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Per un museo "al Paradiso"

di Marco Mondi

 

(da MARCO MONDI, Per un museo "al Paradiso", in Conoscere Bolasco – Ieri. Oggi! Domani?, a cura di GIACINTO CECCHETTO, atti del convegno, Castelfranco Veneto, Teatro Accademico, 17 settembre 2011, Castelfranco Veneto, 2011, pp. 96-109)

  

 

1. Premessa

Dopo Giorgione, per Castelfranco, c’è solo villa Revedin-Bolasco. Cosa vuol dire? Certo, non che Giorgione debba essere messo in secondo piano e tanto meno che non debba rimanere, come lo è sempre stato, l’indiscussa “gemma” del nostro territorio, la sola capace d’imporci, culturalmente, a livello internazionale più di ogni altra, e che, pertanto, inevitabilmente, dovrà continuare ad essere “sfruttata”. Ma una città ha bisogno d’infrastrutture, di ogni genere, anche culturali: per questo, dopo Giorgione, per Castelfranco, c’è solo villa Revedin-Bolasco!

La mostra su Giorgione conclusasi l’anno scorso, è stata per noi un’esperienza unica, poiché, oggi, un evento simile è impensabile e irrealizzabile. Esemplare sotto molti punti di vista, ha evidenziato, aldilà di valutazioni ed esiti strettamente storico-artistici, in primo luogo che l’arte può essere una risorsa economica di notevole rilevanza (si pensi all’indotto che ha portato per molte attività lavorative, soprattutto del centro storico) e può, com’è stato appunto per Giorgione, essere presentata a costo pressoché zero per le casse comunali; in secondo luogo che Castelfranco non ha spazi espositivi per eventi di tale portata e la mostra su Giorgione, pertanto, è stata un’esperienza, oggi, priva di futuro. Le sedi espositive, infatti, di cui attualmente dispone la nostra città sono essenzialmente Casa di Giorgione (però con spazi espositivi limitati, perché museo dedicato) e la galleria del Teatro Accademico (che, alla fine, è un ripiego): l’una e l’altra, o l’una più l’altra, non possono sopportare l’allestimento di una mostra che non sia destinata a un pubblico cittadino, o poco di più; a meno che non si voglia stipare le opere in un allestimento che può essere deprimente (per le opere stesse e per il fruitore), non si voglia condannare il visitatore a supplizi quali interminabili code, “insalubri” sale affollatissime o visite scandite a ritmo di cronometro.

A riscontro di tutto questo, esiste a Castelfranco un luogo che fu donato perché, là, si facesse cultura. A distanza di diversi decenni dal lascito, quel luogo, posto dallo Stato italiano sotto la tutela della competente Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, si presenta oggi in un tale stato di degrado da essere considerato pressoché tutto, per quel che riguarda gli edifici, inagibile, con talvolta seri problemi persino di staticità. Questa è l’attuale realtà di villa Revedin-Bolasco.

Da un lato, quindi, una città senza spazi espositivi adeguati; dall’altro un edificio enorme e dalle notevoli qualità architettoniche (arricchito, per di più, da un parco considerato nella seconda metà dell’Ottocento uno tra i più suggestivi delle Tre Venezie), lasciato in un deplorevole stato di abbandono. Uno straordinario edificio storico dalle potenzialità enormi che, se recuperato, potrebbe diventare quell’”involucro” capace di contenere tutto quanto più si possa desiderare per una città: spazi per un museo cittadino, per mostre di ampio respiro, ambienti dedicati all’arte contemporanea (magari dilatati al parco), ambienti destinati a centro convegni e a esigenze universitarie, ad auditorium, a biblioteche e, perché no, a bookshop e altre attività ricreative o di svago come bar, ristorante, ecc., gestite da privati e quindi capaci di generare reddito per la gestione dell’intero complesso. Si consideri, inoltre, l’ubicazione stessa di Castelfranco, e quindi di villa Revedin-Bolasco, storicamente sviluppatasi da otto secoli a questa parte grazie proprio, e anche, alla sua posizione geograficamente strategica, posta al centro di un vastissimo territorio che l’ha portata ad avere un incrocio di vie stradali (l’Aurelia e la Postumia, sono addirittura romane) e ferroviarie che molti capoluoghi di provincia non hanno. Non è un caso, infatti, se quando è stato deciso, non molti anni fa, di aprire uno dei primi centri commerciali del nostro territorio, la scelta sia caduta su Castelfranco. Sotto questo punto di vista, il recupero di villa Revedin-Bolasco come spazio espositivo-museale potrebbe avere sviluppi sorprendenti e, per potenzialità, ben poca concorrenza: insomma, una sorta di Mart (il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto) ma con una locazione geografica ben migliore e forse pure con una veste architettonica di maggior prestigio.

Un recupero, tuttavia, che non dovrà essere solo di restauro architettonico, bensì d’intelligente riutilizzo per il bene di un’intera città. Si pensi solo se, una volta l’anno, si riuscisse a organizzare un evento che, come la mostra su Giorgione, potesse far venire a Castelfranco cento, duecento mila visitatori: con tutto l’indotto che porterebbe, non diventerebbe forse una delle prime “industrie” cittadine? Non sarebbe forse il modo di considerare l’arte, finalmente, come investimento? Non sarebbe forse il modo di guardare al futuro del nostro territorio sfruttando l’unica “materia prima”, il nostro vero Made in Italy, che non potrà mai essere imitata o falsificata da chicchessia fuori dai nostri confini? SI PRUDENS ESSE CUPIS IN FUTURA PROSPECTUM INTENDE (Se vuoi essere saggio volgi lo sguardo al futuro) ci insegna il motto del penultimo cartiglio del fregio giorgionesco di casa Marta-Pellizzari, alias Casa di Giorgione.

 

2. Il museo che non c’è

Parlare di villa Revedin-Bolasco vuol dire, inevitabilmente, tornare a parlare del Museo Civico di Castelfranco, cioè, del museo che non c’è.

Nel 1997, il Comune di Castelfranco ha allestito un’utile mostra di alcune tra le più significative opere che la Civica Collezione Museale allora conservava per gran parte stipate nella vecchia soffitta ancora non restaurata di Casa Giorgione e, quindi, generalmente non visibili al pubblico. Ne sono state esposte oltre duecento le quali, a mostra finita, sono quasi tutte ritornate dov’erano (solo qualche anno dopo, grazie al restauro della sede della biblioteca cittadina, alcune di esse hanno trovato là posto). La mostra è stata l’occasione anche per dare alle stampe un catalogo piuttosto corposo di una buona parte di quel patrimonio cittadino, dotando, il museo che non c’è, di una veste editoriale che, all’epoca, musei funzionanti e di maggior prestigio potevano ben invidiare. Una provocazione, però: unica vera pecca di quel catalogo, la mancanza delle indicazioni sulla collocazione delle opere nei vari uffici comunali, soffitte, magazzini, così da poterle rintracciare per chi volesse tornare a vederle a fine della mostra.

Grazie alla competente collaborazione del dott. Paolo Berro, poi, nel dicembre del 2002 è stato messo in rete, sulla falsa riga della pubblicazione del 1997, un sito in Internet della Civica Collezione (che invito vivamente a visitare all’indirizzo www.museocastelfrancoveneto.tv.it) esemplare ancora oggi per la sua efficacia propositiva, per la più che esaustiva quantità di opere presentate, ognuna, come in catalogo, accompagnata da scheda descrittivo-tecnico-scentifica, e per la schematica eleganza della sua veste. Pure in questo caso, il museo che non c’è, si era dotato di un mezzo di divulgazione e consultazione che molti musei italiani, a tutt’oggi, ancora non hanno (lo si confronti, ad esempio, con i siti dei Civici Musei di Treviso, di Padova o di Bassano del Grappa). Ma, rimane il fatto, che il museo non c’è! Eppure una volta esisteva ed era aperto al pubblico.

 

3. Il museo che non c’è quando c’era: un po’ di storia

Nel 1895 il medico-chirurgo Giovanni Bordigioni commissionava all'edi­tore e fotografo Ferdinando Ongania di Venezia un album interamente dedicato alla figura di Giorgione, per poi donarlo al neo-nato Museo Civico di Castelfranco. La dedica nell’album, che rappresenta fino ad oggi, almeno per chi scrive, l’unica documentazione positiva a tal riguardo, riporta <<Alla / sua città natia / di / Ca­stelfranco / per / l'incipiente Museo Comunale / fondato nell'anno 1889 / dal / D.r Francesco Marta / il Dottor / Giovanni Bordigioni / dedica>>. Il nostro Museo Civico, pertanto, si può considerare ufficialmente costituito nel 1889.

Se nell’edizione del 1895 de’ Le Cento Città non è fatta alcuna menzione al museo, in quella del 1928, dettata dall’allora conservatore, cav. Elia Favero, si legge: <<Nel campo culturale non devisi dimenticare il Museo Civico, istituito nel 1885 per iniziativa del dott. F. Marta e che ha sede in alcuni locali del Collegio Comunale...>>; in quell’occasione furono pubblicate anche cinque fotografie di alcune sale del museo, che in quel momento aveva trovato sede, dopo la riapertura (1926), a qualche anno dalla fine della Prima Guerra Mondiale, negli spazi dell'ex-convento dei Padri Serviti.

La data del 1885 è alquanto significativa, sebbene non si possa ritenerla quella dell’ufficiale apertura del museo, bensì quella della raccolta di un primo vero nucleo di opere fatta con l’intento di destinarla a una sede museale. E questo, che curiosamente oggi cade nella ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, spinto dalla richiesta del Comune di Padova fatta al nostro di poter includere nella propria sezione allestita all'Esposizione Nazionale di Torino del 1884 i cimeli risorgimentali custoditi nel nostro territorio (che all’epoca si conservavano ancora prevalentemente in raccolte private). Quando poi, alla fine dell'Esposizione, la città di Padova chiese a Castelfranco, che lo negò, che i cimeli le fossero ceduti perché andassero a far parte della sezione del Risorgimento del proprio museo, sorse la necessità di custodire adeguatamente quelle opere e si scelse allora di raccoglierle e riunirle in una sala del palazzo Comunale.

Prima di addentrarci, però, nelle vicende che portarono alla costituzione del nostro museo negli anni che seguirono l'adesione del Veneto al Regno d'Italia, è bene soffermarsi velocemente su alcuni fondamentali avvenimenti in conseguenza dei quali si formarono dei nuclei di opere, spesso cospicui, destinati ad arricchire le raccolte civiche di molti musei e che, col tempo, contribuirono assai a far sentire la loro creazione una vera e propria esigenza. Tra il 1770 e il 1793, infatti, la scelta della Serenissima Repubblica di sopprimere alcune congregazioni religiose, talvolta con la conseguente demolizione fisica dei locali, aveva dato inizio a una dispersione del patrimonio storico-artistico che era così trasferito, dopo secoli, altrove. La successi­va caduta dello Stato di San Marco e l'invasione dell'ideologia rivoluzionaria francese rielaborata dall'allora vincente logica napoleonica, acuì sensibilmente nel volger di pochi anni la soppressione di altre congregazioni religiose, perpetrando sovente, tanto ai danni dei luoghi pubblici quanto di quelli privati, vere e proprie asportazioni forzate, rapine, requisizioni. A Castelfranco, in quegli anni, furono soppressi il monastero dei Servi di Maria, il convento dei Padri Cappuccini, il convento della Congregazione degli Oratoriani, il monastero di Sant'Antonio Abate dei Minori Conventuali di San Francesco e il monastero dei Reverendi Padri Zoccolanti della Riforma di Sant'Antonio; nel 1808, fu sciolta anche la comunità delle Monache del Redentore e di Santa Chiara.

Altri avvenimenti furono prodromi della necessità di istituire un luogo destinato a raccogliere le memorie della nostra città: la dominazione austriaca (che fomentò un forte sentimento di amor patrio destinato a riversarne testimonianza anche nel museo); la demolizione di antichi edifici come, ad esempio, la villa Soranza (determinante per la configurazione dell’attuale, vera "Pinacoteca" cittadina nella sacrestia del Duomo, per la quale il conte Filippo Balbi e il dott. Francesco Trevisan assicurarono gli affreschi del Veronese e dello Zelotti), il palazzo Pretorio e il Monte di Pietà; ristrutturazioni, decorazioni e nuove costruzioni o riassetti urbanistici (tra l’altro, già impostati nel Settecento dall’Illuminismo architettonico Riccati-pretiano) come la decorazione di casa Moletta-Barisan (dove il conte Giovan Battista Barisan raggruppò un “cenacolo” di artisti tra i quali il Canal, il Borsato, il Bevilacqua e il Chiarottini, che molto operarono in città, e dove, il Canal e il Borsato, ne affrescarono l’interno, la cui facciata era già stata affrescata tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo – lavori oggi tutti andati distrutti a causa di un disastroso restauro dell’edificio fatto pochi decenni fa), di villa de’ Cesari o di palazzo Pulchieri, il riadattamento del nuovo palazzo del Monte di Pietà (già casa Colonna-Riccati), la ristrutturazione del Teatro Accademico, l’edificazione di villa Revedin-Bolasco (vera sede del potere per buona parte del XIX secolo), la realizzazione del passeggio Dante (fatto con uno spirito nazionalista ormai prossimo a compiersi), la costruzione del nuovo palazzo del Municipio, l'innalzamento del Monumento a Giorgione, e così via. Infine, non si dimentichi che le cosiddette "leggi eversive dell'asse ecclesiastico" (1866, 1867) decretarono la soppressione di altre congregazioni religiose e la devoluzione del patrimonio in esse custodito ai musei e alle biblioteche delle relative province.

Ben prima della sua stessa reale esistenza, dunque, e come una sorta di cartina di tornasole, il museo civico (sovente all’unisono o in sintonia con la biblioteca civica, le cui origini non possono essere separate da quelle del museo) era destinato a “registrare” tutto quanto successe e succedeva nel suo territorio. Ma la spinta decisiva, si può dire, venne proprio dall’Unità d’Italia quando, da un lato, si concretizzò una “maturità” illuministico-razzional-positivista capace di dar vita a un'istituzione che avesse carattere pubblico-educativo (non senza intenti ideali e didattici) e al contempo raccogliesse, conservasse, tutelasse e valorizzasse un ben determinato patrimonio storico, artistico e culturale, e, dall’altro, portò a reagire con energia a una logica di centralismo che voleva raccogliere a Roma o in altre città principali le maggiori opere e le maggiori testimonianze dell’arte e della storia fino allora gelosamente custodite nei loro territori d’origine. Nei decenni successivi all’Unità d’Italia, il fenomeno della nascita dei musei civici, che riguardò prevalentemente l'Italia set­tentrionale, deve essere quindi visto anche come una volontà di autonomia e “proto-federalismo” culturale nei confronti del centralismo del neo-nato stato unitario.

Pensato idealmente nel 1884 con una sede provvisoria in una sala del Palazzo Comunale e verosimilmente costituito nel 1889, per volontà e iniziativa di Francesco Marta, suo primo conservatore (fino al 1911) e in quegli anni anche sindaco della città, il Museo Civico di Castelfranco, quando le sue raccolte cominciarono ad aver una loro consistenza quantitativa e qualitativa, fu trasferito in alcune sale dell'ex-convento dei Padri Serviti. Dal 1911 fu il medico-chirurgo Giovanni Bordigioni a esserne il suo secondo conservatore, alla cui morte, nel 1913, subentrò il cav. Elia Favero, al quale spettò il compito di dare all’istituzione un’impostazione più professionale sebbene, di lì a poco, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale il museo fu smantellato e le sue opere trasferite in parte a Guastalla e in parte diligentemente conservate dallo stesso conservatore; mentre la parte più scadente fu affastellata in un locale al pianterreno dei Serviti. Rientrate le opere a guerra finita, il museo (e con esso anche la biblioteca) fu provvisoriamente trasferito (1922) in alcuni locali di casa Pellizzari, appositamente presi in affitto. Finalmente, poi, con delibera della Giunta Co­munale del 17 dicembre 1924, il museo (e la biblioteca) tornò a occu­pare più o meno la vecchia sede, all'ex-convento dei Padri Serviti. In quest’occasione, portandoli giù dal piano superiore, nel chiostro dell’ex-convento fu allestita l’esposizione di sculture, stemmi, lapidi e marmi, all’incirca come là si vedeva fino a pochi anni fa. Lo statuto e il regolamento del museo e della biblioteca furono approvati il 9 ottobre 1926 ed entrambe le istituzioni furono solennemente inaugurate domenica 7 novembre 1926. I rapporti, però, tra il conservatore Elia Favero, che si stava spendendo con profusione per riorganizzare e arricchire le collezioni, e il potere politico d’allora andarono sempre più a inclinarsi, al punto che, nel 1935, il Favero rese le dimissioni. Nonostante la buona volontà dei suoi successori (in ordine, don Bernardo Cavasin, sacerdote mansionario del Duomo, il maestro di musica China e, infine, Giovanni Zonta), il museo volse rapidamente verso un declino al quale pose fine, irrimediabilmente, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. I suoi locali furono ancora una volta smantellati: la parte qualitativamente più consistente fu trasferita a Villarazzo, un’altra forse nei ma­gazzini o nelle stanze del Municipio, mentre le cose di minor conto rimasero affastellate in sede.

Da quel momento, pur col rientro delle opere a guerra finita, nonostante l’incarico dato al prof. Giampaolo Bordignon Favero per il suo riordino e la sua custodia e nonostante l’acquisizione, appositamente voluta nel 1942 per fornirgli spazi più adeguati, del palazzo del vecchio Monte di Pietà presso il Duomo (destinato poi interamente alla biblioteca), il Museo Civico di Castelfranco Veneto non è stato più riaperto. Di conseguenza, la stessa responsabilità dell'istituzione non ha più avuto un vero, diretto interessato, ma è stata sostanzialmente demandata a vari addetti pubblici del settore culturale: fino a tre mesi fa, responsabile del patrimonio ne era il direttore della Biblioteca Comunale.

 

4. Le acquisizioni e la consistenza delle collezioni

La consistenza delle collezioni della Civica Raccolta Comunale può essere considerata abbastanza cospicua e dignitosa di essere mostrata qualora, finalmente, si decidesse di riaprire il Museo Civico. Abbiamo già accennato a come il museo avesse raccolto tante testimonianze della nostra arte, della nostra storia e della nostra cultura in genere riguardante gli anni che precedettero la sua stessa apertura. A museo aperto, poi, le acquisizioni aumentarono decisamente, soprattutto sotto la benemerita gestione del cav. Elia Favero, e continuarono ininterrottamente anche a museo chiuso, fino ai nostri giorni. E’ naturale, però, considerare che un’istituzione “viva” sia ben più attiva e ricettiva a tal proposito e, quindi, la storia di un museo chiuso possa talvolta essere pure la storia di occasioni mancate. L’occasione mancata certamente di maggior portata e risalente a non molti anni fa, che avrebbe potuto fare del nostro museo un museo d’importanza internazionale, è stata certo quella di non aver potuto accettare la donazione (valutata circa 220 miliardi delle vecchie Lire) del compianto storico dell’arte Egidio Martini, come lui stesso mi ha riferito con l’acuta lucidità e lungimiranza che l’hanno sempre contraddistinto: una preziosa collezione di estrema rilevanza per l’arte pittorica veneziana e veneta (ma non solo) che, spaziando dal XV ai primi anni del XX secolo, con opere di Tintoretto, Sebastiano e Marco Ricci, Diziani, Tiepolo, Ciardi, ecc. ecc. ecc., oggi va ad arricchire tutto l’ultimo piano di Ca’ Rezzonico, il Museo del Settecento Veneziano del nostro capoluogo di regione (ed ecco, che ti vien da dire, con rabbia, e se ci fosse stata villa Revedin-Bolasco disponibile!?; considerando, inoltre, che un’altra parte dell’originaria collezione di Egidio Martini andrà, a breve, a trovar collocazione nelle sale di Palazzo Sarcinelli a Conegliano). Al di là di sottrazioni e sparizioni di vario genere avvenute nel corso degli anni, vale poi la pena ricordare in questo contesto almeno altre tre occasioni mancate, causate più o meno direttamente dalla chiusura del museo: la perdita, qualche anno fa, de’ La mosca cieca di Noè Bordignon, assicurata in deposito da noi nel 1933 dal Favero grazie alla mediazione di Vittorio Tessari, quella, dello stesso autore, de’ La pappa al fogo, che la vecchia Banca Popolare di Castelfranco avrebbe potuto donare al momento della sua acquisizione da parte della Banca Popolare di Vicenza, e, infine, quella delle opere di particolare interesse per il nostro territorio che la competente Soprintendenza, in più occasioni, si era impegnata di affidarci in deposito se il museo fosse stato riaperto. Il problema è quindi sempre stato, come lo è oggi, oltre che di soldi, un problema di spazi: un problema che oramai si può considerare “secolare” e che ha interessato ogni attimo di vita del nostro museo il quale, tutto sommato, è stato aperto davvero pochi anni; un problema che oggi è quanto mai intrigante, per non dir vergognoso, se si pensa ancora una volta all’abbandono e al degrado in qui giace villa Revedin-Bolasco, con i suoi spazi infiniti e vuoti.

Ovviamente, poi, non essendoci il museo, mancano ogni genere di depositi o comodati di opere, che potrebbero esse molto più consistenti di quanto oggi si potrebbe credere.

Tornando a pensare, adesso, al nostro museo nella veste originaria di un museo civico, esso potrebbe dotarsi di tutte le sezioni che gli sarebbero proprie. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo scorso, furono intrapresi nel nostro territorio scavi di carattere archeologico in località come la stessa Castelfranco, l’antica Brusaporco, Castello di Godego o Torreselle, che hanno portato nelle civiche raccolte anfore, pietre sepolcrali, mattoni di terracotta con impresse marche di fabbrica, monete e altro ancora, tutti materiali d'epoca romana. Vi potrebbe trovar luogo una sezione di storia naturale e preistorica, grazie alla presenza di non pochi reperti minerali, di fossili, di conchiglie o di selci, di cocci di vasellame e di altri manufatti acquisiti in più occasioni nel corso degli anni. Un po’ scarna risulterebbe un’eventuale sezione medievale, sebbene la presenza di statuti e documentazioni risalenti ai primissimi secoli di vita della nostra città (oggi patrimonio della biblioteca) e le già citate sculture, stemmi, lapidi e marmi (opere per la gran parte, però, di epoche successive) che adornavano l’antico chiostro dell'ex-convento dei Padri Serviti, potrebbero in qualche modo essere comunque interessanti. Più ricca potrebbe essere una sezione dedicata alle armi antiche di varie epoche (spade, sciabo­le, fioretti, pugnali, pistole, pistoloni, fucili, anche di origine mediorientale) e abbastanza consistente si potrebbe definire la raccolta riguardante manufatti e suppellettili di diverso genere ed epoche, come oggetti di vestiario e altri di storia del costume, campioni di stoffe dal XIV al XVIII secolo (panciotti, ventagli, lavori ad ago, ecc.), pergamene, vetri, idoli, antiche misure di peso e, tra le altre cose, un curioso frammento della bandiera della battaglia di Lepanto. Più che soddisfacente potrebbe configurarsi una sezione dedicata alla numismatica, capace di presentare numerose monete, romane e degli antichi Stati Italiani, e medaglie, fra cui notevole quella conia­ta nel 1545 in onore del Vescovo Principe di Trento Cristoforo Madruz­zi, in occasione del Concilio Tridentino; questa sezione potrebbe poi essere integrata da squisiti calchi neoclassici d’ispirazione o di gusto canoviano. La biblioteca, inoltre, conserva una folta raccolta di Autografi e di numerosi altri scritti di personaggi illustri di Castelfranco o legati alla città i quali, assieme ai preziosi album di progetti di Francesco Maria Preti, potrebbero essere tutto materiale per allestire un ulteriore nutrito reparto. Un’altra sezione che si potrebbe allestire con cospicue memorie (che da sole sono state la nervatura della recentissima ed interessantissima mostra Personaggi e luoghi del Risorgimento Castellano) sarebbe quella dedicata al nostro risorgimento, materiale cui già s’è fatto cenno e che comprende scritti d’epoca, documentazioni, ritratti e manufatti relativi a personaggi attivamente impegnati in quegli anni come Vincenzo Pil­lan, Antonio Guidolin dei Mille, Antonio Turcato o il pa­triota e poeta Arnaldo Fusinato; non senza, pure in questo caso, particolari curiosità quale è il Tricolore ricamato a mano dalle donne di Castelfranco con la scritta <<Per sempre>>, che doveva essere donato a Garibaldi in occasione del suo passaggio in città. In relazione ad altri possibili reparti del museo, abbiamo già fatto cenno alla molta documentazione e ai materiali relativi ad altri importanti avvenimenti di Castelfranco o legati a Castelfranco, come la costruzione del passeggio Dante e la risistemazione dei giardini attorno alle mura, la costruzione, la ristrutturazione e la vita del Teatro Accademico (con testimonianze dell'Accademia dei Capponici prima e di quella dei Filoglotti poi) e di altri edifici, testimonianze della Prima e della Seconda Guerra Mondiale o, con materiale assai interessante, di tutto quanto concerne le celebrazioni del quarto centenario della nascita di Giorgione, compreso il bozzetto e il modello a grandezza naturale di Augusto Benvenuti per il monumento al sommo artista innalzato in quell’occasione (che, purtroppo, di recente ha subito improprie alterazioni riguardanti lo scenografico isolotto su cui sorge, sin dall’inizio pensato come parte integrante dell’intera opera). La figura di Giorgione, ovviamente, da sempre ha riservato le più vive attenzioni per tutto ciò che lo potesse riguardare e su di lui si è formato col tempo un vero e proprio archivio di ogni genere di opere: dal souvenir a copie di dipinti a quell'epoca a egli riferiti, da fotografie e incisioni riproducenti le sue opere a un’amplissima bibliografia, a manoscritti che lo riguardavano e a documentazioni di ogni sorta, fino alla già ricordata splendida raccolta d’imma­gini sulle opere dell'artista, o giorgionesche, qual è l'album regalato al museo dal Bordigioni. Il Museo Casa di Giorgione ne espone oggi una parte, ma diverso altro materiale potrebbe essere presentato al pubblico. Un’altra sezione ancora potrebbe essere dedicata a fototeca, poiché assai numerose sono le fotografie otto-novecentesche che si conservano in biblioteca, tra le quali spicca per importanza il dagherrotipo di Ferdinando Brosy del 1846. L’allestimento di ogni sala, poi, potrebbe essere impreziosito dell’esposizione di alcuni arredi e mobili antichi. Nutritissimi potrebbero essere altre due reparti del nostro museo, grazie a due recenti acquisizioni: la prima, giunta con l’acquisto nel 2001 da parte della precedente Giunta Comunale di una numerosissima collezione di strumenti musicali (quasi 200 tra mandolini, chitarre, violini, armonium, fisarmoniche, contrabbassi, viole, violoncelli, arpe, liuti, pianoforti, spinette, strumenti africani, ecc., tutti databili prevalentemente tra il XVIII ed il XIX secolo), che richiederebbero ampi spazi espositivi come forse solo villa Revedin-Bolasco riuscirebbe a dare e, a tal riguardo, pensare in parte a una loro collocazione negli spazi centrali del maestoso salone da ballo, occupando anche l’indovinato palchetto-orchestra del primo piano, potrebbe rivelarsi una soluzione di grande suggestione; la seconda, giunta con l’accorto lascito risalente al 2005 della signora Maria Varo, nostra benemerita concittadina, consistente in una notevole quantità (170 pezzi, tutti appositamente già catalogati dal dott. Nadir Stringa) d’importanti ceramiche antiche, provenienti in prevalentemente dall’Italia centrale, un tempo collezionate con amore dal di lei fratello. Naturalmente poi, se il museo sorgesse in villa Revedin-Bolasco, una sezione dedicata alla scultura si troverebbe già in loco, con l’importante gruppo di statue di Orazio Marinali e della su bottega che un tempo adornavano l’antico giardino “al Paradiso”, ricollocate nel XIX secolo a contornare la Cavallerizza.

     Infine, la parte forse di maggiore attrazione per il visitatore, come spesso succede in ogni genere di esposizioni, potrebbe essere costituita da una discreta pinacoteca. Una selezione dei più significativi dipinti, disegni e incisioni (ma anche sculture) che la nostra Civica Raccolta Comunale possiede, fu presentata alla già citata mostra del 1997 e nel relativo catalogo ogni opera, per chi fosse interessato, è sufficientemente commentata e documentata. In questa sede basti ricordare che, oltre alle acquisizioni più antiche più su menzionate, molte opere giunsero nelle Raccolte anche a museo chiuso grazie a lasciti, donazioni, acquisti da privati o dal mercato antiquario, così come molte altre, soprattutto negli ultimi decenni, giunsero grazie a donazioni legate a mostre allestite nei pochi spazi utilizzabili che la nostra città possiede: ultimo in ordine di tempo, è stato il dipinto di Toni Piccolotto donato dai figli in occasione dell’antologica presentata al Teatro Accademico. Certamente tra le acquisizioni più importanti, vale la pena ricordare qualcuna: le opere probabilmente provenienti dall’ottocentesca collezione di Luigi Tescari che contava, come risulta dal catalogo pubblicato nel 1875, oltre 370 dipinti, con lavori, secondo le attribuzioni di un tempo, di Mantegna, Carpaccio, Giorgione, Tiepolo e altri nomi altisonanti; il cav. Elia Favero, nel 1935, assicurò al museo quasi un centinaio di disegni di Noè Bordignon; l’attuazione del testamento olografo di Bruno Gherri Moro e i doni che la moglie Elvira Nigg fece nei primi anni Settanta, portarono un buon numero di opere del pittore assieme ad altre di artisti suoi amici e qualche quadro antico; la donazione del 1990 fatta dal conte Valperto degli Azzoni Avogadro, ci arricchì di un buon gruppo di deliziose opere provenienti dalla galleria dei ritratti di famiglia dei Riccati; la signora Giulia Stefani, in più occasioni, donò al Comune opere del marito Luigi, compresa una raccolta di circa 690 fogli di disegni caricaturali; il recente lascito di alcuni dipinti, disegni e incisioni fatto dal prof. Danilo Cargnello. Una trattazione a parte, che potrebbe essere addirittura oggetto di una mostra assai interessante, meriterebbe la rivisitazione delle due edizioni del Primo Premio di pittura Giorgione-Poussin che, nei primissimi anni Sessanta del secolo scorso, hanno portato ad incrementare le raccolte comunali di un buon numero di opere d’arte contemporanea.

     Tra tutti questi lavori, vogliamo ricordare in questa sede, per poterli immaginare un giorno esposti nel dovuto contesto, dipinti quali la Madonna col Bambino tra santi di pittore veneto dei primi decenni del XVII secolo, che forse può essere messa in relazione a quella nuova opera che per fortuna non è andata a sostituire «la palla vecchia» (leggi la Pala di Giorgione) che il vescovo Molin, nella sua visita pastorale del 1603, voleva levata via a causa del suo degrado; La deposizione di Cristo nel sepolcro di Pietro Damini, acquistata presso l'antiquario veneziano Ferdinando Ongania nell'ottobre del 1899; l’Ultima Cena di Giovanni Sisto Laudis, dei primi decenni del XVII secolo; il Baccanale di un maestro di ambito romano della prima metà del XVII secolo; Mosè portato alla figlia del faraone di un pittore di ambito di Pietro della Vecchia; la straordinaria serie dei ritratti dei conti Riccati, alcuni dei quali opere del raro Giovanni Antonio Lazzari; la Predica del Battista e il Viaggio di Giacobbe per l'Egitto, due delle quattro opere un tempo presenti in museo e recentemente ascritte a Christian Reder dal prof. Dario Succi; la famosa Veduta delle mura di Castelfranco di pittore veneto della fine del XVIII secolo; la straordinaria Apoteosi di Napoleone del nostro Francesco Olivetti; la bella raccolta di opere di Noè Bordignon e dei fratelli Tessari, nonché il nutrito gruppo di opere di Bruno Gherri Moro, artista al quale la nostra Città deve da decenni una mostra; le tele vincitrici dei Premi Giorgione-Poussin o in quelle occasioni acquisite, come i lavori di Guido Farina, Orazio Pigato, Giorgio Bellandi, Luciano Gaspari, Maria Luisa De Romans, Sandro Sergi, Giorgio Dario Paolucci, Luigi Cobianco, Corrado Balest, Silvio Loffredo, Gigi Candiani, Riccardo Licata e Delima Medeiros.

     A completamento di tutto quanto sin qui detto, vale la pena tornare seriamente a pensare oggi, che per vari motivi la meritevole iniziativa di aprire un museo dell’opera del Duomo sembra essersi forse irrimediabilmente arenata, alla possibilità, qualora finalmente si riuscisse a riaprire il nostro museo civico negli spazi adeguati e capaci, appunto, di villa Revedin-Bolasco, di far confluire in esso alcune opere del “tesoro” della chiesa “di dentro”. Sin dal 1926, il Soprintendente dei monumenti di Venezia, Gino Fogolari, aveva paventato l’eventualità di poter trasferire al museo, «se non tutti», almeno alcuni dei quadri conservati nei locali della sacrestia del Duomo. A tale soluzione, s’è pensato anche in altri momenti e la scelta potrebbe essere certo più che felice, poiché si darebbe la possibilità al nostro museo di disporre di opere di notevole valore storico-artistico quali altrimenti non avrebbe (compreso il ricchissimo patrimonio di argenti, arredi e paramenti liturgici e non solo liturgici, pizzi, codici miniati, manoscritti e libri rari) e, al contempo, di rendere visibile una ricchezza di pregio davvero unica. E, in fondo, a ben pensarci, anche il Duomo in passato ha espletato funzioni che sono state squisitamente museali, come l’aver raccolto e conservato molte opere d’arte e manufatti provenienti dalle soppresse congregazioni religiose o, grazie all’interessamento conte Filippo Balbi e al dott. Francesco Trevisan, averci assicurato alcuni brani in affresco del Veronese e dello Zelotti strappati nei primissimi anni del XIX secolo dalla demolita villa Soranza.

     Per concludere, si può dire quindi che Castelfranco oggi ha le opere ma non ha un museo, ha uno straordinario involucro in villa Revedin-Bolasco ma lo lascia cadere decrepito quando, permettete il gioco di parole, si potrebbe passare, per la villa, le opere e il museo, dall’Inferno “al Paradiso”.

 

Bibliografia di riferimento

1875 - Catalogo dei dipinti appartenenti alla Famiglia Tescari di Castelfran­co Veneto, Padova.

1884 - Esposizione Generale Italiana in Torino - 1884, Sezione Speciale Memo­rie del Risorgimento Italiano, Catalogo degli Oggetti Esposti dalla Commissione Padovana, Padova.

1895 - Favero E., Pellizzari V., Le Cento Città d'Italia - Castelfranco Vene­to, in "Supplemento mensile illustrato del Secolo", Milano, 25 maggio 1895.

1928 - Marta G., Le Cento Città d'Italia - Castelfranco Veneto - La patria di Giorgione, Milano.

1961 - Primo Premio di pittura Giorgione-Poussin, catalogo della mostra, Ca­stelfranco Veneto, Palazzo Bolasco, 3-17 settembre 1961, Cittadella.

1963 - Il paesaggio veneto - Secondo Premio biennale di pittura Giorgione per artisti contemporanei, catalogo della mostra, Castelfranco Veneto, Pa­lazzo Bolasco, 25 agosto - 30 settembre 1963, Cittadella.

1965 - Bordignon Favero G., Le Opere d'arte e il Tesoro del Duomo di S. Maria e S. Liberale di Castelfranco Veneto, Bergamo.

1973 - Anderson J., Same new documents relating to Giorgione's 'Castelfranco Altarpiece' and his patron Tuzio Costanzo, in "Arte Veneta", a. XXVII.

1997 - Opere della Civica Collezione Museale, catalogo a cura di Marco Mondi, Castelfranco Veneto, Casa di Giorgione - Galleria del Teatro Accademico, 15 novembre 1997 - 25 gennaio 1998, Dosson di Treviso.

 

 

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