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ELENCO DIPINTI, IN VENDITA E NON IN VENDITA, A DISPOSIZIONE DEGLI STUDIOSI

 

Galleria d’Arte ed Antiquariato

 

COMUNE DI RIESE PIO X

FONDAZIONE GIUSEPPE SARTO – PARROCCHIA DI RIESE PIO X

 ASSESSORATO ALLA CULTURA – PRO LOCO RIESE

  

 APPUNTI PER LE LEZIONI DI STORIA DELL’ARTE LOCALE

PER IL CORSO SERALE DI COLLABORATORI TURISTICI

TENUTE IN OCCASIONE DEL  GIUBILEO DEL 2000

  

GIUGNO 2000

   

ITINERAIO STORICO-ARTISTICO DI RIESE PIO X

di Marco Mondi

  

RIESE PIO X 

- CHIESA  PARROCCHIALE DI SAN MATTEO: - architettura;

- opere conservate.

 - VILLA GRADENIGO VENIER, ora EGER: - architettura.

 - CASA NATALE DI GIUSEPPE SARTO: - opere conservate.

 - altri luoghi da citare: - Casa Costanzo.

- Monumenti dedicati a Pio X.

 

LE CENDROLE

 - SANTUARIO  DI SANTA MARIA ASSUNTA: - architettura;

- opere conservate.

  

POGGIANA 

- CHIESA  PARROCCHIALE DI SAN LORENZO: - architettura;

- opere conservate.

  

SPINEDA 

- CHIESA PARROCCHIALE

  DEI SANTI ANTONIO ABATE, GIROLAMO E LUCIA: - architettura;

- opere conservate.

 

VALLA’ 

- CHIESA  PARROCCHIALE DI SAN GIOVANNI BATTISTA: - architettura;

- opere conservate.

- ORATORIO DI CA’ EMILIANI  (dedicato a San Girolamo Emiliani): - architettura.

  

 

RIESE PIO X

Prima di parlare della Chiesa di San Matteo o delle altre architetture di Riese Pio X (e questa premessa la si può fare anche per quel che concerne alcune architetture settecentesche delle frazioni), vale la pena, in questo contesto, di soffermarsi velocemente su alcune considerazioni circa l'importanza dell'attività edilizia settecentesca nel nostro territorio. A Riese, come d’altronde a Castelfranco e in altri centri veneti, il secolo XVII non portò grandi rinnovamenti di carattere architettonico-urbanistico, se non sostanzialmente, a parte alcune eccezioni, la conclusione, o il protrarsi, di interventi iniziati in precedenza. Durante il secolo XVIII, invece, anche nel nostro territorio si assistette ad importanti ri-sistemazioni tanto a livello architettonico quanto urbanistico, che hanno contribuito grandemente a dare alle nostre località per buona parte il volto che tutt’oggi continua a caratterizzarle. Per Riese, non è assolutamente marginale la sua vicinanza con Castelfranco. E a Castelfranco il XVIII secolo fu il secolo dei Riccati e del “cenacolo” cultural-artistico che attorno a loro si formò proprio sulla base delle volontà “illuminate” dei componenti di quella famiglia e di coloro che attorno ad essa operarono; volontà che diedero alla città ha un nuovo forte impulso edilizio. Per dare un'idea di quanto si è costruito e di quanto generalmente è debitrice pure una cittadina di provincia come Castelfranco all'ondata edilizia portata dal secolo dei lumi (e, attorno a Castelfranco, sugli stessi stimoli si mosse anche Riese, che del suo mandamento territoriale faceva parte), proviamo solo a fare un elenco dei principali interventi: il Duomo, l'Oratorio del Cristo (antica sede della Fraglia dei Battuti, di origine gotica, radicalmente ristrutturata nella fine del sec. XVII e, la sua facciata, nel Settecento), l'ex Villa Barbarella, il Teatro Accademico, l'Ex Palazzo Duodo (ristrutturato), l'ex Casa domenicale Rizzetti, l'ex Palazzo Soranzo Novello (ristrutturato), l'ex Palazzo Pulcheri (ristrutturato), la Chiesa di S. Maria Nascente della Pieve Nuova (preesistente alla fondazione della città, detta "chiesa di fuori" dopo la costruzione del Duomo, fu interamente riedificata a partire dal 1777 su progetto iniziale di Giodano Riccati), la parte del Palazzetto dell'Ospedale di S. Giacomo Apostolo, il demolito Ospedale, la Chiesa, il Convento Servita ed il chiostro di S. Giacomo Apostolo (del Massari), l'ex Palazzo Riccati, ed altro ancora. Se andiamo ora a vedere le architetture che in questo secolo sorsero anche Riese, ci si può facilmente accorgere che, in modo più o meno diretto, vi è comunque un legame con i Riccati o con il loro cenacolo: si considerino solo le opere costruite su progetto di Francesco Maria Preti a Vallà, la Ca’ Amata di Giovanni Rizzetti, il santuario di Cendrole di Ottaviano Scotti o, ancora, le costruzioni innalzate o ristrutturate da Andrea Zorzi a Riese. Inoltre, ad andare a vedere l’origine sociale degli autori di queste opere, ci si accorge come, anche in ambito locale, si rifletta quella tendenza tipica del Settecento, almeno in una buona parte del territorio italiano, che vede dei nobili "dilettanti" dedicarsi all'architettura: tutti nobili eruditi che si dedicarono all'arte del costruire più per passione che per professione, facendola semmai, come il Preti, diventare una professione solo in un secondo momento. Ciò premesso, passiamo ora ad analizzare le principali architetture di Riese e di Cendrole, e le più importanti opere che in esse si conservano. 

Marco Mondi

  

CHIESA PARROCCHIALE DI SAN MATTEO 

Si sa che il nucleo cittadino più antico in origine gravitava attorno a Cendrole. Lo spostamento verso l’attuale centro storico cittadino, probabilmente per cause di tipo geografico, avvenne gradualmente col tempo, per dirsi completo solo verso il XV secolo. Comunque sia, in epoca ben più antica (VIII secolo), nelle vicinanze del castello feudale di Riese, ad opera dei monaci nonantolani (monaci benedettini provenienti dall’abbazia di Lovadina –Spresiano- e soggetti al monastero di Nonantola nei pressi di Modena), sorse una prima chiesa che fu dedicata a San Silvestro, la quale ebbe probabilmente la funzione di sostituire la diroccata e ormai abbandonata pieve di Cendrole. Come risulta da alcune documentazioni, prima del 1157 a quest’ultima chiesa ne fu affiancata un’altra nuova, dedicata all’evangelista San Matteo che, ricevendo nel 1280 il fonte battesimale delle Cendrole, fu destinata al “servizio dei vivi”, mentre quella di San Silvestro prevalentemente alle “funzioni dei defunti”. Come attesta la lapide tombale del pievano Andrea de Ziroldis, nel 1412 la chiesa di San Matteo era sicuramente chiesa parrocchiale e pieve, sostituendo oramai completamente la dignità delle Cendrole. Sicuramente riadattata e ristrutturata nel corso dei secoli, la chiesa di San Matteo, verso la metà del Settecento, doveva certo apparire piuttosto fatiscente e non più sufficiente all’aumentata popolazione. Nel 1764, infatti, fu demolita. L’architetto Andrea Zorzi, che risiedeva in Riese, fu incaricato di progettare la nuova chiesa, che sorse sulla stessa area. Nel 1777 il nuovo edificio doveva essere già pressoché compiuto, se in quell’anno fu consacrato dal vescovo Paolo Francesco Giustinian. Non molti anni prima, la famiglia di Andrea Zorzi aveva acquistato la villa Gradenigo Venier (ora Eger), dove, s’è già detto, risiedeva. Per la nuova dimora, lo Zorzi aveva già progettato lo scalone interno, aveva provveduto alla ri-sistemazione della facciata e aveva costruito le adiacenze; aveva così dato dimostrazione del suo talento come architetto. Fu quindi piuttosto naturale che, quando si decise di ricostruire la fatiscente vecchia chiesa di San Matteo, la commissione fosse affidata all’illustre concittadino, educatosi sotto gli insegnamenti del più famoso Francesco Maria Preti, del quale lo Zorzi può considerasi un allievo. La facciata della nuova chiesa, che si affianca al preesistente campanile, si presenta quasi come una semplificazione in leggerezza di quelle del Preti: un ampio basamento piatto, leggermente in aggetto, scandisce una superficie orizzontale in mezzo alla quale, rientrando, si apre l’alto portale sormontato da lunotto; sopra il basamento, a due a due, s’innalzano delle paraste di ordine corinzio che inquadrano rientranze modanate da riquadri esagonali oblunghi in senso verticale; in sommità, l’architrave gradualmente sporgente sorregge l’elegante timpano alle cui sommità acroteriali sono collocate le statue della Vergine e dei Santi Giuseppe e Matteo. L’elegante movimento della facciata, acquista delicata grazia dalla colorazione in marmorino bianco sul quale si disegnano le pallide tinte delle riquadrature e delle altre modanature. L’interno, come sottolinea la facciata stessa, è a pianta basilicale con un’unica navata, le cui pareti maggiori sono scandite da ampie arcate a tutto sesto (tre cappelle contenenti gli altari), rientranti con un certo plasticismo in profondità e poggianti su pilastri di ordine dorico, in mezzo alle quali s’innalza snella la parasta corinzia che arriva fino a sorreggere otticamente il robusto cornicione, al quale spetta il compito di regolare orizzontalmente il ritmo mosso del perimetro interno dell’edificio. Al di sopra del cornicione, in corrispondenza con le arcate sottostanti, si aprono i luminosi finestroni a lunotto e l’ampio soffitto. Il presbiterio, che si apre tra due rientranze laterali con l’arco trionfale, penetra in profondità ed in altezza al di là dei gradoni di rialzo, delimitati dalle originali balaustre, per concludersi nella curvatura dell’abside con catino, preceduto quest’ultimo dalle vele della volta a crociera. Il risultato, è un delicato meccanismo di forze armoniche e proporzionali, ispirate alla media armonica di Francesco Maria Preti, che il restauro, a cui la chiesa sta per essere sottoposta, dovrebbe saper ripristinare nella sua interezza per ritornare all’edificio la sua originaria genuinità. Come abbiamo visto con il Preti per la chiesa di Vallà, sicuramente spettano al disegno dello Zorzi anche molte delle decorazioni architettoniche, come quelle degli altari e del presbiterio o come, con ogni probabilità, quelle dello stallo ligneo, in origine decorato a finto marmorino, del coro.

L’interno della chiesa contiene preziose opere pittoriche, nonché altre opere interessanti come l’imponente ciborio dell’altar maggiore, di lapicida del XVIII secolo, ai cui lati sono oggi conservate due sculture in marmo eseguite nel 1910 a grandezza pressoché naturale da Francesco Sartor, che sono andate a sostituire due sculture lignee del Settecento, dipinte a finto marmo, conservate oggi in sacrestia (dove si conserva anche un bel crocifisso ligneo del Settecento) e raffiguranti gli stessi soggetti di San Silvestro e San Matteo, rispettivamente i santi a cui era dedicato l’antico sacello nelle prossimità del distrutto castello feudale e la nostra chiesa. Pregevole è anche il volto di San Bartolomeo (o San Matteo ?), opera in mosaico forse risalente al XVI secolo, che si trova ora collocata nella parasta interna di sinistra dell’arco trionfale. Tra i dipinti, di particolare pregio sono le opere di seguito descritte. Tra le più antiche, quella di Jacopo Palma il Giovane (Venezia, 1544 - 1628), raffigurante la Crocifissione, è collocata sulla parete di sinistra del presbiterio. Per quel che concerne il Palma, possiamo dire che molti furono i pittori che, tra gli ultimi decenni del secolo ed i primi di quello successivo, si ispirarono all'arte dei grandi maestri veneti del Cinquecento, carpendone, chi  più da uno, chi più da l'altro, la "maniera". Particolare menzione meritano i cosiddetti pittori delle "sette maniere", da come lì chiamò nel Seicento lo storico-erudita (ma anche pittore) Marco Boschini. In questi sette artisti, il Boschini vede i principali continuatori dei modi di dipingere di Tiziano, Tintoretto, Veronese e Bassano. Ognuno di loro dà, a seconda anche del momento, una sua interpretazione dell'arte dei maestri, continuandone gli stilemi ben dentro il Seicento. Tra questi, appunto, quello che certo appare tra i più dotati è Jacopo Palma il Giovane, allievo di Tiziano (finì la Pietà dell'Accademia di Venezia alla morte del maestro), il quale a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento svolse un’intensissima attività per numerose chiese e confraternite veneziane e dell'entroterra, partecipando anche alla decorazione di Palazzo Ducale dopo gli incendi degli anni Settanta. Legato quindi inizialmente ai modi di Tiziano (pur elaborati sulle esperienze fatte in Italia centrale da giovane), con l'andare del tempo si apre a soluzioni che sentono anche l'influenza degli altri maestri, e del Tintoretto primo fra tutti. La movimentata Crocifissione della chiesa di San Matteo, infatti, dipinta intorno al 1595, come precisa la Mason Rinaldi, dovrebbe provenire (1839) dal Deposito della Commenda di Malta di Montagnana ed evidenzia nella composizione richiami al Tintoretto, sebbene il suo fare pittorico tradisca sempre una spiccata componente tizianesca. Complessa è invece la vicenda attributiva della tela centinata raffigurante l'Annunciazione col Padre Eterno in gloria, conservata in origine nel primo altare di destra e oggi in sacrestia, giunta dalle giacenze delle pinacoteche e dei musei erariali di Venezia nel 1839, grazie all'interessamento del nobile veneziano (che fu anche pittore) Marco Alvise Bernardo e di Angelo Monico. Discussa è l'attribuzione (anche a causa del pesante restauro subito nell'Ottocento ad opera del pittore Paolo Fabris di Venezia, eseguito nel 1844), che sembra comunque escludere la mano del Palma a favore di Paolo Piazza (pittore nativo di Castelfranco Veneto). Tra l’altro, vi sono delle fonti che ricordano la firma del Piazza posta su questa tela. Tuttavia, l’attribuzione non può dirsi certa. Per il Settecento, le opere pittoriche indubbiamente di maggior valore sono i due ovali di Gaspare Diziani (Belluno, 1689 – Venezia, 1767), in origine conservate nella santuario di Cendrole, a questo donate dal cardinale Jacopo Monico il quale, a sua volta, le ebbe in dono da monsignor Woevich-Lazzari, parroco delle chiesa di San Luca in Venezia. Il Diziani, fa parte di quegli artisti formatisi sull'esempio e sugli insegnamenti dei tre grandi maestri veneti dell’epoca (Sebastiano Ricci, Piazzetta e Tiepolo); artisti che resero folta e fiorente la cosiddetta scuola veneziana dei "figuristi" e che furono talvolta ingiustamente considerati minori, sebbene i loro nomi ricorrano tanto spesso non solo nella città di Venezia e nel Veneto, ma anche fuori dei confini della patria, in quanto chiamati a lavorare presso le più note corti principesche d'Europa: in Inghilterra, in Russia, in Polonia, in Germania, in Spagna. Per citare solo i nomi dei principali, essi sono, oltre al nostro Gaspare Diziani, Giannantonio Guardi, Francesco e Giambattista Pittoni, Francesco Fontebasso, Giambettino Cimaroli, Jacopo Marieschi, Francesco Zugno, Jacopo Guarana, Antonio Molinari, Antonio Balestra, Giannantonio Pellegrini, Giambattista Crosato, il Cappella, i Maggiotto, il Bencovich, il Chiozzotto, fino alle ultime generazioni, che oltrepassano la fine del secolo, come il Bevilacqua e Giovanni Battista Canal (che vedremo attivo anche nella chiesa di Poggiana). Rappresentano pertanto, numericamente e qualitativamente, certo la schiera di artisti più importante dell’Europa del periodo. Tra essi, Gaspare Diziani ne è uno dei maggiori esponenti: lo si vede bene anche nelle due notevoli tele della chiesa di San Matteo, oggi conservate nelle brevi pareti ai lati dell’arco trionfale. Raffigurano la Cena in Emmaus e David riceve da Achimelec il pane di proposizione, e sono state eseguite probabilmente intorno al 1754, vicine cioè all'Annunciazione di Belluno e alla Pala di Elusone, e caratterizzate da una pennellata corposa e da un cromatismo acceso. Di una generazione precedente rispetto al Diziani è, invece, Gregorio Lazzarini (Venezia, 1655 – Villabona Veronese, 1730) il quale, formatosi frequentando anche l'accademia di Pietro Vecchia, fu particolarmente prolifico in territorio veneto tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo: ne è un gustoso esempio la tela raffigurante la Guarigione del cieco nato, che si conserva nella parete di destra del presbiterio, di rimpetto all’opera del Palma. Sempre nel presbiterio, al di là dell’altare maggiore, a destra, si conserva il ritratto del Cardinale Jacopo Monico, probabile opera di Alvise Marco Bernardo (Venezia, 1789 - 1868): il pittore fa il ritratto di Jacopo Monico, che indossa l'abito cardi­nalizio, cogliendo l'effigiato di mezzo busto ed in leggero scorcio. Il Monico, nato a Riese nel 1778 e morto nel 1851, oltre che prelato fu anche un letterato ed un umanista, ed ebbe pure una certa influenza in campo politico. Dapprima parroco di San Vito d'Asolo, divenne poi vescovo di Ceneda, e fu quindi cardinale e patriarca di Venezia. Il dipinto lo ritrae verosimilmente all'età circa di una cinquantina d'anni, pertanto la sua esecuzione può essere collocata nei primi an­ni Trenta del XIX secolo, probabilmente in concomitanza con la nomina stessa a cardinale, avvenuta il 29 luglio del 1833. Il ritratto fu forse eseguito a Venezia. Alvise Marco Bernardo, patrizio veneto, fu pittore ed architetto di­lettante. L’attribuzione è suffragata anche dal confronto con un dipinto, pressoché identico al nostro, conservato nella chiesa parrocchiale di San Vito d'Asolo. Un altro dipinto analogo si conserva nella Civica Raccolta del Comune di Castelfranco Veneto. Sempre nel presbiterio, di rimpetto all’effigie del Monico, è collocato il ritratto di Giuseppe Sarto in veste ancora cardinalizia, opera dipinta, per quel che è possibile giudicare a distanza, nel gusto del Bordignon. Il riquadro del soffitto della chiesa era decorato con un affresco di Luigi Serena (Montebelluna, 1845 - 1911) che, purtroppo, alcuni decenni fa si staccò andando così distrutto.

Nell'ambito forse di Giovanni Antonio Pellegrini (Venezia, 1675 - 1741), e in ogni caso all'interno della pittura veneta del Settecento, può essere collocata anche la tela con San Matteo, conservata nella canonica della stessa chiesa assieme ad altre opere di minor importanza artistica. 

 Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

  

VILLA GRADENIGO VENIER, ora EGER

 La villa, in origini d’impianto cinquecentesco, sorge sull’area dell’antico castello feudale di Riese ed è oggi adibita a municipio. Come abbiamo già detto, verso la metà del Settecento fu acquistata dai conti Zorzi di Padova e quindi, ad opera di Andrea Zorzi, risistemata. La forma quadrata dell’edificio originario fu arricchita sulla sua facciata, anche per stabilire un collegamento di maggior respiro tra architettura ed ambiente circostante, con un’ampia finestra serliana con terrazzino a balaustre, ispirata al modello di Sebastiano Serio (architetto e trattatista del XVI secolo che la desunse a sua volta da alcuni tipi di aperture del tardo impero romano), caratterizzata da tre aperture, la centrale ad arco e le laterali con architrave. Al suo interno, Andrea Zorzi progettò anche un pregevole scalone che dalla sala del piano terra sale con una vasta rampa che si biforca in direzione opposta in corrispondenza del pianerottolo posto a metà del percorso. Il Milizia (teorico e scrittore d’arte del Settecento) ricorda come questa scala si ispiri a quella in palazzo Dottori a Padova.

Opera costruita su progetto di Andrea Zorzi è anche l’attigua barchessa della villa, purtroppo devastata quasi in toto da un disastro e barbarico intervento fatto non molti anni fa. L’ultimo restauro ha cercato lodevolmente di restituire l’antica dignità dell’edificio ricostruendola com’era in origine; tuttavia oggi ci si trova praticamente di fronte ad un totale rifacimento, che dà solo l’idea di ciò che era un tempo. Impostata sul modello della palladiana villa Emo di Fanzolo, così la ricorda il Bordignon Favero: <<Si tratta di un ampio e rettilineo edificio con consueto porticato davanti e dimore retrostanti, distribuito con criterio simmetrico di due ali finestrate che si raccordano ad un frontespizio templare tetrastilo, ionico, sormontato da frontone (nel cui campo vi è lo stemma degli Zorzi), concluso agli estremi da due archi simmetrici, serrati da paraste ioniche e sormontati da piccolo frontone. I due archi acconsentono una appendice continuata del muro di frontespizio con altre due finestre per ogni verso>>.

 Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

 

 CASA NATALE DI GIUSEPPE SARTO

 La modesta, tuttavia non misera per l’epoca, dimora di Giuseppe Sarto è oggi adibita a piccolo museo dedicato a Pio X, dove si conservano gli arredi e le suppellettili originali della famiglia del santo papa e dove, nel retrostante cortile, è stato eretto un sacello in cui sono custodite varie testimonianze legate all’illustre cittadino di Riese. Nella casa, subito a sinistra della porta d’ingresso, si conserva un bassorilievo raffigurante la madre di Pio X, opera dello scultore Francesco Sartor (lo stesso autore delle sculture oggi poste ai lati dell’altar maggiore della chiesa di San Matteo). Tra le opere custodite nel sacello, si ricorda velocemente la piacevole veduta di Riese Pio X, opera eseguita alla fine del secolo XIX e che potrebbe, dopo un attento studio, riservare piacevoli sorprese attributive (la posizione in cui è collocata, sopra la parte interna della porta d’ingresso, impedisce una esauriente lettura del dipinto); una folta schiera di ritratti, di qualità alterna, la maggior parte dei quali databile ai primi decenni del secolo scorso; un busto in marmo raffigurante il papa ed altre sculture in gesso, nonché numerose suppellettili e altre testimonianze. 

Marco Mondi

  

LE CENDROLE

SANTUARIO  DI SANTA MARIA ASSUNTA

 L’antichità di Cendrole ha origini romane. Il nome stesso viene da cinerulae, con allusione alla cremazione dei morti, pratica di origine pagana. Nel luogo dove sorge l’attuale santuario, risulta infatti, in età romana, esistere un culto dedicato alla divinità femminile Diana, vergine dea della caccia e delle selve (i dintorni di Cendrole erano un tempo caratterizzati dalla presenza di una folta vegetazione boschiva). A conferma di ciò, nel 1730, durante i lavori per la costruzione della nuova chiesa, fu rinvenuto un frammento di epigrafe marmorea (il cippo di Lucius Vilonius), che attesterebbe la volontà testamentaria di erigere in quel luogo un tempio dedicato alla dea Diana. Il passaggio, quindi, dal culto pagano a quello mariano in età cristiana troverebbe un’ulteriore giustificazione, considerando che, come precisa il Bordignon Favero, <<La dea vergine Diana, che nessun mortale può vedere nelle sua nudità, è anche la dea dei soldati… è chiamata con nome greco di Selène ed è raffigurata nel quarto della luna crescente, come più tardi ugual simbolo sarà specifico della Immacolata Concezione di Maria>>. L’originaria chiesa di Cendrole, dedicata a Santa Maria Assunta, è tra i più antichi istituti religiosi locali e rappresenta il primo nucleo cristiano di Riese. La pieve delle Cendrole ha la supremazia sulle chiese di Vallà e di Poggiana ma, probabilmente a causa del mutamento di alcune vie di comunicazione, quando il centro che gravita attorno all’istituto viene gradualmente a spostarsi verso l’attuale centro storico di Riese, anche la chiesa (e la località) di Cendrole perde gradualmente la sua supremazia, fino a che, nel 1550, sarà privata di ogni espressione di parrocchialità, assumendo l’aspetto sostitutivo ed esclusivo di santuario mariano. Conseguentemente a ciò, iniziò pure il declino strutturale dell’edificio architettonico, già piuttosto accentuato nel Seicento e giunto ad un punto tale nei primi anni del Settecento che, nel 1730, si decise di demolire la fatiscente vetusta chiesa e di costruirne una di nuova. Il progetto del nuovo edificio fu affidato ad Ottaviano Scotti architetto e nobile trevigiano che, come più tardi Andrea Zorzi, fu allievo di Francesco Maria Preti. I lavori di costruzione durarono circa trent’anni: nel 1761, infatti, a chiesa ultimata, fu commissionato a Gaetano Candido (Este, 1727 – Venezia, 1813), come per la parrocchiale di Spineda, uno dei suoi celebri organi (con cassa armonica sagomata, intagliata, dipinta e dorata), che fu collocato dove tutt’ora si trova, nella parete interna dell’ingresso, sopra il portale. L’esterno del santuario, affiancato dal campanile, si presenta con un inconsueto slancio in alto della verticalità dell’edificio. Il perimetro esterno e la sagomatura delle pareti dichiarano apertamente il movimento strutturale interno ad unica navata della chiesa, seguendo l’andamento sinuosamente spezzato delle curvature. La facciata è risolta con una prominenza in avanti della parete, ripartita orizzontalmente in tre ordini: un alto basamento che si apre al centro in corrispondenza del portale e che sorregge, in aggetto, subito ai lati dell’ingresso, due semicolonne di ordine tuscanico; un cornicione-architrave ampio e riccamente decorato; la soluzione dell’alto attico, aperto in centro da un finestrone concluso a lunotto; e in fine, a coronare la facciata, l’esile ma delicato timpano. Quello che all’interno appare armoniosamente calibrato nella verticalità grazie ai partiti decorativi, qui s’irrigidisce in una sorta di forzatura imposta dal dover giustificare architettonicamente all’esterno l’equilibrato slancio verticale dell’interno. L’interno, come una cassa armonica vibrata dalle modulazioni decorative, è un unico vano a pianta rettangolare con angoli smussati che si apre, al di là dell’arco trionfale, nel presbiterio. Le pareti sono ritmate da un’elaborata partitura decorativa, scandita dal susseguirsi delle colonne corinzie, poggianti su alti basamenti, che sorreggono l’interruzione orizzontale dell’esteso cornicione. Sopra il cornicione, un ulteriore rialzo parietale (come l’attico nella facciata, ma qui armonicamente fuso con l’insieme) accentua la verticalità dell’interno che si conclude con il soffitto a bauletto. Sulle pareti di smussatura perimetrale, in due ordini si aprono i luminosi finestroni, sotto ai quali, in nicchie, trovano posto le quattro statue in pietra (?) raffiguranti (da destra entrando) Mosè, Ezechiele, Isaia e Davide, opere firmate e datate (1910) dallo scultore Francesco Sartor, nipote del papa. Il presbiterio, rialzato dai consueti gradoni, è stato oggi insensatamente denudato delle sue balaustre originali, privandolo così di quel punto di sosta ottica per lo sguardo che serviva a giustificare armonicamente lo slancio verticale del vano. Tra le opere che si conservano nella chiesa, a livello devozionale, merita particolare menzione la seicentesca scultura lignea dell’altar maggiore, dorata e dipinta, della Madonna delle Cendrole, simbolo del culto mariano del santuario (il Melchiori ricorda una preesistente <<…Immagine di Maria Vergine di antichissima struttura a similitudine di quelle che si venera nella Santa Casa di Loreto…>>). Di interesse, e certamente eseguiti sui disegni dello Scotti, sono anche i due altari laterali, opera di un lapicida veneto del XVIII secolo, in marmo bianco e violetto con quattro colonne corinzie; come interessante è l’altar maggiore, sempre di un lapicida veneto del XVIII secolo, in marmi policromi con quattro colonne corinzie. L’opera pittorica di maggior rilievo è sicuramente la tela attribuita a Luca Giordano (Napoli, 1634 - 1705), pittore di origine napoletana straordinariamente fecondo, soprannominato "Luca Fapresto", perché il padre, da giovinetto a Roma, voleva che dipingesse velocemente copie dei più importanti dipinti dei maestri del Cinquecento per venderli altrettanto velocemente; fatto sta che questo artista fu famoso, oltre che per le sue alte doti pittoriche, anche perché lavorava effettivamente con velocità così prodigiosa e facilità così sorprendente da meritarsi in tutto il soprannome. Non solo copiò, ma imitò, e quasi falsificò, la maniera di artisti contemporanei dai quali si sentì inizialmente particolarmente attratto, tanto che alcune sue opere giovanili furono confuse, ad esempio, con quelle di Josepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, del quale Luca fu scolaro. Viaggiò molto e, dopo Roma, fu presto a Bologna, Parma e Venezia, dove il suo classicismo si arricchì di una sensibile luminosità cromatica e di un ampio respiro compositivo. La sua prodigiosa velocità nel dipingere quasi sempre con alta ed impeccabile qualità (egli stesso diceva di usare tre pennelli: uno d'oro, per papi e monarchi; uno d'argento, per l'aristocrazia; ed uno di bronzo per la borghesia), gli permise d’essere chiamato a lavorare in numerosissime città italiane e all'estero, risiedendo infatti per un decennio alla corte di Spagna (1692-1702). L’opera ascrivibile a Luca Giordano conservata a Cendrole, come sembrerebbe confermare la numerazione posta sul recto della tela (tipica delle opere, dopo il periodo napoleonico, ricoverate presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia, al seguito della soppressione di numerosi istituti religiosi in città e nel Veneto), dovrebbe provenire da Venezia, giunta da noi probabilmente grazie all’intervento di Jacopo Monico (come abbiamo già visto per le due tele del Diziani). Collocata sulla parete laterale del presbiterio, raffigura Il sacrificio di Noè ed è stata eseguita con stilemi figurativi ancora legati ad un classicismo d'impronta romana e bolognese, databile, pertanto, forse al periodo del suo primo soggiorno veneziano (verso la fine degli anni Sessanta del Seicento). Anche l’opera di Gregorio Lazzarini (Venezia, 1655 – Villabona Veronese, 1730), del quale come abbiamo visto si conserva una sua opera anche nella chiesa di San Matteo, fu data in deposito dalle Gallerie. Di rimpetto a quella attribuita al Giordano, nel presbiterio, raffigura Il sacrificio di Abramo, dipinta a cavallo del secolo con un fare pittorico che mostra sciogliere il suo gusto formale, fatto inizialmente su di una stesura levigata e ferma, in una tenerezza più fusa del colore meditata sugli esempi proprio del Giordano, per giungere quasi a precoci risultati di barocchetto. Diverse le opere di pittori oggi ancora anonimi che si conservano nel santuario, a cominciare dagli affreschi del soffitto e del lunotto sopra il portale d’ingresso, opera di un artista del XVIII secolo (? - comunque sia dopo il 1760), raffiguranti rispettivamente la Gloria di Maria ed il Padre Eterno con Gesù Cristo assisi sul globo terrestre. Di buona qualità pittorica è anche la tela ottagonale settecentesca posta sul soffitto del presbiterio, raffigurante l’Assunzione di Maria; mentre di lettura difficilissima, a causa delle estese ridipinture e del suo stato di conservazione, è la tavola datata 1524 (?) raffigurante la Madonna del perdono, che pare comunque avere più valore devozionale che artistico, trattandosi di opera probabilmente di carattere popolare. Interessante, invece, è la paletta centinata di Noè Bordignon (dotato artista esponente del Verismo veneto di fine secolo, che con lucida vena vernacolare, talvolta di sapore ancora romantico, ha saputo in molte sue opere mettere in risalto la realtà socio-rurale dei ceti meno abbienti della sua epoca) posta sull’altare di destra, curiosamente datata “Roma 1879” e raffigurante Sant'Eurosia. Nei riquadri delle pareti laterali della navata, per dono di Pio X, sono oggi collocate otto tele databili alla fine dell’Ottocento, tutte copie di importanti dipinti antichi; in quei riquadri dovettero in origine trovare collocazione le otto alquanto modeste tele settecentesche raffiguranti scene dell’Antico Testamento, oggi conservate nell’adiacente cappella di San Biagio. Sempre nella cappella di San Biagio, di fattura decisamente più discreta, è la paletta centinata raffigurante la Sacra Famiglia, opera datata 1801 di Sebastiano Chemin; mentre scadente di qualità è quella raffigurante Sant'Eurosia, di pittore anonimo del settecento (queste due ultime opere dovettero in origine trovar posto la prima, nell’altare di sinistra, dove oggi si conserva l’effigie di Pio X, la seconda nell’altare di destra, al posto dell’opera del Bordignon).

Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

  

POGGIANA

 CHIESA  PARROCCHIALE DI SAN LORENZO

La prima chiesa di Poggiana ha origini assai antiche: viene infatti nominata già nel 1153 in una bolla di papa Anastasio IV. Suffraganea, in quanto diaconale, della pieve di Cendrole, è sin da allora dedicata al  santo martire Lorenzo. Nel 1462, la chiesa ottenne un proprio parroco e la completa autonomia (erezione a parrocchia). Pochi anni dopo, la cittadinanza di Poggiana manifestò al vescovo di Treviso il desiderio di costruire una chiesa nuova e più grande, che non fu accolto. Si assistette allora ad un secolare e graduale processo di ampliamento ed abbellimento, con interventi più o meno significativi. Nella seconda metà del XVI secolo, vi fu con ogni probabilità un intervento architettonico di un certo rilievo e di una certa importanza: questo lo si può dedurre anche dal fatto che nel penultimo decennio del secolo cade l’importante commissione della pala raffigurante Il martirio di San Lorenzo; commissione di notevole impegno e di ampio respiro storico-artistico per un paesello come Poggiana. Altri importanti interventi furono fatti nel Settecento: nel 1712 fu eretto il nuovo altare maggiore intitolato a San Lorenzo ed il suo ciborio-tabernacolo (datato, appunto, 1712); datata 1754 (Troietto, p. 28) è la pala raffigurante Sant’Antonio e San Giovanni; nel 1731 fu aggiunto il coro ad opera di Barbisan da Badoere; nel 1777 una lapide collocata nell’attuale sacrestia testimonia la fine di ulteriori interventi architettonici, di decorazione e di restauro: risalgono, infatti, a questi anni i due altari marmorei laterali ed il battistero, oltre a numerosi altri paramenti. Nel 1852 fu innalzato l’attuale campanile ad opera di Bianco da Castelfranco (terminato nel 1864). Purtroppo, dell’architettura originaria, non si sa null’altro di preciso in quanto l’antica chiesa fu demolita per lasciar spazio alla nuova, edificata tra il 1893 ed il 1903 ad opera del capomastro e architetto Luigi Barbisan di Morgano (autore anche della chiesa di Morgano, che può dirsi “gemella” di questa di Poggiana). Nel 1911 la chiesa può considerarsi completamente terminata, come testimonia una lapide posta sulla facciata, sopra il portale. Ad unica navata, con presbiterio leggermente rialzato da alcuni gradoni, con altari laterali rientranti addossati alle pareti maggiori, suddivise in orizzontale da ampio architrave modanato sotto al quale si alternano alle rientranze colonne con capitelli in stile corinzio, architettonicamente si presenta come molte altre costruzione di questo tipo innalzate tra fine Ottocento ed inizio Novecento, cioè riprendendo stilemi formali locali dei secoli passati, di vago ricordo palladiano. Gli affreschi che decorano l’interno ed il rosone della facciata furono eseguiti attorno al 1946 dal prof. Luigi Bizzotto (del quale si hanno scarse notizie) con un gusto figurativo accademico e tradizionale, memore nello stile di alcune opere eseguite per chiese veneziane da Ettore Tito. Essi raffigurano, nei lunotti delle pareti laterali, in senso orario: San Luca evangelista, San Giovanni evangelista, San Matteo evangelista, San Marco evangelista; sul soffitto della navata, tre riquadri, il primo dei quali con la figura del Padre Eterno, l’ultimo con Angeli in volo, mentre quello centrale, con la Gloria di San Lorenzo, crollò nella notte tra il 10 e l’11 settembre 1980; nel presbiterio, sulle pareti laterali, a sinistra, L’annunciazione, a destra, La Crocifissione; sul rosone della facciata, sopra il portale d’ingresso, Il martirio di San Lorenzo.

Delle opere su citate, oltre agli altari marmorei (con predella a colonne e timpano spezzato) e al ciborio-tabernacolo (con tre pronai, tamburo a cupola con raccordo di volute), pregevoli esempi di maestranze lapicidee venete del XVIII secolo (notevoli pure le sculture raffiguranti due Angeli, in marmo bianco screziato, poste ai lati del ciborio-tabernacolo, opera di un artista veneto attivo nei primi anni del Settecento), quella che mostra decisamente maggior pregio artistico è la paletta centinata raffigurante Il martirio di San Lorenzo, meta vera della nostra visita storico-artistica a Poggiana. Già attribuita a Francesco da Ponte il Giovane, detto Francesco Bassano (Bassano del Grappa, 1549 ca. – Venezia, 1592), figlio e collaboratore di Jacopo (Bassano del Grappa, 1517 ca. – 1592), fu eseguita verso il penultimo decennio del secolo. Il Bordignon Favero nota che a Francesco fu ordinata nel 1583 (e forse eseguita più tardi), per la parrocchiale della vicina Loria, una Cena oggi perduta. La contiguità delle due parrocchie porta lo studioso a supporre la vicinanza anche della datazione delle due opere, proponendo il 1585 come possibile anno d’esecuzione della nostra tela. Al seguito di recenti restauri, coadiuvati da indagini tecnico-scientifiche e radiografiche, altri studiosi (Muraro, Rearick, Ballarin) si sono dimostrati propensi a ritenere la paletta di Poggiana opera di Jacopo, databile tra il 1583 ed il 1590, quindi un’opera della sua ultima fase artistica. Il tema è pressoché fedelmente desunto da altri martiri di San Lorenzo eseguiti da Tiziano, l’ultimo dei quali dipinto per Filippo II di Spagna e destinato all’allora nuovo monastero dell’Escorial; un martirio particolarmente vicino alla presente tela, Tiziano lo dipinse tra il 1548 ed il 1549 per la chiesa dei Crociferi, oggi Gesuiti, di Venezia. Jacopo, d’altronde, aveva già affrontato questo soggetto di derivazione tizianesca in un’opera oggi conservata nel Duomo di Belluno e datata 1571, alla quale il figlio Francesco aveva collaborato. La nostra tela raffigura, in un suggestivo notturno con ambientazione paesaggistica sulla sinistra e con edifici in scorcio sulla destra, il santo mentre viene legato dai manigoldi sulla grata del martirio; dall’alto, tra il bagliore delle nuvole, un gruppo di angioletti sta portando la palma e altri simboli del martirio. La costruzione compositiva, desunta dall’analogo tema tizianesco, diventa per il Bassano un chiaro pretesto per dar sfogo alle sue straordinarie capacità luministiche, che sanno creare magiche e suggestive atmosfere notturne nelle quali, come veri e propri guizzi di fiamma, il colore si accende in improvvisi bagliori di luce, che divengono il vero tema dominante di questa, come di molte altre opere dell’ultima maturità dell’artista. E’ il colore, steso per tocchi spezzati e vibranti e che si plasma e si trasforma in luce nel suo esaltarsi, per contrasto, in zone straordinariamente chiare e zone cupamente “tenebrose”, che dà vita dinamica alla composizione, scandendone e misurandone la profondità spaziale, evidenziandone e regolandone le positure vigorose dei personaggi, sottolineandone ed esaltandone la drammaticità della scena secondo una ricostruzione “veritiera” e “realistica” (la vena realistica che permea molte opere della maturità di Jacopo –e che sarà ripresa e accentuata soprattutto dal figlio Francesco, ma anche da Leandro e Girolamo, nonché ovviamente dalla prolifica bottega- spicca con particolare efficacia nelle figure accovacciate in primo piano e in quelle, apparentemente secondarie, ai lati). La straordinaria vena artistica dell’ultimo Jacopo, come per l’ultimo Tiziano e come per il Tintoretto, si pone tra i più straordinari esempi della pittura europea della seconda metà del Cinquecento, mostrando stretti legami anche con la pittura “realistica” del nord Europa e ponendosi come uno dei punti di partenza di esperienze espressive e di motivi iconografici propri della pittura del Seicento.

Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II e da AMELIO TROIETTO, Poggiana… 1153 – 1993, San Zenone degli Ezzelini, 1993.

  

SPINEDA

 CHIESA PARROCCHIALE DEI SANTI ANTONIO ABATE, GIROLAMO E LUCIA

 Di origini molto antiche, il Bordignon Favero  ricorda che un primo sacello eretto in questa località era dedicato a Santa Giustina e che in documenti del XIV secolo esso appare filiale della pieve di Bessica (la località su cui sorge, infatti, fino al 1813 fu chiamata Spineda di Bessica). La primaria costruzione fu demolita, perché insufficiente e oramai diroccata, nel 1500; quindi fu ricostruita con la nuova dedica a Sant’Antonio Abate (con il battistero nella chiesa nel 1570), cui si aggiunsero, successivamente, i contitolari Girolamo e Lucia. Tra il 1750 ed il 1770 fu innalzato il campanile e, con ogni probabilità, la chiesa fu ristrutturata e riadattata alle nuove esigenze a partire da quell’occasione: l’aspetto attuale (recuperato con cura grazie al restauro di non molti anni fa, fatto sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici per il Veneto), pertanto, conserva gran parte della tipologia strutturale e stilistica di quell’intervento, che deve essersi protratto ancora per alcuni decenni, fin ai primi anni dell’Ottocento. Tant’è vero che l’organo, originale di Gaetano Candido (Este, 1727 – Venezia, 1813), risale al 1795, mentre l’affresco sul soffitto del Canal è del 1802. L’architettura della chiesetta, quindi, appare oggi di sapore tardo settecentesco, caratterizzato da una sobrietà ormai già neoclassica: basti osservare la facciata, scandita verticalmente da quattro lesene in stile dorico, che racchiudono rientranze elegantemente prive di ogni decorazione quelle laterali, geometricamente scandita da lunotti sopra il portale d’ingresso quella centrale, sopra alle quali un delicato architrave sorregge la leggera sporgenza del timpano. All’interno (recuperato nella forma tardo-settecentesca con una buona fedeltà all’originale, sebbene non in toto), la navata otticamente vasta riprende nei lati  maggiori il modulo delle lesene esterne (ma questa volta in stile ionico) alternate da rientranze prive di decorazione e da eleganti cappelle arcuate a tutto sesto, le ultime delle quali (verso l’altare) racchiudono le entrate laterali; sopra le lesene si stende orizzontalmente l’architrave sul quale poggia il soffitto a volta e, lateralmente, i finestroni da dove scende la luce. Nei lati minori, quello dell’ingresso prende movimento dalla balaustra chiusa e sagomata dall’ondulazione di spiccato sapore settecentesco che racchiude lo spazio fisico che contiene il raffinato organo; quello di fondo si chiude leggermente ai lati esterni per aprirsi grandiosamente con l’ampio arco trionfale a tutto sesto nel presbiterio profondo e sormontato dalla cupola. Le balaustre che un tempo delimitavano lo spazio destinato ai fedeli da quello destinato al clero, sono state oggi poste all’imbocco delle due prime cappelle laterali. Di notevole pregio è l’altare maggiore (che contiene una modesta tela molto ridipinta, che dovrebbe essere seicentesca, raffigurante la Gloria di Dio con i santi Abate e Lucia), seicentesco con mensa ad incrostazioni policrome, predella con quattro colonne in marmo grigio, due paraste con capitelli corinzi e arco ribassato e spezzato; così come il ciborio, sempre seicentesco, posto davanti, con forma a poliedro con colonne e volute di raccordo sormontate da cupola a pagoda su tamburo con incrostazioni policrome e rilievi. Di pregio sono anche gli altari marmorei laterali, settecenteschi, con mensa ad incrostazioni policrome, predella con colonne grigie ed arco spezzato, che racchiudono rispettivamente, quella di sinistra una tela centinata di primo Seicento raffigurante un manierato e palmesco San Girolamo penitente, quella di destra una scultura raffigurante la Madonna col Bambino. Di alta manifattura è, invece, la scultura in marmo bianco screziato raffigurante la Madonna del Rosario col Bambino conservata oggi nella prima cappella di destra, opera di un notevole scultore veneto del XVII secolo, che la tradizione vuole provenga dall’Abbazia collaltina di Sant’Eustachio di Nervesa, soppressa nel 1815. L’opera, comunque, artisticamente più rilevante è certo l’affresco eseguito sul soffitto della chiesa nel 1802 da Giovan Battista Canal (Venezia, 1745 – 1825). Figlio di Fabio Canal, detto Canaletto, fu allievo prediletto del Tiepolo, dopo un’iniziale formazione avuta col padre. Nello stesso anno, assieme al Borsato, dipinse anche per la parrocchiale di Fossalunga e, all’incirca negli stessi anni, a Castelfranco, in Casa Barisan (nonché la palazzina di campagna del Senatore conte Giovanni Battista Barisan), in Teatro Accademico e nella Chiesa del monastero di S. Chiara. Fu definito dal Coletti (1930) l'ultimo dei <<fa presto, per la copiosa facilità della sua composizione e la sveltezza del suo disegnare e del suo colorire>>. Si specializzò nella decorazione ad affresco e specialmente nel dipingere soffitti (ben 30 chiese nella sola diocesi di Treviso: Caselle, Caerano, Biadene, Fossalunga, Spresiano, Martellago, Padernello, Treviso, ecc.). Dal 1807 insegnò pittura all'Accademia di Venezia. Come mostra anche il nostro affresco, raffigurante L’assunzione di Maria con i santi patroni della chiesa Girolamo, Antonio Abate e Lucia, le sue peculiarità stilistiche e compositive si rifanno in modo piuttosto marcato alla pittura del Tiepolo, con un lessico figurativo straordinariamente disinvolto, arioso e con una certa complessità di invenzione compositiva, mossa e vorticosa in un risultato di grandiosa efficacia, e di festosità di colore nelle tonalità prevalentemente chiare e luminose.

Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

  

VALLA’

 CHIESA  PARROCCHIALE DI SAN GIOVANNI BATTISTA

 Anche la chiesa di Vallà ha origini assai antiche e nel 1245 è indicata in un regesto come cappella soggetta alla chiesa di Riese. Della chiesa originaria, che dovette subire nel corso dei secoli innumerevoli ristrutturazioni e mutamenti, oggi non rimane pressoché nulla. Nel quarto decennio del settecento, infatti, la vecchia e probabilmente fatiscente costruzione fu demolita per lasciar spazio ad un nuovo edificio il cui progetto fu affidato a Francesco Maria Preti (Castelfranco Veneto, 1701 - 1774), architetto che certo fu il più attivo nel nostro territorio, e considerato da taluni studiosi il più importante architetto veneto del secolo. La formazione artistica del Preti è strettamente legata all'ambiente illuminato della famiglia dei Riccati (fu allievo di Giordano, anch'egli architetto), allo studio dell'architettura del Palladio e di altri grandi architetti del passato, dal Vitruvio al Serlio, dal Vignola allo Scamozzi. Sugli stimoli del cenacolo riccattiano, Francesco Maria Preti elaborò una visione architettonica basata sul principio della media armonica, filtrata attraverso le teorie di Jacopo Riccati e degli altri componenti di quella famiglia, nonché da personalità locali come quella dell’architetto Giovanni Rizzetti. Nella cultura illuminata del secolo, anche nell'architettura ogni atto di ragione doveva essere il risultato di un atto positivo di indagine interdisciplinare, che tenesse quindi in considerazione una lettura attenta fatta sui monumenti del passato, sulle esperienze che la storia testimoniava e sugli studi di materie tra loro teoricamente legate, come le scienze, la matematica, la musica. Su un tal genere di impostazione, il Preti applicò alle costruzioni la sua concezione di media armonica proporzionale, che divide gli spazi, determina le proporzioni degli elementi strutturali e decorativi tra loro e l'insieme, per raggiungere un equilibrio classico della ragione applicata all'architettura intesa per la sua "funzionalità" ed utilità. Raggiunse, così, alti risultati di monumentalità ed ampia, maestosa spazialità in edifici sontuosi come Villa Pisani, a Strà, o delicati, mossi ed armoniosi come nel Teatro Accademico di Castelfranco, iniziato nel 1754. Numerose sono le opere che il Preti elaborò e costruì per la sua città natale e per il territorio ad essa legato, fra le quali si ricordano, tra le principali, il Duomo cittadino dedicato a S. Maria Assunta e a S. Liberale, edificato in stile neopalladiano nella prima metà del sec. XVIII sul luogo dove sorgeva l'antica chiesa "di dentro", l'inconclusa parte del Palazzetto dell'Ospedale di S. Giacomo Apostolo, eretto a seguito della decisione presa nel 1760 di ristrutturare completamente l'antico ospedale, il purtroppo demolito (negli anni Sessanta del nostro secolo) edificio del vecchio Ospedale civico, ed altro ancora; nei dintorni di Castelfranco, si ricorda anche la splendida Villa Corner di Cavasagra. La Chiesa parrocchiale di Vallà, fu inizialmente innalzata su suo disegno, ma profondamente alterata in seguito: di essa, infatti, non restano sostanzialmente che il presbiterio e parte del soffitto. La facciata, nel suo corpo mediano, conserva, seppure con lievi modifiche, l’aderenza al progetto originale: in una tipologia architettonica che ricorda da vicino la facciata del Duomo di Castelfranco, un senso di rigoroso plasticismo e monumentale classicismo è dato dalle quattro imponenti colonne di ordine dorico addossate alla parete e poggianti su di un alto basamento; colonne che suddividono la superficie della facciata in tre aree rettangolari, delle quali quella centrale larga pressoché il doppio delle laterali. Un possente architrave aggettante sorregge il timpano. Ai lati del corpo mediano, in corrispondenza delle due navate laterali aggiunte in epoca successiva, due corpi lesenati racchiudo, in scala minore, le due porte uguali nella forma al portale d’ingresso. Elegante anche il campanile che si innalza alla sinistra della chiesa, soprattutto nel suo basamento e parte del fusto, con riquadrature bugnate a punta di diamante completamente a mattone scoperto, con evidente richiamo al disegno della zoccolatura dei palchetti del Teatro Accademico (Bordignon Favero). L’interno, oggi si presenta a pianta basilicale suddiviso in tre navate da una teoria di colonne doriche che sorreggono un robusto architrave, sopra al quale prosegue il rialzamento del soffitto originario. Le navate laterali, caratterizzate da una luminosa parete ritmata da arcate cieche con lesene, terminano entrambe con elaborati altari. La navata centrale, al di là dell’arco trionfale, delineato alla base da una balaustra a colonnine sagomate, si apre sull’alto presbiterio chiuso alla sommità da una volta a crociera. La parete d’ingresso accoglie, sopra al nartece interno a colonne corinzie, la balaustra cieca e sagomata dove sta l’organo. Di notevole interesse sono gli  altari di ordine corinzio con colonne marmoree sormontate da arco ribassato e spezzato, eseguiti da un lapicida del XVIII secolo e provenienti dalla demolita chiesa di Piombino Dese. Il Bordignon Favero ricorda che, oltre a ripetere la struttura di quelli collocati nel Duomo di Castelfranco Veneto, di essi esiste il disegno, datato 1736, di Francesco Maria Preti. Lo stesso studioso, in fine, precisa che dal carteggio tra Giacomo Riccati e il Preti, in data 14 marzo 1745, si può dedurre che la chiesa di Vallà (progettata nel 1736) doveva essere allora definitivamente conclusa. Su disegno di  Francesco Maria Preti sono anche gli stalli lignei del presbiterio, con colonne corinzie sormontate da timpani alternativamente arcuati e triangolari. Interessante è anche il settecentesco ciborio dell’altar maggiore, eseguito su disegno di G.B. Zampezzi  (1627-1700), in pietra d’Istria con incrostazioni marmoree e semicolonne corinzie. Sempre sull’altar maggiore, ai lati, sono poste due belle sculture in pietra d’Istria raffiguranti gli Apostoli Pietro e Paolo, opera di un artista veneto del XVIII secolo. Tra le opere pittoriche conservate nelle chiesa, di discreta fattura è la tela della seconda metà del Settecento raffigurante San Giuseppe con gloria di angeli, dal sapore dizianesco, collocata nell’altare che termina la navata destra, come più spiccatamente dizianesca appare anche la tela settecentesca collocata nell’arcata cieca della navata di sinistra, raffigurante la Madonna in trono tra San Rocco e Sant’Antonio. Nel presbiterio, rispettivamente sulla parete di sinistra e su quella di destra, spiccano due tele raffiguranti, la prima, San Giovanni Battezza Gesù, la seconda, la Decapitazione di San Giovanni Battista, entrambe opera di Giorgio Anselmi (Verona, 1723 – 1797), artista discepolo di Antonio Balestra ma acuto interprete anche della lezione tiepolesca, non senza, come nelle nostre tele, sentire l’influenza dei caldi colori piazzeteschi farciti di realismo cromatico, raggiungendo così esiti pittorici caratterizzati da stesure forti e risolute per il risentito plasticismo. Attribuita all’Anselmi è anche  la Gloria di San Giovanni Battista, affresco dipinto sul soffitto con connotazioni ritmiche sinuosamente ascendenti e colori più accesi, chiari ed ariosi di maggior derivazione tiepolesca. L’opera pittorica forse più rilevante conservata nella chiesa di Vallà appare comunque essere la tela, di forte influenza piazzettesca, posta sulla parete di fondo del presbiterio, eseguita da Ad Egidio Dall'Oglio (Cison di Valmarino, 1705 – Venezia, 1784) dopo il 1746 (probabilmente tra il 1751 ed il 1762, come attesta il ritrovamento di alcune note d’archivio relative alla permanenza del Dall’Oglio nella zona di Castelfranco, dove in più occasioni operò) e raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Questa tela, come le due su citate dell’Anselmi, rimangono tutt’oggi inserite nell’originaria collocazione: entro cornicette di stucco il pendant, in una cornice più ampia ed elaborata, in stucco dipinto, quella del Dall’Oglio.

 Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

 

 

ORATORIO DI CA’ EMILIANI  (dedicato a San Girolamo Emiliani)

 La patrizia famiglia veneta del Miani o Emiliani era proprietaria a Vallà di un’omonima villa con relativi fondi terrieri. Il personaggio più illustre della casata fu Girolamo, fondatore dell’Ordine dei Chierici. E con la dedica a San Girolamo Emiliani, probabilmente in concomitanza alla ri-edificazione della chiesa di Vallà, la famiglia patrizia decise di innalzare un oratorio in prossimità della loro residenza. Si ritiene che il progetto sia stato affidato anche in questo caso a Francesco Maria Preti, considerate le strette analogie stilistiche che l’oratorio presenta con altre opere dell’architetto e soprattutto con il Teatro Accademico di Castelfranco. Il suo interno, si presenta caratterizzato da loggette  laterali sorrette da pilastri con capitelli di ordine corinzio e precedute da portali ciechi con timpano, mentre il presbiterio è simile ad una nicchia che inquadra l’altare tra due colonne, pure esse con capitelli corinzi. Sul lato opposto al presbiterio si apre il portale. Orizzontalmente, corre un robusto ma delicato architrave che raccorda l’intero perimetro interno, sopra al quale il soffitto si conclude con il catino absidale che sormonta l’altare. Raffinate decorazioni a stucco adornano i riquadri ciechi delle pareti laterali e quello dell’altare. Purtroppo, questo squisito esempio di architettura veneta del Settecento versa oggi in uno stato di desolante abbandono.

 Marco Mondi

 

* Parte delle notizie sopra riportate sono state tratte da GIAMPAOLO BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. II.

 

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