Arte Italiana, vol. III, Firenze, 1988 (rist.).

Arte Italiana - Presenze 1900-1945, catalogo a cura di PONTUS HULTEN e GERMANO CE­LANT, Venezia, Palazzo Grassi, estate 1989, Milano 1989.

BILL GATES, Addio Gutenberg, benvenuto mister Gatesberg!, in "Il Giornale dell'Arte", marzo 1995, pp. 50, 51.

ALESSANDRA MOTTOLA MOLFINO, Attenzione a mitizzarlo: il multimedia può essere leta­le, in "Il Giornale dell'Arte", supplemento speciale Il Gionale dei Libri, dicembre 1994.

LIDIA PANZERI, Biennale di Venezia - Il centenario bello e impossibile di Jean Clair, in "Il Giornale dell'Arte", aprile 1995, p. 9.

 

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