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presenta

 

Noè Bordignon:

la tradizione nella geniale rappresentazione

del Realismo veneto del nostro entroterra

di Marco Mondi

 

(da MARCO MONDI, Noè Bordignon: la tradizione nella geniale rappresentazione del Realismo veneto del nostro entroterra, Rino Bordignon, una promessa mancata e Luigi Stefani (1899 - 1987), in San Zenone degli Ezzelini Terra di Artisti, catalogo a cura di Comitato San Zenone Terra d’Artisti e Gruppo d’Arte Noè Bordignon, San Zenone degli Ezzelini, Villa Marini-Rubelli, 16 settembre 2011 – 8 gennaio 2012, Ramon di Loria, 2011, pp. 104-123)

  

Nell’ambito del Realismo veneto che, dagli anni Settanta del XIX secolo, diviene l’espressione più importante della nostra pittura, la figura artistica di Noè Bordignon spicca, e vien da dire quasi solitaria, per la genuina rappresentazione della vita quotidiano-vernacolare del nostro entroterra, risolta con una qualità pittorica e compositiva che non teme il confronto con quella di altre personalità ancora oggi più note, conosciute e studiate. Questa geniale rappresentazione, sin dai primi anni d’attività dell’artista, con un crescendo evolutivo da vero grande maestro, espresso tanto nel ductus pittorico-coloristico quanto nell’impianto compositivo-architettonico, si è avvalsa di una lettura assai acuta e penetrante della gloriosa tradizione artistica veneta, lasciandoci alcuni dei più alti brani interpretativi, in questo senso, raggiunti dalla pittura veneta tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, delle lezioni di Giorgione, Tiziano, Paolo Veronese, Jacopo Bassano o Giambattista Tiepolo, reinventati nell’ambito del Realismo.

Noè Bordignon, nato a Salvarosa di Castelfranco il 3 settembre 1841, quarto di otto figli, non ebbe un’infanzia facile. La madre, Angela Dorella, morì a trentasette anni, nel 1848; il padre, Domenico Lazzaro, sarto, fu costretto a ricorrere all’aiuto della sorella Maria Luigia per crescere i figli, in una situazione economica ben poco rosea. Trasferitesi ad abitare a Castelfranco, nell’abitazione ancora oggi esistente in Borgo Treviso (e affrescata più tardi dal pittore), il giovane Noè poté frequentare la locale scuola, dove fu subito notata la sua propensione all'arte, tant'è che non tardò a distinguersi nel disegno ornamentale. Terminati questi primi studi, fu solo grazie all'interessamento e al sostegno economico di alcuni privati e dello stesso Comune che poté iscriversi e frequentare la Regia Accademia di Belle Arti di Venezia.

L’ambiente artistico trovato da Bordignon nella città lagunare, oramai alla vigilia della sua annessione a quello che sarà il Regno d’Italia, era un ambiente fervido e ricco di molti stimoli; tuttavia, la cultura ufficiale dell’epoca, quella che incontrò e nella quale si formò, era ancora tutta farcita di un Romanticismo “provinciale” che il nostro territorio, come gran parte di altre zone d’Italia, non riuscì mai a vivere e assimilare completamente così da poterlo esaurire e criticamente sorpassare. La ragione principale, prima che artistica, fu sociale: il passaggio dal Vecchio Regime a una società moderna fu lento, spesso contraddittorio, e soprattutto legato a un forte conservatorismo di stampo aristocratico e borghese; così, il Romanticismo non trovò da noi mai lo sfogo che trovò altrove e si trascinò per tutto l'Ottocento (e parte del Novecento), affiorando continuamente in modo a volte più, a volte meno marcato. All’Accademia, dove il giovane Noè seguì con particolare attenzione i corsi di Michelangelo Grigoletti, Carlo De Blaas e Pompeo Marino Molmenti, e dove, pur non tutti coetanei, suoi compagni di studio e amici furono personalità quali Guglielmo Ciardi, Luigi Nono o Giacomo Favretto, gli insegnamenti vertevano a educare i giovani pittori a un giusto apprendimento delle tecniche esecutive e a un presto discusso, ma voluto e acclamato dagli ambienti istituzionali, "stile" figurativo didatticamente ispirato ai modelli dei grandi artisti del passato nella preoccupazione, per lo più, di ottenere una resa fedele, quasi oleografica, della rappresentazione. L'ideale del bello fu, per certi versi, l'ideale della somiglianza a tutti i costi adattata a tematiche ridondanti di motivi storico-mitologico-classiccheggianti, non senza il grido "petrarchesco" di <<liberar l'Italia de' barbari>>. L'attenzione si concentrò, allora, sul soggetto da trattare, enfaticamente farcito d'ogni genere di pregiudiziale filosofica, teorica, poetica, morale, religiosa, politica, come se il soggetto, così teatralmente mascherato, fosse l'unico fattore in grado di innovare e differenziare un'opera da un'altra. Michelangelo Grigoletti era un delicato ritrattista dotato di una sensibilità di ascendenza ancora settecentesca, Carlo De Blaas un ritrattista romantico inventore anche di suggestive scenografie di gusto palesemente mitteleuropeo e Pompeo Molmenti un artista sotto certi versi rivoluzionario all’epoca, in città, per la sua capacità di esprimersi in un modo nuovo, aperto a una resa realistica particolarmente attenta alla nuova vita borghese, capace però, al tempo stesso, di raffigurazioni farcite di storia e di letteratura com’è il suo capolavoro, La morte di Otello (1869-1879). Furono tutti maestri insigni, accanto ai quali lavoravano anche pittori come un Domenico Bresolin, ad esempio, che amava tener lezioni portando i propri allievi a dipingere all’aria aperta, o si affiancavano personalità come Camillo Boito, capace di annotare che «La grandezza dell'arte veneziana vecchia è un impiccio alla beltà dell'arte veneziana nuova. I pittori non hanno l'animo di rompere la catena della tradizione; non hanno l'animo di guardare il vero in faccia» (La pittura d'oggi a Venezia, 1871). Se per tanti pittori «la grandezza dell'arte veneziana vecchia» fu davvero un limite, per Noè Bordignon, invece, rappresentò un humus fecondo in grado di garantirgli la possibilità d’intraprendere un dialogo sempre sincero, profondo e del tutto moderno col suo “mestiere” d’artista, un dialogo che gli permise non solo di «guardare il vero in faccia» ma di riviverlo nella sua pittura.

Dei suoi primi anni di attività, si sa ben poco. Un nudo accademico in collezione privata, forse dei disegni, alcuni ritratti, però, ci fanno supporre sensatamente che i suoi più precoci e impegnati lavori non dovessero poi scostarsi di molto dal gusto della pittura ufficiale dell’epoca, appresa dagli insegnamenti dei suoi maestri. La recente tesi di laurea su Noè Bordignon di Emiliano Covre e il suo illuminante scritto pubblicato in questo catalogo (al quale si rimanda e in merito al quale lo ringrazio per avermene concesso la lettura prima della completa stesura del presente testo), però, ci forniscono importanti e nuovi elementi per gli anni immediatamente successivi, permettendoci di chiarire le vicende che gli meritarono il pensionato triennale a Roma tra il 1871 e il 1874, nonché fornendoci un elenco di opere che il giovane artista aveva realizzato in quegli anni. I contributi del dott. Covre, inoltre, ci consentono di meglio interpretare la volontà di Bordignon nel voler uscire dai tradizionali schemi di apprendimento accademico per volgere la sua attenzione a una concezione più moderna del fare artistico, aperta all’esigenza d’improntarne i lavori su di una visione tratta dal vero e all’aria aperta tanto della natura quanto dell’uomo, confermandoci così una predisposizione precoce verso il Realismo.

Il viaggio di studio a Roma rappresentò un momento fondamentale non solo di questi suoi primi anni d’attività, ma per la sua intera carriera d’artista. Infatti, in un certo senso come fu per Tiziano, quando tre secoli prima se andò a Roma ospite di papa Paolo III Farnese a “esaurire” la sua cosiddetta “crisi manieristica” per poter finalmente reinventare il colore della pittura veneta, pure per Noè Bordignon questo lungo pensionato nella capitale (non senza rapporti con la pittura napoletana e con l’ambiente artistico toscano e dei Macchiaioli), oltre alla necessità di confrontarsi con una visione realistica tratta en plein air, rappresentò anche l’occasione di vedere, conoscere e studiare l’arte allora più in voga del Romanticismo italiano, con una particolare attenzione verso Puristi e Nazzareni, e un passato artistico-culturale straordinario, che spaziava dall’antichità per antonomasia al Rinascimento di Michelangelo e Raffaello, dal realismo di Caravaggio al classicismo dei Carracci, di Reni e di Poussin, dal trionfo del Barocco e di Bernini all’ambiente dell'Accademia di Francia e delle schiere dei pensionanti francesi al Prix de Rome, da David a Ingres. Un universo figurativo, insomma, che gli permise di dar sfogo a un apprendimento pittorico dal quale, gradualmente, come fu per il cadorino, ritornerà a sentirsi e a voler essere pienamente veneto, nel colore e nella composizione.

Nel 1874, al suo rientro a Castelfranco e a Venezia, pertanto, Bordignon è un giovane artista che ha maturato molteplici esperienze, utili a formargli una personalità pittorica capace di permettergli di affrontare, su tela e in affresco, lavori anche impegnativi e di rilievo. Poche, però, sono ancora una volta le opere che ci permettono di indagare bene la sua personalità in questi anni. Se in alcuni ritratti vivono ancora preponderanti gli insegnamenti appresi all’Accademia, con certe leziosità nelle vesti che rimandano al Grigoletti, nella Dama a cavallo con paggio della centina sopra il portale del palazzetto Martini-Stecca in Castelfranco, da alcune fonti datato addirittura al 1870, prevale un'aggraziata eleganza storicistica di gusto giorgionesco-carpaccesca, mentre negli affreschi del pronao della chiesa di Santa Maria Nascente della Pieve Nuova, sempre in Castelfranco, è maggiormente evidente l'influenza di un Romanticismo di stampo purista e d’ascendenza romana.

Nonostante nel frattempo avesse aperto uno studio a San Vio, sembra che nell’Ottavo decennio dell’Ottocento Noè Bordignon ricevesse buona parte dei suoi incarichi di lavoro più importanti proprio nell'ambito del territorio che da Castelfranco si estende fino a Bassano e alle porte di Schio da un lato, a Vittorio Veneto e all’entroterra della più vicina provincia di Venezia dall'altro. Di grande rilevanza a tal riguardo, inoltre, fu la stima di amici e ammiratori, come quella profonda e cordiale con la poetessa Enrichetta Usuelli Ruzza e con la sua famiglia, con lo scultore Serafino Ramazzotti e col pittore Andrea Favero. Furono proprio questi amici, che in più occasioni lo invitarono a fermarsi nei loro possedimenti di San Zenone, a essere il probabile tramite dell’affidamento del complesso ciclo in affresco della locale parrocchiale, che lo vide impegnato per circa un decennio, sino al 1882. A tal proposito, vale la pena soffermarsi su alcuni disegni e bozzetti esposti in mostra, per meglio vedere come Noè Bordignon usasse affrontare i lavori in affresco e, quindi, comprendere meglio la sua arte. Lo Studio per "La gloria del Vescovo San Nicolò" per l’affresco nella chiesa parrocchiale di Monfumo (tav. xx), del 1877 circa, ci mostra come, pur rientrando in un modus operandi piuttosto tradizionale e comune all’epoca, l’artista ideasse la composizione partendo dall’elaborare la raffigurazione d’insieme attraverso veloci e rapidi schizzi atti a delineare l’opera nelle sue parti salienti. Sono prime idee che possono subire in fase di lavorazione talvolta anche profondi ripensamenti, ma che lo mostrano tutte artista già maturo. Così come in altri studi per affreschi, nello Studio per "La gloria del Vescovo San Nicolò" in particolare, si riscontra una maestria esecutiva caratterizzata da una frizzante e sciolta gestualità del segno grafico, da una sapiente ricerca luministico-cromatica-chiaroscurale delle acquerellature e da una complessità compositiva risolta con un ritmo sinuoso e ascendente da rappresentare uno dei tanti felici esempi di come l’artista abbia saputo leggere in profondità le ingegnose architetture figurative del nostro glorioso passato, di Giambattista Tiepolo nella fattispecie. Una volta chiarita al meglio la composizione, Noè Bordignon passava a sviluppare i particolari delle singole parti in disegni talvolta anche ben dettagliati, come si può vedere nello Studio di figura maschile per la Resurrezione della Carne per la chiesa di Pagnano d’Asolo (tav. xx), del 1874, o negli studi per il Giudizio Universale della parrocchiale di San Zenone (tavv. xx, xx, xx), della fine del decennio. In questi, prevale una maggior lucidità descrittiva, quando serve coinvolgente e drammatica, dove il tratto tipicamente veneto del segno trova essenzialità di positure d’ascendenza purista e ombreggiature e lumeggiature talvolta “solari” e limpide, memori delle esperienze romane. Si noti come, per gli studi del Giudizio Universale, quell’evidente influenza michelangiolesca che pervade l’intera opera in affresco, sia qui alquanto smorzata a favore di una liricità più coloristico-luminosa. La quadrettatura, infine, si rendeva necessaria per riportare la composizione definitiva del singolo particolare sul cartone da trasporto, al fine di poterne effettuare lo spolvero sull’intonaco da affrescare. Lo sviluppo dell’ideazione poi, e sovente al tempo stesso, trovava le soluzioni cromatiche e di luce necessarie per mezzo della realizzazione di bozzetti. Nel davvero straordinario bozzetto per il Gesù figlio di Dio del soffitto della parrocchiale di Montaner (tav. xx), del 1877 circa, Noè Bordignon risolve l’architettura compositivo-cromatica della raffigurazione dandoci ancora una volta un saggio esemplare di come la nostra gloriosa tradizione pittorica sia ben più stimolo e geniale concordanza d’ispirazione che limite: colto con un’efficace prospettiva dal sotto in su, il colore modella il cartone con pennellate sciolte e decise, capaci di plasmare la composizione in un crescendo di ricerca luministica fatta tutta di materia cromatica, che fin quasi arriva a una deflagrazione che abbaglia là dove appare la figura del Padre Eterno. Tanto nelle figure del primo piano quanto e soprattutto nell’impasto luminoso dell’apparizione di Dio, ci troviamo una volta ancora davanti ad un saggio che non sarebbe dispiaciuto al Tiziano dell’Annunciazione di San Salvatore a Venezia; mentre lo svolazzo degli angeli, con le loro gambe ardite e le ali spianate, una volta in più riporta al Tiepolo padre. La stessa felicità esecutiva nella ricerca formale e luministica, accende le Figure in gloria della Civica Raccolta Comunale di Castelfranco Veneto (tav. xx), mentre una scioltezza, se possibile, ancora più fresca e frizzante, quasi come un Boldini permeato da una moderna gestualità espressiva, caratterizza lo Studio per figura femminile allegorica (1896 circa) di una facciata di casa Canevaro-Passarin in Bassano del Grappa (tav. xx), risolta compositivamente con una stasi ritmica che pare meditata in sintesi sugli esempi del Veronese e del Tiepolo. Infine, come spesso si riscontra nei suoi affreschi quando li si confronta con queste prove di altissima qualità, il risultato finale dell’opera compiuta sembra spegnersi in rigidezze esecutive di matrice quasi accademica dove, come nel Giudizio Universale di San Zenone, pur con le non poche difficoltà nell'orchestrare prospet­ticamente la pittura sulla forma ricurva dell'abside, si percepisce un amalgamarsi disomogeneo, una sorta di mancanza di fluido dialogo e continuità visiva tra tutte le parti e tutte le figure dell’intero complesso, dando così la sensazione che esse possano vivere ciascuna nella loro autonomia; risultato, questo, anche del voler delineare con precisione ogni singolo dettaglio in un apposito disegno disgiuntamente dall’insieme, facendone la matrice prima per il successivo trasporto a grandezza reale del soggetto sull’intonaco da dipingere.

Pur non essendo oggetto diretto di questa disamina se non tramite alcune opere preparatorie esposte in mostra, negli affreschi (per la cui elencazione, così come per i dati biografici sull’artista, si rimanda alla puntuale e approfondita esposizione pubblicata in catalogo da Luigi Dal Bello) si può riscontrare come, col graduale passaggio a un Realismo già sentito sin dai tempi di Roma, Bordignon altrettanto gradualmente tratti i soggetti raffigurati con stilemi di carattere sempre più naturalistici e veritieri. Un’evoluzione similare, si percepisce pure nelle pale d’altare, come, ad esempio, la Sant'Eurosia del santuario di Cendrole di Riese Pio X (che reca la dicitura “Roma 1872”), le quali si possono quasi collocare in uno stadio intermedio tra l’affresco e la pittura da cavalletto, dove le due tecniche sembrano fondersi tanto nel processo ideativo ed esecutivo (con l’aggiunta, talvolta, della realizzazione di veri modelletti da presentare ai committenti come esempio di come sarà il lavoro finito), quanto nel risultato finale ottenuto. Il fatto stesso, poi, dell’ingente mole di lavoro commissionatagli in ambito chiesastico, è inevitabilmente legato alla sua vocazione e alla sua fede cristiano-cattolica nella quale è stato cresciuto e educato, e che mai, in tutta la sua vita e in tutta la sua carriera artistica, rinnegherà (su queste basi, si collocherà anche la profonda stima e amicizia con i Padri Armeni di Venezia e di San Zenone). Anzi, tanto forti saranno le sue convinzioni a tal riguardo che, quando sarà costretto ad abbandonare Venezia per non voler aderire alle elitarie logiche massoniche, si ritirerà con grande dignità cristiana nei suoi luoghi natii, diventando ancor più uno dei massimi interpreti della realtà socio-rurale del nostro entroterra, proprio perché questa sarà sentita e vissuta anche nella convinzione della fede cristiano-cattolica.

Se nei lavori in affresco la sua creatività fu in qualche modo vincolata alle esigenze della committenza e a una maggiore necessità di aderire a stilemi compositivo-formali di stampo tradizionalista, nelle opere da cavalletto, che per numero e qualità, dalla fine dell’Ottavo decennio del XIX secolo, ci permettono di meglio comprendere la sua evoluzione artistica, si nota una graduale decisa volontà di aderire sempre apertamente più alle nuove tendenze del Verismo; linguaggio figurativo, questo, in grado di rinvigorire, nel volgere del decennio successivo, non solo la pittura di Bordignon, ma praticamente tutta quella veneta. Il ritratto Ragazza con velo bianco (tav. xx), del 1878, è un’opera del tutto esemplare a tal riguardo, nella quale Bordignon mostra d’aver raggiunto una sua prima vera maturità del tutto moderna e nuova. La minuziosità con cui sono definiti i bei lineamenti dell’effigiata, che fanno trasparire un’indagine psicologica morale e caratteriale, si trasforma negli altri brani del dipinto in una scioltezza del pennellare da vero maestro, dove la luce si fa protagonista come in taluni paesaggi di questa stessa epoca di Guglielmo Ciardi, sebbene qui il colore s’accenda di luminismi che hanno la stessa intensità di certe sciabolate materiche di luce che si possono vedere nelle tele del Tintoretto della Scuola Grande di San Rocco o dell’ultimo Tiziano. La composizione accademico-classiccheggiante e il modo di delineare e colorare le figure dei bambini che giocano nella solare campagna romana di quel capolavoro di questo periodo qual è La mosca cieca (che le ricerche di Emiliano Covre anticipano al 1874 circa, costringendo a una nuova interpretazione della data apposta sul dipinto e a possibili riletture storico-artistiche della sua attività in quegli anni – si veda, a tal proposito, lo scritto in catalogo dello studioso), si dotano ne’ Lo scherzo (tav. xx), all’incirca dello stesso momento, ancor più di un ductus pittorico già atto a rendere veritiero il dato reale in una narrazione credibile di un momento di vita quotidiana: in una struttura architettonica d’insieme calibrata come in uno scatto fotografico, la scena rappresentata è tratta, infatti, con una minuziosità descrittiva d’ascendenza ancora accademica la quale, però, permette al colore dei farsi luce e rendere così veritiera, spazialmente e psicologicamente, la scenetta dello scherzo fatto al bambino in piedi sul tavolo. La soluzione compositiva di porre l’uomo in piedi col sigaro al centro della rappresentazione, si giustifica dalla necessità di farne un punto di riferimento attorno al quale ruota credibile ogni singolo elemento figurativo, colto sin da queste prove con una lucidità naturalistica da vero pittore, come provano i brani del cesto di vimini sul tavolo, le cangianti pieghe delle vesti bianche dei personaggi o i panni stesi ad asciugare al di là delle arcate. Il sentimento aneddotico che ne esce, libera il dipinto dalla teatralità della messa in scena accademica a favore di una naturale esposizione del fatto quotidiano.

Suoi successivi soggiorni a Roma nel corso dell’Ottavo decennio, probabilmente con altre tappe, necessari affinché potesse esaurire il più possibile ogni retaggio accademico-tradizionalista a vantaggio di un Verismo che andrà a trovare nel colore la sua più genuina espressione veneta, sono testimoniati proprio dalle opere di questi anni. Lo scherzo, appena descritto, reca sotto la firma la dicitura “Roma” (ma può essere antecedente a La mosca cieca); la Civica Raccolta Comunale di Castelfranco, conserva un grande Ritratto di Umberto I re d'Italia che reca la dicitura “Roma 1880”; in collezione privata, si conservano alcuni album di disegni dove esplicitamente si fa riferimento alla capitale, ai suoi quartieri, alle sue chiese e ai suoi monumenti, con tanto di date; nel 1878, inoltre, all’Esposizione dell’Accademia di Belle Arti di Venezia risulta esposta l’opera Contadina in chiesa all’Ara Coeli a Roma.

Quando nel 1880 gli fu conferita la «pensione governativa per merito distinto», permettendogli di tenere «studio ed alloggio gratuito a Palazzo Rezzonico» (Luigi Dal Bello, 1982), Noè Bordignon poteva considerarsi un giovane artista di un certo successo anche a Venezia, città che da questi anni e per oltre un decennio fu la principale sede della sua attività di pittore, tanto più quando nel 1885 gli morì il padre e nel 1886 sposò la veneziana Maria Zanchi, trasferendosi a vivere a Dorsoduro. Negli anni Ottanta, per Bordignon e per la maggior parte dei più dotati pittori veneti, prende avvio un periodo artistico davvero straordinario, che vede il deciso affermarsi del Verismo anche in campo pittorico, sebbene un po’ in ritardo rispetto ad altre realtà, anche italiane. Venezia, come sempre nella sua storia, fu il principale punto di riferimento culturale di tutto il nostro entroterra e l’affermarsi (e il graduale mescolarsi con l’antica nobiltà fino col finir a sostituirsi a essa), in città e in provincia, di una nuova e ricca borghesia di estrazione fondamentalmente rurale e, solo in un secondo momento, commerciale, inevitabilmente si riflette anche in campo artistico, dove col cambiare della committenza cambia necessariamente il gusto estetico, l'esigenza figurativa dell'artista e il suo ruolo all'interno della società. Il Realismo veristico, caratterizzato da una genuina vena, vera e autoctona, fatta di raffigurazioni aventi come soggetto la quotidianità cittadina, popolare e rurale, diviene il genere prediletto e più sentito dalla nuova ricca borghesia e, quindi, dagli artisti. Il popolo e le classi meno agiate in genere, sulle quali, appunto, si fondava la ricchezza di questa nuova borghesia, sempre più spesso sono innalzate a nuovo modello artistico. Qua e là, ogni rappresentazione s’imbeve di quella vena romantica cui s’è fatto cenno e la produzione artistica di ogni singolo pittore sembra sostanzialmente dividersi in due generi, spesso tra loro tangenti e con tematiche similari: scenette di carattere popolare tutte permeate di una spensierata e quasi gioiosa voglia di vivere, da un lato, e scene con gli stessi ambienti e gli stessi personaggi presentati per la loro testimonianza di realtà e condizione sociale, dall'altro, come ne' La pappa al fogo e ne' Gli emigranti di Noè Bordignon. In pittura, una via è quella della "macchia" (non sono casuali, infatti, i collegamenti con la pittura toscana) e l'altra quella del virtuosismo. Caratteristiche che giungono entrambe dalla tradizione settecentesca veneta delle piccole "macchiette" di colore del Canaletto e delle pennellate "virtuose" del Tiepolo. Ricollegandosi ai pittori dell'ultima grande stagione dell'arte veneziana, molti dei nostri artisti dell'Ottocento riprendono il discorso figurativo che era venuto improvvisamente a cadere con la fine della Repubblica, e lo sviluppano e aggiornano mettendolo a confronto, nelle reciproche influenze, con le ricerche dei macchiaioli toscani, dei realisti napoletani, degli scapigliati lombardo-piemontesi, ecc. A tal riguardo, un ruolo fondamentale, oltre ai viaggi studio, vengono ad assumere le esposizioni organizzate a Venezia e in veneto, nel resto d’Italia e all’estero (Bordignon inviò molte opere per esporle a mostre in tutt’Italia e all’estero, ricevendo riconoscimenti e premi), nonché la pubblicazione sempre più diffusa di specifici giornali d’arte e scritti sull’argomento. Il diffondersi poi della fotografia, meriterebbe una trattazione a parte, considerando l’enorme importanza che questa nuova tecnica artistica ebbe per tanti pittori.

Nell’opera Compatrioti di Canova (tav. xx), del 1884 circa, la scena, suggestivamente e sintomaticamente ambientata davanti alla tomba dello scultore in Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, mostra una grande eleganza compositiva, fatta di un sintetismo rappresentativo essenziale e bilanciato, e di un cromatismo delicato e vibrato nei colori del primo piano, giocati tutti su rapporti qua tonali e là timbrici, sempre in perfetta sintonia col marmoreo biancore del monumento piramidale che fa da fondale. Come in letteratura, anche in pittura il Verismo non può rinunciare a rimandi storici e artistici del passato; anzi, è proprio su di essi, come in questo caso, che trova una motivata giustificazione socio-culturale, che altrimenti potrebbe sembrare estemporanea. Il racconto dell’opera è esplicito e toccante, e non vi è alcuna enfasi teatrale, né alcuna macchinosa messa in scena che possa sminuirne la verità rappresentativa. Ecco la nostra realtà oggi, sembra volerci dire il pittore, da quando con la morte del Canova è morta un’epoca ed è morta una civiltà! Eppure, ciononostante, nelle difficoltà e nella miseria la vita continua, e può essere ancora bella e riservarci gioie sincere ed emozioni profonde. Veneto più che mai nel colore, soprattutto là dove plasma di materia i gradoni policromi e vecchi della pavimentazione (ma anche nelle vesti e negli incarnati, e persino nelle classiche figure marmoree della tomba, per il riverbero che conferisce loro la luce, che è prima sostanza cromatica e poi forma), Bordignon ci fa partecipi di un’istantanea di vita quotidiana che ci rapisce non nella contemplazione dell’opera ma nella partecipazione all’opera. La stessa volontà “obiettiva” di descrivere particolari momenti della vita quotidiana della sua epoca, si riscontra anche in La dottrina. Lezione di catechismo (tav. xx), dipinto che nuovamente trova ambientazione all’interno di una chiesa, a riprova di come Bordignon sentisse la fede cristiano-cattolica e il suo operato di tutti i giorni, spirituale e materiale, capaci di assolvere un ruolo determinante per l’educazione e l’edificazione della morale della propria società. Quanto un rapido scatto fotografico, come sembra suggerire la rigorosa prospettiva dell’ambiente e la spontanea diversità delle positure e degli atteggiamenti delle figure, questo importante scorcio “morale” di quotidianità educativa, ritratta nel suo svolgersi reale e veritiero, pare colto attraverso la "lente" del pennello che ferma con lo stesso rilevo tanto i gesti, gli sguardi e i sentimenti di gioia e serenità o di raccoglimento e religioso rispetto, quanto le vesti, l’architettura, le decorazioni o gli oggetti e i particolari anche più minuti e apparentemente insignificanti, ma tutti veritieri, credibili, reali quanto la scena stessa in tutto il suo insieme. Straordinaria per la sua architettura disegnativa e per la suggestiva capacità evocativa del cromatismo, è la pavimentazione della chiesa che, coloristicamente, sorregge nel vero senso della parola le parti più in luce, esaltate dal riverbero di quelle in ombra e dal tremolio dei bianchi di sfondo, come quello ampio e vissuto dal tempo della parete in alto a destra. Se anche si volessero ricercare delle note di ascendenza romantica o accademica, queste sono totalmente riassorbite dalla sentita verità della rappresentazione, così come il composto raccoglimento e la riservata spiritualità devozionale dell’Interno di Santa Maria dei Frati a Venezia (tav. xx), del 1886 circa, traspirano, in una prospettiva ancora una volta dal taglio fotografico, dall’essenzialità compositiva della scena, resa tanto più efficace e credibile proprio dalle note cromatiche della pavimentazione che, mettendosi in rapporto coloristico col biancore dei gradoni e della balaustra marmorea, ci aprono a un brano di vibrazioni quasi monocrome delle parti in ombra, che riportano alla memoria certe similari soluzioni adottate in alcuni fondali di tele di Jacopo Bassano o di Tiziano stesso; il tutto, pensato per meglio esaltare la nobile semplicità ed eleganza della donna inginocchiata in primo piano, genuino esempio di una spiritualità morale che non trova divisioni di classi sociali, d’estrazione o di cultura.

Tra le altre tematiche affrontate da Bordignon in questi anni, e per tutto l’ultimo decennio del secolo, vi sono numerosi interni nei quali ritrae, sempre con la sua consueta capacità di coglierne il vero esteriore e interiore, momenti di fresca e genuina intimità domestica. Esemplare a tal proposito sono alcune opere che si possono collocare tra la fine del nono e l’inizio del decennio successivo. Motti e risate (L’ottavo è non mentire - tav. xx), del 1888, è una stupefacente impaginazione nella quale la ripresa ravvicinata della scena rende lo spazio angusto e affollato (e tornano alla mente gli spazi del Pordenone), ma più efficace per trasmettere l’intimità del pettegolezzo femminile offertoci con monito moralistico-religioso in una raffigurazione magistrale nella tecnica pittorica e nell’impianto compositivo; soluzioni, queste, robuste come talune lezioni del Tiepolo e veritiere come le più riuscite opere di Favretto. Di grande e gioioso impatto emotivo, è la tela raffigurante Amore materno (tav. xx), da identificarsi forse col più volte citato da varie fonti Tesoro della mamma, dove il commovente abbraccio tra madre e figlia è reso ancora più intimamente sentito dall’ambientazione semplice, ma decorosa, dell’interno. In quest’opera, se le accese note cromatiche delle stoffe gialle, rosse, bianche e azzurro-grigistre risentono ancora delle delicatezze accademico-neo-settecentesche o barocche che rimandano al Grigoletti o, forse, più ancora all’Hayez, è ancora l’emozionato riverbero della luce, tutta veneta, delle zone in ombra a renderci partecipi di una realtà sinceramente credibile, piena di sentimento ma non di sentimentalismo.

Che, in questi anni, Bordignon sentisse con particolare partecipazione la tematica della maternità, appare del tutto naturale qualora si consideri che nel 1887 gli nacque Anna, nel 1889 Lazzaro (Rino), nel 1891 Francesco, nel 1893 i gemelli Mariano Andrea (Edoardo) e Maria e nel 1897 Giulia, che morirà il giorno dopo la nascita. Opere come L’arcolaio (tav. xx) o Maternità (tav. xx), sviluppano questo genere di soggetto con un dichiarato senso di sacralità religiosa, quasi come si trattasse della Madonna col Bambino. Là dove, però, Bordignon innalzò questa tematica a capolavoro assoluto della pittura veneta di fine secolo, è ne’ La pappa al fogo (tav. xx), dipinta per essere esposta alla prima Biennale veneziana, nel 1895. La vicenda di quest’opera, suggella anche un delicato momento della vita dell’artista, le cui conseguenze saranno determinanti anche per il resto della sua attività, poiché, dopo che il dipinto, per “gelosie” di vario genere e per contrasti etici (e pur legali), fu <<barbaramente respinto>> dalla mostra (l’opera sarà allora spedita in esposizione a Roma e poi a Milano e a Parigi), Bordignon sentirà la necessità di abbandonare Venezia per ritirarsi nella sua Castelfranco e a San Zenone. La tela raffigura l'interno di una cucina, dove la giovane madre e i due figlioletti sono ritratti nell'intimità della loro umile vita quotidiana. Pittoricamente tutto è esemplare, ineccepibile, di alta qualità, sia formale sia compositiva, nel disegno e nel colore; tutto è degno dei grandi maestri dell'epoca, da Segantini a Luigi Nono. L'ambientazione evidenzia povertà e miseria, che sono in questi anni disagiata condizione di vita per molte famiglie della terra veneta; e nella rappresentazione non vi è immaginazione o enfatica volontà di letteraria ostentazione. Non vi è nemmeno drammaticità, né rassegnazione, e neanche intento polemico nel presentare una realtà che pur ha una sua dimensione sociale, politica anche, nella direzione di quel cattolicesimo che trovava allora il suo punto di riferimento nella Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, nell'ambito cioè di un pensiero cristiano-sociale attento alle condizioni di vita della classe contadina. La giovane e bella madre è intenta al proprio lavoro, che verrebbe quasi da definire "istituzionale": accudire ai figli, educarli, nutrirli, vestirli, accudire alla casa, accudire alla famiglia. La bambina attende che la "pappa" sia pronta e, composta, osserva la madre: impara. Il bambinetto non resiste, non ha la pazienza di aspettare, assaggia la "pappa": ma a lui è consentito perché, sebbene piccolo, è pur uomo, e la società rurale è, fondamentalmente, una società patriarcale. La cucina è un tugurio, e tutto lo sottolinea: il pavimento, le pareti, i pochi mobili, ogni piccolo oggetto e la stessa luce, che Bordignon vuole soffusa, rivelatrice solo attraverso la penombra, pian piano, senza irruenze; una luce che dà il ritmo del tempo, un adagio, con il quale l'opera vuole essere ammirata... e capita. Non ha nulla di monumentale, eppure può essere considerata un monumento alla tradizione "liturgico-rurale" del nostro entroterra. Attraverso cosa, Bordignon, giunge a tanta arte? E' l'amore profondo, il sentimento forte, incorrotto, che lega l'artista alla propria terra; che lega l'artista alla stessa tradizione pittorica della propria terra: andando indietro nel tempo si arriva a pensare al realismo dei Bassano, alla possente forza espressiva di Tiziano e, addirittura, a Giorgione, nella dolcissima figura delle giovane mamma, quando, alla fine del secolo scorso la Madonna della Pala si credeva la Cecilia, una popolana, l'amante di Giorgione. E a ben guardare il dipinto, la quotidianità che in esso, con partecipazione, è raffigurata ha tutto il sapore, la dignità e la semplicità della sacralità del rito religioso: quella povertà, quella miseria esteriore è trasformata in ricchezza spirituale; e l'attesa, nel paziente e umile lavoro, è il patrimonio morale che porta al di là della semplice resa realistica, che, semmai, senza il bisogno di ricorrere ad alcuna forma di enfasi o di retorica, fa del realismo quasi una fonte simbolica, allusiva a un <<presepio laico>>, come l'ha definita Paolo Rizzi (1982). L'intima ricchezza, contrapposta alla povertà esteriore, è quella della dignità cristiana del ruolo della famiglia, e più ancora della dignità del ruolo sociale della donna alla quale spetta, anche nelle vesti più umili, il compito di essere "Madre tessitrice" del focolare domestico; e questo forse come risposta, o come alternativa, a quella femme fatale che anche nella città lagunare, in questi anni, cominciava a imporsi con forza.

Seppur a Venezia tornasse in più occasioni, il suo riavvicinarsi ai luoghi natii, inevitabilmente influenzò anche i soggetti della sua arte. Ne' Gli emigranti (tav. xx), straordinaria composizione ambientata nella campagna veneta (per l'esattezza, nei dintorni di San Zenone) con tutta la naturalezza di chi vuol rendere, senza enfasi, una drammatica realtà sociale di quegli anni, il suo Realismo veristico-vernacolare sembra voler preannunciare in lingua veneta, ma a voce bassa e con una pacatezza religiosa e riservata, quella sorta di bandiera-simbolo che sarà il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. In altre opere eseguite più o meno a cavallo del secolo, Bordignon non può sottrarsi dal contemplare con partecipato trasporto la quotidianità della vita della sua gente e della sua terra, al punto d’arrivare a trasferirne sulla tela l’animo più genuino e l’emozione più veritiera di quell’epoca, di quella società e del suo ambiente paesaggistico e umano, divenendo così quel cantore altissimo di una realtà che non fu sentita come lo fu quella di tanti suoi colleghi che ritrassero magistralmente il nostro entroterra col distacco, però, verrebbe quasi da dire, di chi era in “villeggiatura”, ma di una realtà che fu sentita, partecipata e amata da dentro, vivendola e, soprattutto, capendola con una comprensione tale come forse solo Jacopo Bassano, prima di lui, seppe fare. Ambientata nelle dolci alture di San Zenone, Lungo il ruscello (tav. xx) ci dà testimonianza di una riposante visione tra il pastorale e l'aneddotico, nella quale la quiete solare di una tranquilla giornata estiva è raccontata con alta, lirica poesia, unendo in modo inscindibile la spensierata presenza umana dei giovani protagonisti alla rigogliosa e incantata natura collinare. Nell’Autunno (tav. xx), la serenità di una tranquilla giornata all’aria aperta ci svela come nel sincero mondo rurale di fine-inizio secolo il lavoro fosse un tutt’uno con quella sorta di “gioia di vivere” che era la linfa stessa di un’educazione morale tanto intensa e naturale da non trovare forse un parallelo altrettanto profondo nella vita di città. Qui, le note del flauto del bambino tratto come un giovane Orfeo agreste dal sapore scopertamente mitteleuropeo, eppure nostrano, si fanno quasi un’allusione simbolica che riverbera su tutta la superficie del dipinto sino a perdersi, come la luce stessa, nella lontananza del paesaggio che si apre sulla pianura. È interessante notare come questa sorta d’idillio tra uomo e natura, si riscontri in questi anni pure in opere similari dell’amico Andrea Favero il quale, assieme allo scultore Serafino Ramazzotti e al nostro, formò un piccolo cenacolo sanzenonese cantato anche dalla poetessa Enrichetta Usuelli Ruzza. Con lo stesso spirito di fusione armonica, nel Riposo sul prato, efficacemente definito da Fabio Mondi la giorgionesca Venere sdraiata del Bordignon, la consonanza tra la presenza umana e la natura circostante è tale da svelare apertamente l'immenso amore dell'artista per i luoghi dove viveva e lavorava. In tutte queste opere, il paesaggio è certo parte integrante, necessaria alla realizzazione artistica, tuttavia esso si carica di sentimento naturalistico solo attraverso la presenza umana, sulla quale si concentra il vero significato del suo messaggio pittorico. Così in Il gioco a carte (tav. xx), del 1898, sorprende come il pittore abbia saputo riscattare con stupefacente, lucida qualità esecutiva e di composizione un ambiente povero e umile, che pur c’è presentato ricco di una dignità umana, fattasi addirittura allegra e spensierata, come solo lo può essere per chi ama davvero il mondo in cui vive, la sua sincerità, la sua semplicità. Ancora una volta è il colore che si fa luce, e il risultato è tanto azzardato ed efficace nel sapiente contrasto tra chiaro e scuro, tra luce e ombra, tra il paesaggio esterno e l’ambiente interno, da rendere reale, tangibile un gioioso momento di giocosa, giovanile “voglia di vivere”, nel quale l’artista sembra voler contrapporre alla talvolta finta e pomposa mondanità cittadina, la spensieratezza della vita di campagna, genuina e quasi “salutare”.

Se, a cavallo del secolo, Bordignon sembra abbia voluto sperimentare, come ad esempio in Matelda, soluzioni compositive e cromatiche dalle spiccate suggestioni simboliste e talvolta letterarie, la sua vena espressiva più sincera e partecipata, pur investendola talvolta anche di rimandi allusivi, rimase sempre sostanzialmente legata al senso religioso della vita, alla sua sacralità, alla sua naturale semplicità e al suo svolgersi quotidiano nell’ambiente sociale e umano che egli sente profondamente suo. In questa interpretazione, il lavoro, s’è già detto, non solo è parte necessaria della vita di tutti i giorni ma di essa è parte integrante, ne è un tutt’uno. Il lavoro è un dono di Dio e come tale è un dovere, che richiede sacrifici continui e gravosi, ma grazie al quale si cresce innanzitutto nello spirito, si cresce nell’anima, si cresce nel nostro essere più profondo, permettendoci così di essere cristianamente umili e devotamente felici. È con questo senso di religiosa devozione che esso ci viene presentato in tante sue opere, nelle quali, e non è casuale, sovente sono proprio le donne a farsi le “modelle” ideali e le vere eroine di questa visione reale della vita della sua epoca. Se andiamo a osservare un’opera come La lavandaia (tav. xx), possiamo constatare che il lavoro è fatica e sacrificio, che stanca fisicamente, ma la ragazza intenta a lavare i panni in riva al ruscello c’è presentata con grande dignità umana, nell’assenza pressoché totale di qualsiasi intento provocatorio o di polemica sociale. È anche questo, come tutti gli altri, un aspetto reale, concreto, necessario alla vita di tutti i giorni. La figura è immersa nella natura e la luce, una luce solare che ci appare quasi sovrannaturale, la accende di nobiltà e dolcezza come se il suo lavare i panni fosse quasi un rito sacro; la sua stessa positura, inginocchiata in avanti nel lavoro, ci rimanda a una tradizione genuinamente nostrana, quella delle cosiddette “figure accroupie”, con le quali, per taluni critici, Jacopo Bassano combinava forma e contenuto in una rappresentazione espressiva che vorrebbe significare, non senza spirito religioso, adorazione, disponibilità, altruismo. Più ancora, nella Contadinella che torna dai campi (tav. xx), Bordignon davvero raggiunge una “simbologia del lavoro” che è tutta realtà pur al tempo stesso facendosi colonna portante del significato vero di un’allusione spirituale che va al di là del semplice dato oggettivo, aprendoci a una visione umana del lavoro che ci appare emozionata poesia liturgica. Con aria quasi estasiata e con sguardo trasognato nella contemplazione del paesaggio in cui è immersa, la giovane contadinella si erge davanti a noi con un’intensità evocativa capace di condensare in sé tutto il mondo agreste di un’epoca e di un ambiente, e tutto il senso religioso-cristiano grazie al quale il lavoro educa e, nella sua naturale semplicità, ci fa crescere moralmente e spiritualmente; ci dà la ricchezza dell’umiltà umana, del contatto purificatore con la terra, del sentimento che suscita la natura nel nostro animo quando con essa si vive in perfetta armonia e in perfetto reciproco rispetto. Nel dialogo vibrante col paesaggio che va sfumando in lontananza sotto un cielo carico di nuvole, il vigore plastico degli incarnati, la ponderata e fiera robustezza della figura, il suo ritmo rigorosamente chiuso ci pongono davanti, figurativamente, come nè’ L'Angelus di François Millet, a una rappresentazione del quotidiano che si fa preghiera, canto liturgico.

    Bordignon ha diversi figli, ma a uno di essi si sente particolarmente legato per la predisposizione di questi alla pittura: è Lazzaro, soprannominato Rino, natogli a Venezia nel 1889. Anche il figlio è molto legato al padre e, giovanissimo, segue i suoi insegnamenti, con l’intenzione esplicita di voler essere anch’egli pittore. Purtroppo, a quattordici anni, un violento attacco di tifo lo costringe a letto per due anni. Nel settembre del 1906 Lazzaro Bordignon muore. Per il padre è una tragedia, cui solo il lavoro sembra riuscire a distoglierlo. Altre tragedie famigliari legate ai figli lo perseguitano e, nel maggio del 1913, dopo sei anni d’infermità, anche la moglie Maria lo abbandona. In una vita sempre più ritirata, lontano dai clamori del mondo, Noè Bordignon continua a dipingere forse più che per se stesso che per gli altri. I soggetti raffigurati sembrano perdere sempre più importanza, mentre il piacere che gli dà il suo lavoro pare concentrarsi, come fosse preghiera, nell’atto stesso del dipingere. La sua pittura si fa materica e densa, con cromatismi meno accesi ma carichi che infinite velature e pastosità del colore tratte con pennellate sicure e decise che, sotto molti versi, avvicinano molte sue ultime opere, a conferma dell’assonanza della sua indole artistica alla gloriosa tradizione veneta, alle ultime opere di Tiziano o di Jacopo Bassano, quando la forma sembra disfarsi nel colore che si plasma in materia e luce.

    Dopo una dolorosa caduta che gli procura la frattura del femore, Noè Bordignon, il 7 dicembre 1920, si spegne nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, lasciando incompiuto un Autoritratto, il suo ultimo lavoro.

 

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