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Luigi Stefani (1899 - 1987)

di Marco Mondi

 

(da MARCO MONDI, Noè Bordignon: la tradizione nella geniale rappresentazione del Realismo veneto del nostro entroterra, Rino Bordignon, una promessa mancata e Luigi Stefani (1899 - 1987), in San Zenone degli Ezzelini Terra di Artisti, catalogo a cura di Comitato San Zenone Terra d’Artisti e Gruppo d’Arte Noè Bordignon, San Zenone degli Ezzelini, Villa Marini-Rubelli, 16 settembre 2011 – 8 gennaio 2012, Ramon di Loria, 2011, pp. 2016-217)

  

Luigi Stefani nacque a San Zenone degli Ezzelini il 24 luglio 1899. La sua famiglia era una famiglia agiata, attenta e sensibile alla cultura e all’arte. A tal proposito, Giampaolo Bordignon Favero, nel testo del catalogo della mostra allestita nel 1988 dal Comune di Castelfranco Veneto, dà un’accurata presentazione dell’ambiente dove l’amico pittore crebbe e fu educato: il padre Lorenzo, originario di Asiago, esercitava la professione di medico in San Zenone e aveva sposato la ricca nobildonna Vittoria Barisani di Castelfranco. Luigi Stefani ebbe diversi fratelli ma, purtroppo, tutti morti prematuramente. L’affetto dei genitori si riversò, pertanto, su di lui con particolare amore e il padre non tardò a renderlo partecipe della sua passione per le belle arti e per la musica, conducendolo con sé a visitare musei italiani e stranieri (in Francia, Olanda, Spagna, Germania e Svezia) e ad assistere a concerti a Venezia, Vienna, Salisburgo e in altre città d’Europa. Ebbe, insomma, un’infanzia sostanzialmente felice e un’educazione signorile e raffinata, sorretta da solide risorse finanziarie. Finiti gli studi presso i Padri Cavanis di Possagno, frequentò dapprima la facoltà d’ingegneria all’Università di Padova per poi passare alla facoltà di chimica in quella di Ferrara. Senza concludere gli studi universitari, decise infine di dedicarsi a quella che era sin da allora la sua passione: fu così che, sempre col benevolo consenso e aiuto del padre, entrò nello studio di Umberto Martina ai Carmini in Venezia. Siamo nei primi anni del terzo decennio del secolo scorso.

La Prima Guerra Mondiale che, dopo gli entusiasmi iniziali, come ebbe a dire Gozzano, «si ritolse tutte le sue promesse», lasciò anche il mondo cultural-artistico di Venezia in un profondo smarrimento. I giovani “ribelli” di Ca’ Pesaro, che poco meno di dieci anni prima avevano portato in città le prime vere voci moderne dell’arte italiana, dopo quella specie di “Serrata del Maggior Consiglio” voluta dal Comune alla Fondazione Bevilacqua La Masa nel 1920, si dispersero come in una sorta di diaspora, mentre alla Biennale, con l’avvento alla Segreteria Generale di Vittorio Pica al posto di Antonio Fradeletto, s’iniziò un periodo di graduale, lenta apertura alla contemporaneità. Umberto Martina, friulano d’origine e veneziano d’adozione, era un pittore che, pur nel suo essere di personalità schiva ed eccentrica, si poteva considerare, agli occhi del padre di Luigi Stefani, un artista acclamato e soprattutto “serio”, vale a dire dotato di notevoli capacità pittoriche applicate, però, a un proprio linguaggio figurativo il quale, rimanendo legato alla scia d’ammodernamento tentata in quegli anni dalla pittura veneta d’ascendenza ottocentesca, aveva ben poco di trasgressivo. Tant’è che i primi veri insegnamenti dati al giovane Stefani, furono improntati a un gran rigore di studio e di esercitazione, facendogli intraprendere, come propedeutica essenziale alla pittura, un lungo periodo di pratica nel disegno prima d’iniziare a dipingere coi colori.

Gli insegnamenti di Martina, soprattutto nell’ambito del ritratto e della pittura di figure, generi nei quali il maestro eccelleva, non tardarono a dare i loro frutti se alla Biennale del 1926 Luigi Stefani poté esporre Tentazioni, dipinto raffigurante il ritratto di una bambina con un piatto di frutta sopra la tavola (G. Bordignon Favero, 1988). Sempre nello stesso anno, partecipò a una mostra a Torino e, alla IV Esposizione d’Arte delle Tre Venezie allestita nel Salone della Ragione di Padova, presentò due ritratti, una Testa di vecchio e una Testa di donna. Alla fin fine, però, si può dire che la sua attività espositiva si concluse con questi pochi eventi. La sua indole riservata e discreta, la morte del padre avvenuta proprio nel 1926 e la necessità di seguire la madre, trasferendosi con lei prima a Bassano (1930) e poi definitivamente a Castelfranco (1932), nella casa di proprietà materna, lo portarono sempre più ad allontanarsi dall’ambiente veneziano, dove pure era entrato in amicizia e in rapporti di lavoro con Ettore Tito, Carlo Dalla Zorza, Fioravante Seibezzi, Alessandro Pomi, con i pittori di Palazzo Carminati e, dopo l’assegnazione dell’incarico d’insegnante di pittura all'Accademia di Belle Arti cittadina, pure con Virgilio Guidi. Sempre in questo periodo, consolidò l’amicizia con Teodoro Wolf Ferrari, che aveva iniziato a dimorare pressoché stabilmente a San Zenone, andando sovente assieme a lui a dipingere nelle alture della pedemontana e delle montagne circostanti. Il matrimonio con l'amata Giulia nel 1936, infine, e la larghezza di disponibilità di cui godeva, gli permisero di dedicarsi alla pittura con la libertà e la passione del puro diletto, continuando a visitare con frequenza musei, chiese, esposizioni e luoghi d’arte, ma senza dover sottostare ai giochi del mercato ed entrare così nell'agone delle esposizioni collettive. Ricorda il Bordignon Favero nel su citato scritto di come egli rifiutasse gli “sperimentalismi” del suo tempo e di come «davanti alle opere dei grandi maestri del passato… constatava… con sconsolata amarezza nei riguardi dei contemporanei, ed in particolare della sua opera, che quanto era stato fatto aveva raggiunto il limite del bello e che ogni tentativo del presente era inutilità ripetitiva…».

Datato sul verso 1925, è l’intenso Ritratto di ragazza (tav. xx) che porta ancora fresca la lezione di Martina nel suo cipiglio di stampo Jugendstil ed espressionista, già aggiornato alle tendenze Déco. Memore di certe soluzioni alla Ettore Tito, la pennellata rapida e veloce delle vesti, che sa accendere di candido biancore il colletto dell’effigiata, vibra per campiture più nette negli incarnati in un efficace contrasto chiaroscurale tra le parti in luce e quelle in ombra, esaltando così la seducente bellezza femminile del taglio alla moda dei capelli. Articolata e civettuola anche la positura, capace di dar voluminosità spaziale e profondità al soggetto e, al tempo stesso, d’infondere all’effigiata un carattere introspettivo tagliente e ammaliante. Di stampo nettamente più capesarino, nella direzione di un Felice Casorati maturo impegnato nella riscoperta di Piero della Francesca, è il sensuale Nudo femminile (tav. xx) all’incirca di questi anni, nel quale la luce dei morbidi incarnati, trattati facendo sentire il plasticismo della materia cromatica attraverso materiche campiture di colore che ricordano certi impasti di Carena, si esalta ancora una volta per il contrasto con le tonalità quasi monocrome ed in ombra dell’ambiente che accoglie questa sorta di Venere giorgionesca del Novecento. Se nel Ragazzo dalla camicia verde (tav. xx), del 1930, traspare tutta la sua indole romantico-malinconica non immune da certi esempi di Virgilio Guidi, nello splendido Ritratto della signora Polese (tav. xx), dello stesso anno, Stefani mette in scena con una qualità pittorica e rappresentativa sorprendente un vero e proprio ritratto d'apparat. Elegantissimo, limpido, puro ed essenziale come i più sobri ritratti barocchi di un van Dyck o di un Velázquez, la bella signora è effigiata a figura quasi intera, seduta sulla poltroncina che par prospetticamente scivolar in avanti grazie al complesso ritmo incrociato e zigzagato che caratterizza la tela: le fresche rose tenute in mano, infatti, ci danno il la per un percorso di lettura che penetra lo spazio attraverso le direttive tracciate prima dalle gambe e dalle braccia, poi dal busto e dal collo per giungere infine al volto, il cui sguardo si volge aggraziato verso destra. La composizione, si presenta di un sintetismo assoluto, che si potrebbe dire alla Casorati o al primo Guidi più intenso, ma non per imitazione, quanto per sintonia d’intenti in un momento in cui anche da noi s’andava diffondendo, sulla scorta di Valori Plastici e del Novecento sarfattiano, un Ritorno all’Ordine che negli anni Trenta, per taluni, prendeva la direzione del Realismo Magico, dal quale il nostro ritratto non appare affatto esente. A rafforzare questa lettura, vi è l’uso magistrale che Stefani fa dei valori cromatici che, nel contrasto con lo sfondo scuro, accendono di luce cangiante le campiture plastiche del colore dell’abito e degli incarnati, messi anche qui in vibrazione dalle note gialle delle rose in primo piano.

Di segno quasi opposto, invece, si mostra l’Autoritratto riprodotto alla tav. xx, più o meno coevo all’opera precedente, dove il pittore vuol presentarsi con un’aria scapigliata e bohémienne, mentre nel più tardo Facchino veneziano (tav. xx) il vigore della pennellata si fa possente e imperioso nella traccia delle lezioni di Umberto Martina e della più impegnata tradizione ottocentesca veneta: in esso, la crudezza espressiva della rappresentazione tocca note realistiche di sapore ancora una volta barocco, oltre che nella composizione, anche nella forza virile del colore e quindi della luce, quasi come fosse un personaggio di Annibale Carracci capace d’imporsi nella tela con l’irruenza di un Pordenone.

Lo schematismo compositivo cromatico-formale visto nel ritratto alla tav. xx, ritorna ancor più accentuato nella pittura di paesaggio, specie andando un po’ avanti negli anni. Le due vedute montane, infatti, riprodotte alle tavv. xx e xx, sono rappresentate con un’architettura compositiva assai di sintesi, che tende a ridurre a forme semplici e geometriche tanto la natura quanto e soprattutto gli edifici; il colore stesso tende a farsi il più possibile limpido, pulito e solare, pur nel tocco mosso e vibrato d’ascendenza impressionistica. Certo, il clima più marcato verso un Ritorno all’Ordine delle opere precedenti, sembra adesso, come in tanti altri pittori in questi stessi anni, stemperarsi nella direzione delle esperienze figurative francesi, che sempre più facevano da noi la loro apparizione, diretta alla Biennale, in modo particolare, e indiretta attraverso le esperienze di coloro che da Parigi, come Pio Semeghini e Filippo de Pisis (o molta della cosiddetta Scuola di Burano), erano tornati facendosi sedurre dall’arte degli Impressionisti. Ciononostante, opere come queste fanno pure supporre un’ipotesi a dir il vero remota, tuttavia concretamente possibile: vale a dire che Luigi Stefani possa aver conosciuto le opere di un pittore di formazione mitteleuropea, che schematizzava il paesaggio in modo similare, qual era Ettore Cosomati, artista in qualche modo legato a Castelfranco attraverso una sua allieva, la signora Vittoria Zannoni Carletti, che con ogni probabilità il nostro pittore conosceva e stimava.

Un analogo rigore schematico, costruito da un’architettura compositiva elaborata su di un efficace gioco di linee rette zigzagate che penetrano lo spazio e caratterizzata da cromatismi essenziali fatti per contrasti di tinte accese e solari dal sapore quasi metafisico, si riscontra pure in La spiaggia del Lido (tav. xx), mentre in Veduta di Pellestrina (tav. xx) lo stesso rigore prende un riverbero che si scalda di luce grazie alle scelte cromatiche che vibrano nel modo di trarre direttamente sulla tavola il colore nelle sue diverse tonalità attraverso l’impiego di pennellate dal tratto deciso e veloce, atte a rendere un’impressione visiva della raffigurazione che si accosta alle lezioni impartite da Semeghini a tanta pittura a cavallo tra le due guerre e dopo (si pensi solo alle opere di alcuni pittori trevigiani come, ad esempio, Juti Ravenna). E’ un modo di pennellare portato in questi anni a Castelfranco anche da Bruno Gherri Moro, che a Parigi c’era stato per quasi due decenni, e che pare particolarmente sentito da Luigi Stefani nei ritratti a partire dalla fine degli anni Trenta (si veda Modella veneziana alla tav. xx) o nelle nature morte (si veda quella alla tav. xx) ma, soprattutto, che diventa congeniale nelle tantissime descrizioni di Castelfranco fatte sino agli ultimi anni della sua vita, dove la città, spesso colta negli stessi scorci o nelle stesse vedute, è cantata con un lirismo poetico commovente e romantico, cogliendone forme, colori e luci nei diversi momenti della giornata e nelle diverse stagioni dell’anno. A tal riguardo, esemplare è la straordinaria veduta di Corso XXIX Aprile con mercato (tav. xx), nella quale la luce della calda solarità mattutina irrora un incanto espressivo carico di suggestioni quasi irreali, rese, però, improvvisamente umane dal formicolio vibrato della gente che affolla il corso.

Di una suggestione coinvolgente e di silenzioso impatto emotivo è Lettura (tav. xx), databile attorno agli anni Quaranta, dove l'interno raffigurato è immerso nella luce soffusa e raccolta del paralume che, con delicati ma netti contrasti coloristici fatti di amorevole delicatezza, ci descrive un momento di quotidianità intima e riservata, presentatoci col sapore di una sacralità magica. Con altrettanta riservata intimità, in Interno con figure (tav. xx), un angolo dell’elegante salotto di casa c’è svelato ancora una volta dalla luce soffusa del paralume, che tenuamente accende la composta figura della moglie Giulia intenta a leggere mentre, in ombra e di spalle, l’amica la osserva. Qui, il segno grafico del colore tratto in modo impressionistico, armonizzando con delicatezza le vibranti tonalità cromatiche, ci offre un’immagine lirica e silenziosa di una pittura che, come lui stesso disse, non può essere «altro che minimi frammenti di ciò che è stato ed è irrepetibile».

Luigi Stefani si spense a Castelfranco nel 1987. Nel 1990, assieme ad alcuni dipinti, la moglie Giulia fece dono alla Raccolta Comunale di Castelfranco di un cospicuo nucleo di circa 690 fogli con disegni caricaturali eseguiti dal marito in anni diversi. Queste opere (tavv. xx-xx), dalla grafia rapida e decisa e dallo spiccato acume d’interpretazione caratteriale e fisionomica, rappresentano un’eredità singolare e importante che l’artista ha voluto lasciare alla sua città d’adozione, non solo perché ci parlano con un’ironia penetrante che raramente traspare nei suoi dipinti, ma soprattutto perché ci testimoniano di personalità e personaggi attraverso un vero e proprio “inventario” che penetra nel carattere stesso della città e di un passato che è ancora vivo.

 

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