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Rino Bordignon, una promessa mancata

di Marco Mondi

 

(da MARCO MONDI, Noè Bordignon: la tradizione nella geniale rappresentazione del Realismo veneto del nostro entroterra, Rino Bordignon, una promessa mancata e Luigi Stefani (1899 - 1987), in San Zenone degli Ezzelini Terra di Artisti, catalogo a cura di Comitato San Zenone Terra d’Artisti e Gruppo d’Arte Noè Bordignon, San Zenone degli Ezzelini, Villa Marini-Rubelli, 16 settembre 2011 – 8 gennaio 2012, Ramon di Loria, 2011, pp. 170-175)

  

Scrivere sulla personalità artistica di Lazzaro Bordignon, famigliarmente chiamato Rino, non è cosa facile. Innanzitutto perché è morto giovanissimo, all’età di sedici anni, nel 1906, non avendo quindi avuto il tempo di maturare un proprio linguaggio figurativo; poi, perché le opere a lui ascrivibili con certezza sono assai poche.

Nel 1907, in sua memoria, il Comune di Castelfranco gli ha allestito una mostra, per la quale Luigi Pellizzari fu incaricato di dedicargli un libello con un Discorso inaugurale per l’apertura dell’Esposizione dei lavori di Rino Bordignon che, nonostante sia più letterario che storico-critico, rappresenta una fonte piuttosto attendibile sul suo operato, in grado di fornirci utili indicazioni e un elenco di sue opere. Mentre si presenta decisamente letterario-commemorativa un’altra pubblicazione (Padre GARABED DER SAHAKIAN, Il piccolo pittore, in “Bazmaveb”, Venezia, 1907) fatta su una rivista dei Padri Armeni, in armeno, voluta per far sentire la vicinanza affettiva di questi al padre Noè, a cui il testo è dedicato, per il quale la morte del figlio adorato fu una vera tragedia. Sicuramente più interessanti sono alcuni scritti dello stesso Rino (fatti sotto forma di temi o presunte bozze di possibili lettere), nei quali il ragazzo si mostra dotato di una particolare sensibilità verso l’arte, di una discreta preparazione storico-artistica e di una forte vocazione per la pittura, che certo gli fu trasmessa dal padre (particolarmente toccanti, sono le amarezze provate da Rino nei confronti dei dispiaceri sopportati dal padre per “gelosie” di vario genere, antagonismi, resistenze e contrasti avuti col mondo ufficiale della cultura artistica dell’epoca). In uno di questi scritti, di fatto, si può leggere: «Saprai che mio padre fa l’artista, ebbene, il suo amore per l’arte si trasfuse anche in me, poiché ricordo d’esser sempre stato appassionato del dipingere. La vera arte è ardua, chi la percorre dovrà soffrire tante amarezze che vengono ricompensate però da soddisfazioni grandissime».

Abbiamo detto che le sue opere sono poche, sebbene sia sensato pensare che egli ne abbia dipinte ben più di quelle oggi conosciute. A leggere i suoi scritti, infatti, s’intuisce una tale passione per la pittura che certo dovette aver preso forma pratica in ben più numerosi lavori (a parte Un Idillio - tav. xx -, infatti, ultimo lavoro di Rino che si conserva nella Civica Raccolta Museale di Castelfranco, anche il testo stesso del Pellizzari cita altre opere non rintracciate: Il guado, uno studio dal vero; Un tramonto alpestre, la sua prima opera; una testa di donna riferita a Matelda; L’elemosina; un gran Cristo della chiesa dei Frari ai cui piedi sta una popolana che prega; Ultimo bozzetto, un piccolo dipinto avente come soggetto l’apparizione ad Aristodemo, re della prima guerra messenica contro gli Spartani, dello spettro della figlia). E, a tal riguardo, non è da escludere che certe opere deboli comunque generalmente ascritte a Noè Bordignon, sia dipinti sia disegni, possano essere state eseguite da Rino, almeno in parte. Così come, nelle opere di Noè Bordignon dei primissimi anni del secolo, vi possano essere delle parti secondarie dipinte dal figlio. È ragionevole supporre, invero, che Noè iniziasse il figlio alla pittura affidandogli i compiti di quello che era il garzone nelle antiche botteghe degli artisti, facendogli metter mano alla preparazione della tela, ai fondali o a particolari di secondo piano sui quali poi lui interveniva con una sorta di ultima mano. D’altra parte, lo stesso Bordignon può aver dato qua e là dei tocchi di qualità alle opere finite di Rino, per insegnargli come il lavoro dovesse essere fatto. L’Autoritratto pubblicato al catalogo n. xx, inoltre, ha fatto sorgere a noi stessi il dubbio che si potesse trattare di un’opera di Noè, per la sua buona qualità. Tuttavia, la mancanza di quell’impasto di colore fatto di velature e amalgamarsi di materia cromatica tipica delle opere del padre, specie di quegli anni, e, al contrario, la presenza di un risultato pittorico che vuole imitare, ma solo in superficie, vale a dire nel suo aspetto finale, proprio quel modo di dipingere, ci ha spinti ad attribuire l’opera con più sensatezza al figlio. Anche il Ritratto del figlio Rino (tav. xx) ha inizialmente presentato problemi attributivi, soprattutto per vecchi riferimenti di famiglia, ma opposti rispetto al caso precedente, vista la sua alta qualità e la presenza di quell’amalgamarsi per velature degli impasti cromatici che danno volume, profondità e consistenza alla forma, tipico del padre. Allo stesso modo, anche alcuni disegni hanno fatto sospettare la possibilità che siano stati eseguiti o dall’uno o dall’altro, o dal figlio con interventi del padre. Il rinvenimento del prezioso album (tav. xx) conservato in collezione privata, i cui disegni sono per gran parte sicuramente attribuibili al figlio (anche per la presenza di sue numerose firme), è stato di enorme aiuto per chiarire il ductus del segno grafico di Rino rispetto a quello del padre, il quale pur assomigliandovi molto, si mostra caratterizzato da un più insistente ritorno del tratto in una composizione rappresentativa, nella prevalenza di particolari scelte tematiche, talvolta incerta ed elementare che, rispetto al tratto sicuro, deciso e spesso sintetico di Noè, ne ha evidenziate le differenze qualitative e, quindi, di personalità.

L’avere avuto un vero grande artista come padre e come maestro, ha certo notevolmente avvantaggiato Rino Bordignon. Sin dai suoi primi lavori, infatti, probabilmente realizzati a Venezia, prima cioè del definitivo trasferimento in terraferma (tra Castelfranco e San Zenone) della famiglia, av­venuto nel 1903, si sente una notevole affinità di stile e di tematiche con le opere del padre, sebbene nei soggetti trattati spesso prevalgano quelli di storia e di battaglie, come si riscontra in particolar modo nel su menzionato album di disegni; ma ciò non stupisce considerando la giovanissima età del pittore. Al di là di questi, che riportano comunque nel segno grafico, con le differenze appena dette, l’impronta e gli insegnamenti del padre, nei due ritrattini Venier (tavv. xx e xx) della Civica Raccolta Museale di Castelfranco, datati rispettivamente 1900 e 1901, quindi eseguiti a poco più di dieci anni d’età, pur nella loro timidezza espressiva nel descrivere i tratti delle effigiate, vi traspaiono un senso d’indagine psicologia e di sentimento di verità che sono gli stessi di quelli che danno vita ai ritratti del padre. La stessa vibrazione cromatica, poi, si riscontra nel modo di impastare gli incarnati e di pennellare le vesti e lo sfondo con effetti di partecipata emozione luministica. Ancor più nei ritratti alle tavv. xx e xx, velocemente abbozzati e non finiti, la materia cromatica è stesa con quelle modulazioni di luce che in questi anni caratterizzano tante opere di Noè, così come, ancora una volta, la verità rappresentativa del soggetto trattato può a buon diritto essere fatta rientrare nelle espressioni del tardo realismo veneto che a cavallo del secolo tentavano un aggiornamento nella direzione francese o del simboleggiare mitteleuropeo. Mentre nel piccolo dipinto della Ragazza al balcone (tav. xx), un’impronta romantico-decadente carica di sentimento l’animo della ritratta che, per studiato contrasto cromatico, è posta leggermente in ombra rispetto al dorato tramonto che incendia il cielo, facendolo diventare un’opera ben riuscita sia sotto il profilo compositivo quanto sotto quello pittorico. L’Autoritratto (tav. xx), probabilmente modellato sull’esempio del Ritratto del figlio Rino (tav. xx) disegnato dal padre, dal quale ne riprende anche i cangiantismi luministici, ci mostra come il giovane pittore abbia saputo raggiungere una scioltezza pittorica davvero ammirevole, che ha fatto sorgere i dubbi attributivi cui s’è fatto cenno. Se, infine, il crepuscolare e disinvolto nella pennellata Sottobosco riprodotto alla tav. xx tradisce un particolare amore per la pittura di paesaggio, Un idillio (tav. xx), suo ultimo lavoro, che Noè Bordignon volle donare nel 1907 all’allora esistente Museo di Castelfranco, rappresenta davvero un saggio di ben riuscita pittura paesaggistica, velocemente risolto in una felice sinfonia di verdi che vanno a modellare con una pennellata rapida, veloce e pastosa il sinuoso ondulare della pendice collinare dove, sotto lo sfumare di un cielo vibrato di luce dal grigiore biancastro delle nuvole, le due contadinelle, quasi come due ninfe della mitologia classica, vivono in un’armonia pastorale con la natura tanto amata che le circonda, da comprendere in tutto quanta passione per le cose vere e genuine il padre Noè sia stato in grado di trasmettere al figlio.

La sua precoce morte, causata da un violento attacco di tifo e giunta il 7 settembre 1906, dopo averlo costretto a letto per due anni (Luigi Dal Bello, 1982), pose fine a una carriera artistica piena di promesse, lasciando nei famigliari, negli amici e nei conoscenti un vuoto profondo.

 

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