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Ca' Pesaro,

ovvero l'altra parte della Biennale

di Marco Mondi

   Lo scenario cultural-artistico della Venezia d'inizio secolo non si scostava poi di molto da quel provincialismo diffuso un po' ovunque in tutta l'Italia. L'isolamento, non solo geografico-lagunare, rendeva in ogni caso, nella città veneta, il prolungamento dell'humus ottocen­tesco nel nuovo secolo ricco di sfumature spiccatamente decadenti e del Decadentismo, Venezia, fu forse la città che più, oltre ad ispira­re, subì il fascino del mito estetico del Poeta-Vate, vero propulsore di gusto e cultura in tutta la penisola.

     Il 1895 vide la creazione, in concomitanza con l'ufficiale cele­brazione del 25° anniversario di matrimonio di re Umberto I, della Biennale veneziana che fu giustamente definita "la prima apertura dell'arte italiana in uno spazio europeo".

     Le Esposizioni dei Giardini si rivelarono subito, al di là del clima artificiosamente estetizzante di una mondanità che alzava i ca­lici alla propria apocalypse joyeuse in una cornice unica come quella che la città lagunare offriva, una vera finestra aperta sul mondo ar­tistico europeo: una finestra dove non solo Venezia poté affacciarsi ma l'Italia intera. Sulla Biennale infatti, furono puntati gli occhi dell'Italia intellettuale e da essa presero spunto molte altre istitu­zioni che di lì a pochi anni vennero fondate nelle maggiori città del­la penisola coadiuvate, fatto di primaria importanza, dal prolificare di numerosissime riviste, indiscutibili testimonianze di una volontà diffusa d'uscire da quell'isolamento provinciale che, da Canova in poi, la nostra arte sembrava condannata. Basta però sfogliare i cata­loghi dei primi decenni delle Esposizioni veneziane e scorrere l'elen­co delle personalità invitate per convincersi dell'indirizzo social-artistico perseguito dall'importante istituzione, che non fu ne' un errore di scelta, ne' semplicemente una limitatezza di vedute, ma un deciso tentativo di far sopravvivere una cultura ormai anacronistica. Questo non impedì che, sporadicamente, fossero esposte opere della più genuina arte allora contemporanea. E fu a queste che la giovane Italia guardò. Alla vigilia del centenario della Biennale veneziana, bisogna riconoscere che uno dei suoi più alti meriti fu permettere l'esisten­za, non formalmente ma come fucina d'arte moderna, di Ca' Pesaro, ov­vero l'altra parte della Biennale stessa.

     Nel gennaio 1899 si spense l'illustre Felicita Bevilacqua La Ma­sa. L'accorta duchessa lasciò per testamento, redatto l'anno prima, al comune di Venezia la poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto che ivi vi si tenessero "esposizioni permanenti di arte ed indu­strie veneziane. ...specie per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciuti e sfidu­ciati non hanno mezzi da farsi avanti e sono sovente costretti a cede­re i loro lavori a rivenduglioli ed incettatori che sono i loro vampi­ri". Altre clausole del testamento prevedevano la trasformazione in studi e ricoveri per quei giovani artisti di una parte del palazzo e di un'altra parte da destinarsi ad essere affittata allo scopo di ga­rantire un reddito per il funzionamento dell'Opera.

     Scrive Nino Barbantini nel 1953: " ...I fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel '10 quando ci raggiunsero due tele, il Muto e la Fanciulla in fiore..." di Gino Rossi. Fu l'inizio della polemica con la Biennale. In realtà, sulla carta, la Fondazione Bevilacqua La Masa esisteva fin dal 1905 ma, per la mancanza di un responsabile organiz­zativo, non vennero svolte opere propositive o organizzative. Bisognò attendere il 1907, quando fu, vincitore del concorso indetto, procla­mato Nino Barbantini direttore della Galleria Internazionale d'Arte Moderna (fin dal 1902 alloggiata nel piano nobile del palazzo longhe­niano) e segretario dell' Opera Bevilacqua La Masa. Il ventitreenne ferrarese si rese ben presto conto dell'opportunità che gli si offri­va: già nel 1908 fu allestita la prima mostra, senza catalogo purtrop­po, alla quale parteciparono, come richiamo, anche gli artisti veneti allora più acclamati. Dal 1909 le mostre si susseguirono regolari e non serve qui riassumere la ben documentata querelle che tanto clamore sollevò a Venezia e in Italia. Basti ricordare alcune considerazioni e fatti. In primis, la doppia valenza della Biennale: polo che attirava e proponeva talvolta interessantissime presenze e, dall'altro, orga­nizzazione che, per scelte direzionali, rifiutava di accogliere quelle che erano le testimonianze di una nuova realtà sociale suscitando quindi, una volontà di ribellione che trovò in Ca' Pesaro la sua voce più autentica.

Venezia inoltre, fu sicuramente in quegli anni uno dei centri artisti­camente più fervidi dell'intera penisola. Vi fu il passaggio della me­teora Modigliani e fin dal 1909, in continuo contatto con Ca' Pesaro, i futuristi la scelsero come primo approdo per la loro incendiaria po­lemica. L'anno successivo le sale di Palazzo Pesaro ospitarono la pri­ma mostra personale di Umberto Boccioni. D'Annunzio aveva lanciato a Venezia e lanciava il suo fervore interventista e già le riviste di tutt'Italia identificavano nelle due istituzioni artistiche della città gli antipodi di due culture che si scontravano di continuo in tutto il territorio nazionale. Intanto, le mostre di Ca' Pesaro si schieravano sempre più apertamente contro le selettive esposizioni della Biennale, fino a quello che fu l'anno più caldo dell'intera po­lemica, il 1913, quando la mostra palatina rischiò la chiusura. Scrive ancora Barbantini, sulla mostra del '13: "...[suscitò] tra i ben pen­santi uno scandalo tale che in città non si parlava d'altro e se ne parlò molto anche fuori. Nelle sale non si respirava, tant'era la fol­la. I giornali polemizzavano, i pittori e i clienti dei caffè, chi per noi chi contro di noi, se ne dicevano di tutti i colori..." Solo negli anni '50 del Settecento Venezia si divise in fazioni tanto agguerrite l'un l'altra per motivi d'arte: e furono ancora le novità, teatrali,  di Carlo Goldoni allora, in un momento chiave della storia della Sere­nissima, a lottare contro il perdurare di una tradizione gozziana e chiariniana che lo costrinse in fine (come dopo la guerra i nostri ca­pesarini) al volontario esilio parigino pur di continuare a far vivere la propria arte.

     Dopo il 1913 Nino Barbantini, pur sempre dipendente del comune di Venezia, dovette cercar di moderare le polemiche ed accentuare il suo ruolo di mediazione, visto il debordare politico delle controversie. Tanto più quando nel '14 sembrò che le due istituzioni potessero fi­nalmente collaborare: progetto ben presto abbandonato.

     Eventi di ben altra portata si prospettavano però alle porte di un'Italia sempre più convinta al bel gesto e a vedere nella guerra la "sola igiene del mondo". Spinti dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno dannunziano, tanti giovani, capesarini compresi, intrapresero una avventura dalla quale per molti non vi fu ritorno. L'entusiasmo iniziale fu ben presto soppiantato dalla fredda logica della realtà bellica e la guerra stessa, come ebbe a dire Gozzano, "ritolse tutte le sue promesse. L'evento bellico pose fine all'Otto­cento, spintosi ormai per quasi due decenni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuo­vi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria mutilata", dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva essere.

     Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell'Italia artistica del dopoguerra. La riapertura di Ca' Pesaro del 1919 fu definita "il maggior convegno artistico che si aprì dopo la guerra". Spettava, nel 1920, alla Biennale allestire una esposizione che, oltre a proporre a livello nazionale ed internazionale un sunto delle più importanti espressioni figurative dell'anteguerra, accoglie­re anche le tendenze di quella che era l'arte del dopoguerra. La Bien­nale deluse e, ricorda Gino Rossi: "Nessuna esposizione avrà tanti il­lusi e spostati come la Biennale di quest'anno. Basta leggere i nomi e noi li conosciamo tutti per quel che valgono. Per questa ragione io ti dico che non solo non abbiamo fatto un passo in avanti, ma che ci tro­viamo in una situazione che più penosa non potrebbe essere." Non fu, come spesso semplicisticamente si ripete, una ristrettezza di vedute: fu un ultimo, disperato, tentativo, che proseguì qualche anno, di rie­sumare la cultura ottocentesca.

 

 

SPUNTI PER L'ESTETISMO ART NOUVEAU

di Marco Mondi

 

1) - Gli ultimi due decenni del secolo, per l'Italia come per l'Euro­pa, sono caratterizzati da intensi conflitti sociali dove la tradizio­nale classe dirigente si sente minacciata dall'avanzare della nuova e brulicante massa di persone viste come nel Quarto Stato di Pelizza da Volpedo (ecco perché Divisionismo poco accettato: arte nuova di una società ormai diversa che rimette in discussione l'arte tradizionale espressione di una società tradizionale ed ormai anacronistica). La borghesia intellettuale si chiude in una gelosa difesa dei propri va­lori e, collegabile a questo, almeno in parte, è l'esasperazione del culto del bello, il vagheggiare successi imperialisti, il disprezzo per la realtà del momento in polemica con il positivismo e la fiducia sul potere liberatorio della scienza che voleva far vedere con gli oc­chi del vero la realtà di tutti i giorni.

2) - Questa situazione politico-sociale in parte si riflette  con  una generale reazione al realismo, andando oltre al realismo stesso nel tentativo di esprimere l'inesprimibile in una dimensione creativa fan­tastica, allusiva, magari onirica [non si dimentichi che in questi an­ni a Vienna nasce la Psicanalisi (Venezia-Vienna) per opera di Freud e, attraverso Trieste, giunge in Italia].

3) - Quindi  fuga dalla realtà, ricerca estetica e estremamente intel­lettualizzata attraverso il ricorso al simbolo ===== SIMBOLISMO.

4) - Da  Wagner a Nietzsche, da Huysmans  a Wilde e D'Annunzio, in un clima di simbolica evasione dalla realtà alla ricerca di una esistenza che riduce il tipo umano ad una dimensione estetica di culto, artifi­cioso ed eccentrico, della bellezza, si apre il periodo artistico del Decadentismo.

5) - Il DECADENTISMO è caratterizzato da: - ansia del nuovo;

                                          - moduli espressivi che  at-

                                            tingono dal fondo inespres

                                            so della realtà;

                                          - concezione mistica e visio

                                            naria della poetica;

                                          - sensazione di tragica  in-

                                            quietudine;

                                          - senso di solitudine dovuto

                                            alla frattura tra  artista

                                            e società;

                                          - morboso, raffinato vagheg-

                                            giare del  disfacimento  e

                                            della morte.

6) - Ricollegabile al Simbolismo è l'Art Nouveau, la quale nasce come opposizione all'esaltazione e diffusione delle moderne tecniche dell'industria che portano ad uno scadimento del gusto artistico pro­vocato dall'avvento della macchina (teoria di William Morris, funzio­nalità e uso della produzione industriale sotto la visione decorativa dell'artista per avere oggetti artistici a basso costo disponibili non solo per una élite ma per chiunque.

Quindi concorrono: - opposizione all'eclettismo ottocentesco;

                   - influssi orientali e specialmente giapponesi;

                   - impiego di nuovi materiali.

7) - Conseguenza dell'Art Nouveau ===== artigianato ad alto costo.

8) - Ricerca generale di un qualcosa che va oltre la realtà, ricerca dell'autre, della verità nascosta. Nasce il dramma tra il soggetto e l'oggetto ===== sfida estetica, fuga nel simbolo o fuga in un paradiso perduto, dramma tra rapporto umano e mondo oggettivo esteriore, ricer­ca di resa obiettiva da un lato e intellettuale dall'altro dell'altro, dell'oggetto e così via.

 

 

ALCUNI CENNI STORICI SULLE PRIME BIENNALI

di Marco Mondi

 

    A far nascere l'idea di un'esposizione biennale a Venezia fu il successo riscosso dalla mostra nazionale di pittura e scultura tenuta­si in città nel 1887. Tre illustri personaggi (Riccardo Selvatico, sindaco della città, poeta, commediografo e letterato; Antonio Frade­letto, accademico d'indiscussa fama e capacità organizzativa; Giovanni Bordiga infine, scienziato umanista e filosofo acuto interessato alla vita sociale e politica), che amavano incontrarsi nelle accattivanti salette del Caffè Florian a parlar d'arte, non tardarono a prodigarsi per un'iniziativa così ambiziosa. Riccardo Selvatico, con il favore anche del futuro sindaco Filippo Grimani, nella seduta del Consiglio comunale del 19 aprile 1893, deliberava d'istituire un'esposizione biennale  che il Comune di Venezia dedicava <<a ricordo delle nozze d'argento delle LL.MM. Umberto e Margherita>>, fissandone per il 22 aprile la data dell'inaugurazione. Solo il 30 aprile del 1895 però fu possibile inaugurare la prima esposizione.  Il pittore trentino Barto­lomeo Bezzi nel frattempo, durante una delle tante discussioni ormai di casa al Florian, suggerì di dare alle esposizioni un'impostazione internazionale, sul modello della allora famosa Secessione di Monaco. Nacque così in Italia la prima istituzione espositiva a carattere in­ternazionale. Oggi, l'unica al mondo a vantare tanti anni di storia.

    E' stato detto e ridetto che la storia della Biennale è la storia delle occasioni mancate. Questo, almeno in parte, è vero. La Galleria Internazionale d'Arte Moderna della città, sorta di lì a qualche anno (ufficialmente nel 1897) e legata alla Biennale, ne è un esempio. Sa­rebbe potuta essere, indiscutibilmente, la raccolta d'arte contempora­nea più rappresentativa al mondo, se solo la scelta delle opere da ac­quisire, tra le rare importanti apparizioni del momento, fosse stata più accorta e se le prime Biennali stesse avessero voluto aprir gli occhi sulle rivoluzioni artistiche che andavano sconvolgendo l'Europa.

    Ma l'Italia allora era provincia, un'aristocratica provincia. A Venezia come altrove, sulla scia del poeta-vate Gabriele D'Annunzio, vero propulsore di gusto e cultura in tutta la penisola, le classi so­ciali più agiate ben accettavano ogni genere di trasgressione, anche artistica, purché non compromettesse i loro privilegi. Accettare le avanguardie, soprattutto quelle capaci di smuovere da sotto ogni forma di tradizionalismo, significava voler voltar pagina, lasciare l'Otto­cento, entrare nel nuovo secolo, cambiare. No, solo la guerra doveva riuscire in questo. Ecco perché le scelte artistiche delle prime Bien­nali furono condizionate e, sì, poco accorte. Tanto poco accorte, un esempio per tutti, da rifiutare nel 1910 d'esporre un dipinto di Pi­casso perché <<la sua novità avrebbe potuto scandalizzare il pubblico>> (incredibile a dirsi, Picasso fu per la prima volta accolto solo nel 1948!). <<Scandalizzare il pubblico>>, s'era giustificato Fradeletto, l'allora segretario generale, eppure la stessa prima Espo­sizione aveva esordito con uno scandalo: Il supremo convegno di Giaco­mo Grosso. Una tela oltraggiosa per una certa morale fin de siècle, che aveva suscitato sdegno anche da parte del futuro Papa Santo Pio X, in quanto <<offende altamente il pudore>> e per la quale ci si deve adoperare <<perché non sia messa in mostra>>. Nel ricco, suntuoso fa­sto decadente  e mondano delle prime Esposizioni, beneaccetto era solo lo scandalo da salotto. Il quadro maledetto di Giacomo Grosso ebbe, infatti, un enorme successo: fu premiato dal pubblico come migliore opera e poi addirittura portato in lucrosa tournée per l'America. <<Elles ne sont que des fleurs!>> commentò Sissi, l'Imperatrice Elisa­betta d'Austria, davanti alle giovani fanciulle del dipinto. L'opera di Picasso rifiutata nel 1910, non raffigurava solo fiori, o meglio, non era un dipinto da scandalo salottiero.

    Le prime Biennali, anche per i suggerimenti di Giovanni Boldini, sostanzialmente non accolsero, se non come sporadiche apparizioni, le innovazioni artistiche che andavano aprendo un nuovo cammino all'arte. Ciò non tardò a far nascere, nella stessa Venezia, dei veri e propri focolai di ribellione. Grazie al lascito testamentario dell'accorta duchessa Felicita Bevilacqua La Masa (1899), il Comune venne in pos­sesso della poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto che ivi vi si tenessero <<esposizioni permanenti d'arte ed industrie vene­ziane[...] per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'in­gresso alle grandi mostre>>. Con la nomina del ferrarese Nino Barban­tini (1905) a direttore della Galleria d'Arte Moderna, che includeva anche la funzione di segretario della neo-nata Fondazione Bevilacqua La Masa, e con il susseguirsi di mostre che dal 1908 si tennero a Ca' Pesaro, scoppiarono contro la Biennale le più accese polemiche. Le mo­stre di Ca' Pesaro si rivelarono essere artisticamente più rilevanti di quelle proposte da Fradeletto nelle sale italiane, e, al tempo stesso, accanto alla cultura italiana più accorta, futuristi compresi, attaccarono la Biennale rivendicando il dovere che essa aveva di in­formare biennalmente su quanto s'era fatto in arte di <<veramente vivo e seriamente discutibile>>. Tanto fu acceso il clima di polemica che per le calli e dentro le osterie, ricorda Barbantini,  <<i pittori e i clienti dei caffè, chi per noi chi contro di noi se ne dicevano di tutti i colori>>. Venezia non ricordava tanta partecipazione all'arte fin dalle polemiche settecentesche  sulle riforme teatrali (Goldoni da un lato, Gozzi e Chiari dall'altro), che divisero anche allora la città in fazioni quasi da stadio.

    Quel clima di euforia e fervore artistico terminò bruscamente nel 1915. La guerra cambiò tutto, pose fine all'Ottocento, spense il mito estetico dannunziano ed essa stessa, come disse Gozzano, <<ritolse tutte le sue promesse>>.

    Compito della Biennale alla sua riapertura nel 1920 era dare una panoramica esaustiva su quanto era successo in arte prima della guerra e gettare così le direttive per la nuova arte italiana. Nonostante la nomina del nuovo segretario, Vittorio Pica (fautore di quell'assetto di apertura che dominerà in seguito), l'Esposizione di quell'anno mancò clamorosamente il suo scopo. Da quel momento in poi, Venezia perderà sempre più il suo primato di maggior centro artistico ed espo­sitivo d'Italia.

 

 

I 100 ANNI DELLA BIENNALE DI VENEZIA

di Marco Mondi

 

  <<Elles ne sont que des fleurs!>>, con queste parole l'imperatrice d'Austria Sissi commentò il quadro dello scandalo, Il supremo convegno di Giacomo Grosso, presentato cento anni fa alla prima Biennale Inter­nazionale d'Arte della città di Venezia. Il futuro papa Pio X si pro­digò in più modi affinché il dipinto fosse tolto dall'Esposizione. Manco farlo apposta, quando il pubblico fu chiamato a votare per pre­miare l'artista preferito, la scelta ovviamente cadde sull'autore del quadro "maledetto".

  Per cento anni, la storia della Biennale è stata, nel bene e nel ma­le, una parte importante della storia dell'arte del nostro secolo e ripercorrerla significa anche ripercorrere cento anni di dibattiti culturali, violente polemiche, diatribe, "baruffe" ed intrighi nazio­nali ed internazionali di ogni genere. Ogni Biennale ha la sua storia da raccontare, ed è sempre un racconto di alto contenuto artistico fatto attraverso opere, spesso, di qualità strepitosa, portate a Vene­zia praticamente da tutti i sommi maestri del nostro secolo, e non so­lo. Unico grande escluso, ormai istituzionalizzato, Pablo Picasso, che s'è visto accettare sue opere per la prima volta solo nel 1948, dopo che nel 1910 un suo dipinto fu respinto perché la sua novità avrebbe potuto scandalizzare il pubblico.

 

Prefazione

gruppo di artisti, quelli di Ca' Pesaro, i quali rappresentano un tassello fon­damentale della cultura figurativa italiana di primo Nove­cento e, nonostante ciò, oggi ancora spesso trascurati e sovente ingiustamente ignorati. La Biennale e soprattutto la  giovanile foga capesarina che, grazie alla stessa Istituzione-diga, poteva polemizzare con ciò che in Italia più rappresentava una cultura ormai sorpassata, hanno fatto si che su Venezia, per un decen­nio almeno, convergessero le attenzioni più accorte di tutta una nazione.

un gruppo d'artisti che non fu mai un movimento artistico, e che, forse proprio per questo, fu più aperto a quanto succedeva in Europa andando ben oltre come portata ai confini naturali di un agglomerato di isole, accettando, affiancando e  corroborando le nuove tendenze artistiche di tutta una nazione.

 

Venezia europea

Lo scenario della cultura veneta e veneziana nella fat­tispecie, storicamente così spesso isolato e chiuso nella sua turris eburnea non solo geografico-lagunare, si presentò all'alba del nuovo secolo come uno dei più fertili centri di attività artistica e critica che vi fu dato di trovare in quel momento in Italia. E' nell'humus veneziano che vennero ad abbeverarsi nella loro polemica contro il "chiaro di luna" i futuristi, così come, qualche anno prima, il dannunziano Stelio Effrena accompagnò il feretro del musicista Wa­gner, vero tripode di tutto il decadentismo europeo, sulle acque della defunta Serenissima. Prese di posizione apparen­temente contraddittorie vissero ed anzi si corroborarono reciprocamente trovando Venezia uno tra i centri più adatti della penisola per dar sfogo o far da culla alle proprie i­dee.

     La decisa volontà dell'artista, sia questo pittore o scrittore, poeta o musicista, di affacciarsi sullo scenario dell'arte europea e con essa instaurare un continuo e libero scambio fu una delle caratteristiche peculiari di tutta la prima metà del nostro secolo. E si pensi, da un lato, all'importanza del ruolo svolto dalle numerose riviste let­terarie e non, e, dall'altro, al diffondersi nelle maggiori città italiane delle  esposizioni internazionali d'arte. La creazione della Biennale veneziana nel 1895, "prima apertura dell'arte italiana in uno scenario europeo", rappresentò la prima tappa in senso moderno per l'arte italiana come inevitabile successione di quanto era andato maturando per  tutto l'Ottocento  nella maggior  parte  della penisola e in  modo particolare proprio nella città lagunare.

     L'ambiente artistico dell'Accademia veneziana negli ultimi anni del secolo pre­sentava lo stesso scenario da pomposo teatro, visto in chia­ve didattica, che caratterizzava la mondanità salottiera dei palazzi alla moda, della Piazza e dei Giardini (dal 1895) di una città che viveva ormai essenzialmente del suo passato e che pur si stava preparando ad entrare nel nuovo secolo.

      Se la stessa penisola italiana, per tutto l'Ottocento, fu provincia non solo per l'arte che, da Canova in poi non ebbe più voci di tanta risonanza europea, ma un po' per tut­to quello che fa di una nazione uno stato di rilevanza internazionale; Venezia rappresentò sicuramente uno tra gli esempi più emblematici del perdurare di una tradizione seco­lare profondamente radicata in ogni sua espressione artisti­ca o di altro genere. La stessa caduta, cent'anni prima, della Serenissima Repubblica aveva portato solo parzialmente quelle trasformazioni sociali che in altre città italiane s'erano fatte ben più sentire. Si, Venezia entrò, sotto la dominazione straniera, in una dimensione sociale più moderna con cambiamenti che ne ribaltarono il modo di vita sotto o­gni aspetto e vide pian piano delinearsi quelle metamorfosi che la portarono ad essere la città che oggi spesso vive ancora; d'altro  lato  però  continuò ad  essere, in un contesto sicuramente diverso, l'antica Repubblica con la sua aristocrazia e le sue  abitudini di vita.  L'Ottocento  rappresentò per Venezia un lungo periodo impregnato di indispensa­bili esperienze che prepararono la città ad entrare, e solo nel nuovo secolo, in una dimensione veramente moderna. Ed è infatti solo nei primi decenni del Novecento, almeno per l'arte, che la città esce dalla tradizione ottocentesca e assume le capacità di valutare in senso nuovo il suo enorme bagaglio storico-artistico.

    All'Accademia egli trovò solo parzialmente un ambiente veramente vivo di creatività come quello che troverà nelle sale di Palazzo Pesaro. La Venezia ufficiale di fine-inizio secolo era ancora troppo legata ad una realtà divenuta ormai effettivamente "immaginaria". L'arte ufficiale era arte per una società mondana da salotto, la quale avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di non rinnegare la propria stessa esi­stenza fuori dal tempo, pur di continuar a mantenere la pro­pria posizione privilegiata da secoli. Nel 1871, Camillo Boito annotava: "La grandezza dell'arte veneziana vecchia è un impiccio alla beltà dell'arte veneziana nuova. I pittori non hanno l'animo di rompere la catena della tradizione; non hanno l'animo di guardare il vero in faccia. Sono gli anni in cui l'arte veneziana, spinta anche dal realismo veristico proposto nel teatro (strettamente legato a quello goldonia­no) e da un nuovo genere artistico come la fotografia inten­ta a cogliere quegli aspetti di una Venezia minore prima trascurata, cambia il soggetto delle sue rappresentazioni. Da un'arte impegnata a raffigurare scene di carattere stori­co-mitologico, si passa a raffigurare "soggetti trattati mo­destamente". "[...]mentre dalle imitazioni non poteva venire che una pittura pretenziosa e vana, da codesto avveduto stu­dio della natura potrà nascere forse una pittura moderna,forte di nuova vita". In realtà si trattò di un semplice cambio di soggetto così come un paesaggio può essere cambia­ to davanti all'obiettivo di una macchina fotografica. Non era certo cercando gli angoli più reconditi e sconosciuti di una realtà che era accettata solo se vista dalla finestra panoramica dell'arte, purché questa ne potesse garantire con sufficiente distacco una nuova finzione, che doveva venire l'arte moderna. Anzi, ancora una volta, l'esasperazione dei nuovi temi portò ad una nuova astrazione della realtà. Vene­zia, in modo tutto suo, si preparava ad entrare nell'este­tizzante cultura decadente che, nelle isole della laguna, trovò il suo humus ideale. Fu soprattutto attraverso il ve­rismo realistico, trascinatosi sino a cavallo del secolo,  che la città entrò in una  prima  vera  dimensione  europea. Guardare al vero, fino al punto di esasperarlo; cercare la Venezia minore, perché sembrava questa la Venezia più vera, e coglierla nei suoi aspetti più intimi gettandola, di volta in volta, in una visione sempre più immaginaria e fittizia; ripercorrere l'esempio degli antichi interpretandolo non più con la copia ma, prima, seguendo le teorie liberatorie del Positivismo che voleva far vedere con gli occhi del vero la realtà di tutti i giorni, e poi nella stessa reazione al potere scientifico. L'enorme passato artistico e storico

scoprì una nuova esaltazione ben più  esasperata  della romantica visione di una città della quale non rimangono "che ceneri e pianto". Ci si distolse dal vero proprio guardando al vero, si trascurarono volutamente le bellezze della città illudendosi così di liberarsi dal vincolo della tradizione senza accorgersi che, come rileva acutamente Proust, [...]poiché a Venezia sono opere d'arte, cose magnifiche, quelle che si incaricano di fornirci le impressioni famigliari del­la vita, col pretesto che la Venezia di certi pittori è freddamente estetica nella sua parte più celebre, rappresentarne solamente gli aspetti miserabili, dove scompare quel che ne fa lo splendore, e, per renderla più intima e vera, farla assomigliare ad Aubervilliers, significa falsarne il carattere. Fu il torto di artisti anche grandissimi, per una reazione naturale verso la Venezia fittizia dei cattivi pit­tori, di essersi rivolti unicamente alla Venezia (che essi stimavano più realistica) degli umili 'campi', dei 'rii' abbandonati".

     Entrare nell'arte moderna per la società veneziana d'allora, e per tanta altra parte d'Italia, significava ab­bandonare tutto quanto dava senso all'esistenza stessa di un ceto sociale privilegiato, e ciò non era possibile. Ogni cultura ha la sua arte: l'aristocrazia e l'alta borghesia di fine Ottocento non  potevano rinunciare alle regole che da sempre avevano governato i loro modo di vita. Il Decadenti­smo rientrava ancora nella loro logica ed in effetti fu ac­colto a piene lettere; fu anzi attraverso esso che vennero elusi problemi ed esigenze di una società nuova, ricca di nuovi fervori. La realtà sociale poteva essere evasa nel so­gno, sublimata o elusa ma non certo cambiata.

     Spesso, accanto al tradizionalismo di fine Ottocento, si associa una ristrettezza di vedute che impedì un rapido e pieno riconoscimento della rivoluzione artistica che altrove trovò solide basi in una vera e propria  rivoluzione sociale. Ma l'Italia, e Venezia soprattutto, non ebbe mai quei profondi ribaltamenti sociali che avevano coinvolto intere nazioni all'estero decine e decine di anni prima. In termini diversi, ciò che era successo in Inghilterra, Francia o Ger­mania tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX, in

Italia si fece sentire solo alla fine dell'Ottocento. Per tutto il secolo scorso la nostra nazione dovette cercare di risolvere prevalentemente problemi di assetto interno e solo localmente si trovò ad affrontare esigenze che preludevano ad una società veramente diversa. I primi grandi capovolgi­menti di ordine sociale da noi si manifestarono, com'era lo­gico, nelle grandi metropoli industrializzate del nord negli ultimi anni del secolo. Per più di cento anni si mantennero quindi praticamente integre quelle divisioni sociali che ga­rantirono la continuazione decisionale ad una élite di per­sone la quale ben sapeva a cosa doveva opporsi per conservare i privilegi che da sempre godeva. La ristrettezza di vedute nell'accettare talune soluzioni in campo artistico non fu un limite perché questa era ben cosciente e voluta, imposta.

     Gli ultimi due decenni del secolo portarono l'Italia a scoprire problemi nuovi e ad allinearsi alla nuova ondata di intensi conflitti politico-sociali che invase allora l'intera Europa. La classe dirigente si sentì minacciata dall'a­vanzare della nuova e brulicante massa proletaria vista come nel famoso "Quarto stato" di Pelizza da Volpedo. Minacciata, la borghesia intellettuale si chiuse in una gelosa difesa della propria posizione, opponendosi alle teorie del Positi­vismo e alla sua fiducia nel potere liberatorio della scien­za. Si cercò quindi di fuggire la realtà vagheggiando ora una esasperata ricerca estetica e culto del bello, ora un ricorrere al simbolo per esprimere l'"inesprimibile", ora un drammatico confronto tra il dato oggettivo e quello sogget­tivo in una dimensione creativa di reazione al realismo ed in una evasione fantastica, allusiva o magari onirica (non ci si dimentichi che questi sono gli anni in cui Freud scoprì la psicanalisi e che, attraverso Trieste, questa pe­netrò anche in Italia).

     Ci si immerse in una ricerca estetica estremamente in­tellettualistica ricorrendo al simbolo. L'esaltazione di questo, in una artificiosa ed eccentrica concezione mistica della poetica, sfoggiò nel Decadentismo il quale attinse a piene mani nella sensazione di tragica inquietudine e senso di solitudine dovuti alla frattura tra artista e società in un morboso e raffinato vagheggiare del disfacimento e della morte.

     In pieno clima simbolico-decadente, l'Italia pian pianò s'aggiornò alle più nuove tendenze artistiche europee. Re­cepì le teorie di William Morris e gli stilemi dell'Art Nou­veau, reagì all'eclettismo ottocentesco e osannò una ansiosa ricerca del nuovo, perseguì moduli espressivi che permettes­sero di manifestare il fondo inespresso della realtà e aderì alla concezione mistica della poetica, accolse il rigore scientifico della percezione cromatica e si accostò all'uni­verso delle avanguardie storiche e di coloro che ne posero i

presupposti.

     Tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecen­to, la poetica decadente dilagò in tutt'Italia. Sulla scia del poeta-vate Gabriele D'Annunzio, vero propulsore di gusto e cultura in tutta la penisola, risuonò ovunque il suo mito estetico. "Bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d'intelletto sia ope­ra di lui. La superiorità vera è tutta qui". "Habere non haberi": il consiglio paterno dato ad Andrea Sperelli di­ ventò regola per tanti giovani d'Italia.

     Non strettamente legato al Decadentismo, il primo movi­mento artistico che affiancò con talune opere la nuova realtà di rottura nell'assetto sociale fu il Divisionismo che, non a caso, fu lungamente criticato dai contemporanei. Una parte di esso, oltre ad esprimersi con una tecnica pittorica del tutto nuova e che non a caso farà da fondamento a  tante  ricerche figurative d'inizio secolo, s'interessò dei veri problemi sociali che iniziavano a coinvolgere ormai parte d'Italia. Per questo non ebbe certo il favore della allora classe  dirigente e, d'altra parte, era logico pensare che mai l'alta borghesia potesse accettare opere come il già ci­tato famoso "Quarto stato". Il soggetto di certi dipinti divisionisti minacciava tanto quanto la stessa classe proletaria. I problemi che venivano evidenziati non erano quelli della donnina che chiede l'elemosina ai bordi di una strada come in tanta altra pittura contemporanea che si limitava così semplicemente a rilevare quanto da sempre succedeva: per la prima volta si consideravano le esigenze di una nuova classe sociale chiamata a testimoniare la nuova epoca stori­ca che si affacciava alle porte della nazione. Venezia, sotto taluni aspetti, diventò non solo dal punto di vista geografico-lagunare un'isola dove si cercò di combattere, e spesso in prima linea, l'avanzare di una nuova realtà, ma fu sicuramente per un decennio il luogo dove si concentrò, a livello artistico, una delle più accese querelle che il no­stro secolo ricordi.

     Venezia si presentava come il punto ideale per opporsi alla dilagante avanzata delle esigenze sollevate da una nuo­va epoca storica: la laguna rappresentava un cuscinetto suf­ficiente per poterla isolare dai problemi sociali che coin­volgevano le altre grandi metropoli italiane; la tradizione artistica della città, più che in ogni altro luogo, influen­zava, condizionava e vincolava il sorgere di una qual si vo­glia nuova e pericolosa tendenza artistica; il clima di mondanità, che la città viveva e aveva vissuto per tutto il secolo quale centro d'attrazione turistico e balneare nonché meta affascinante di tutti gli artisti e il bel mondo europeo, ben calzava con la volontà di mantenere vive tutte le tradizionali necessità di una classe sociale privilegia­ta. Se la città lagunare ebbe, dal punto di vista artistico, tanta risonanza fu proprio perché se una reazione al tradizionalismo in Italia doveva sorgere, questa non poteva par­tire che da Venezia.

     Il principale evento che giocò un ruolo fondamentale per tutta la cultura artistica della prima metà del secolo a Venezia fu la creazione dell'Esposizione Internazionale d'Arte. L'inaugurazione della Biennale nel 1895, in concomitanza con l'ufficiale celebrazione del 25° anniversario di matri­monio tra re Umberto I e la regina Margherita, rappresentò il punto d'arrivo più importante della serie di precedenti esperienze espositive nazionali, "legate  alla  formazioni di nuovi musei destinati all'arte moderna". Le manifestazioni delle prime Biennali che furono "uno spettacolo allora incomparabile" di richiamo mondano "nella cornice unica della città", esercitarono una forte attrazione sui giovani co­me Zecchin "lusingati di poter spaziare in campo internazio­nale e di far propri gli apporti che venivano di lontano, mentre c'era nell'aria un'attesa di rinnovamento, un anelito diffuso, per i più inspiegabile, non circostanziato e preci­so; ma si attendeva la spinta dagli artisti 'ufficiali' dell'epoca, mentre il 'mondo nuovo' doveva apparire attra­verso quegli artisti che ebbero il coraggio di rompere la cerchia".

     Le Esposizioni dei Giardini si rivelarono subito esse­re, al di là del clima artificiosamente estetizzante,  celebrazioni artistiche dalla duplice valenza. Da un lato rappresentarono la finestra aperta sul panorama artistico euro­peo tanto agognata dall'Italia intera e sulla quale furono immediatamente puntati gli occhi accorti degli intellettuali e da essa presero spunto molte altre istituzioni che di lì a pochi anni vennero fondate nelle maggiori città della peni­sola; dall'altro però, e basta sfogliare i cataloghi dei primi decenni e scorrere l'elenco delle personalità invita­te, rappresentò la principale istituzione italiana alla quale fu demandato il compito di avallare un indirizzo so­cial-artistico che doveva consolidare la cultura figurativa di una ben determinata classe dirigente.

     La risoluta cernita artistica che le Biennali esercita­rono non può, a mio avviso, essere semplicemente considerata un errore di scelta o una ristrettezza di vedute e "la storia delle prime" Esposizioni semplicemente "la storia delle occasioni mancate": fu un deciso tentativo, ben cosciente, di far sopravvivere  una tradizionalismo artistico che era anche l'unico, nelle sue mille sfaccettature, a poter essere acclamato dalla società che allora gestiva, a tutti gli ef­fetti, l'organizzazione dell'Istituzione stessa. Non fu so­lo la scelta di una cultura che non poteva vedere oltre la propria concezione, ma pure una volontà di scelta ben preci­sa che impediva di andare al di là di una tradizione che altrimenti avrebbe portato a rinnegare tutti quei valori che costituivano le colonne portanti di un determinato modo di vivere.

     Tutto quanto avvenne a Venezia nei  primi  due  decenni del nuovo secolo dimostra come a scontrarsi furono, sotto i gonfaloni di uno o l'altro artista o gruppo d'artisti, due culture il cui compromesso non era assolutamente facile da raggiungere perché l'esistenza di una stava agli antipodi dell'esistenza dell'altra: una doveva ritardare quanto più la nascita dell'altra, la quale non sarebbe potuta sorgere se non dalle ceneri della prima.

All'Accademia trionfavano le splendide vedute di Guglielmo Ciardi e del "ciardismo", le enfatiche scene popola­ne di Ettore Tito e Cesare Laurenti, le struggenti e commoventi invenzioni veristico sentimentali di Luigi Nono e Alessandro Milesi.

di tutti gli altri artisti che saranno, per naturale reazione al tradizionalismo ufficiale, tra gli antesignani dell'arte italiana moderna: una Venezia dove l'arte fu spinta ad una idealizzazione sia del "vero" che, per paradosso, attraverso le cernite dei Giardini, del "simbolo" stesso; una Venezia che dal 1895 si vide  immersa in una realtà europea, se pur manipolata, e per la prima volta si sentì uscire dai rii della provincia con la possibilità di gettarsi e far propria una dimensione artistica internazionale.

5 - Il Divisionismo non fu in fondo un vero e proprio movimento artistico unitario: i suoi artisti si conoscevano tra loro forse più per nome che per vera amicizia o comunanza di idee. Fu una reazione artistica che sorse spontanea e praticamente del tutto autonoma dal contemporaneo Pointillisme francese che, maturato su basi tan­to diverse, se pure le fonti furono spesso le stesse, anche a Parigi, tolta una ristrettissima cerchia di intimi, iniziò ad essere visto solo dai primi anni del Novecento.

7 - Il Lido di Venezia ebbe soprattutto tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, grazie alle scelte politiche esercitate dal sindaco Filippo Grimani, il suo momento di maggior successo europeo, che fu una vera e propria "esplosione mondana".

8 - Per tutto l'Ottocento Venezia fu meta agognata e tappa fondamentale del "viaggio in Italia" di artisti e cele­brità giunte da ogni parte del mondo. 

9 - Gli stessi Futuristi infatti, corroborati dalla retorica di Filippo Tommaso Marinetti, scelsero Venezia e la sua Torre dell'Orologio (dalla quale, il 27 aprile del 1910, gettarono il famoso proclama contro la  "Venezia passatista") per dare inizio alla loro "incendiaria" polemi­ca. Quando gridammo: 'uccidiamo il chiaro di luna!' noi pensavamo a te, vecchia Venezia fradicia di romantici­smo... Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che pure noi amammo e possedemmo in gran sogno nostalgico[...] Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, ed innalziamo fino al cielo l'im­    ponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo; per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture.Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata!" (FILIPPO TOMMASO MARINETTI, Discorso contro i veneziani, 1910).

10 - La prima idea di costituire a Venezia un'istituzione espositiva a carattere biennale, nacque  nelle  salette del Caffè Florian grazie soprattutto a tre personaggi che ne lanciarono la proposta: Riccardo Selvatico, poeta e letterato nonché sindaco della città; Antonio Fradeletto, accademico dalle rilevanti capacità organizzative; Giovanni Bordiga, filosofo con propensioni politiche. I tre ebbero ben presto l'appoggio di un altro illustre personaggio, il futuro sindaco Filippo Grimani. L'esperienza che aveva suggerito l'idea fu l'Esposizione nazionale di pittura e scultura tenuta nella città nel 1887. Così, il 19 aprile 1893, in una seduta del Consiglio comunale, il sindaco Selvatico presentò la delibera con la quale si stanziava una somma annua destinata per "[...]istituire una Esposizione biennale artistica nazionale, da inaugurarsi il 22 aprile 1894, assegnando il premio di diecimila lire alla migliore e degna opera d'arte esposta, premio da intitolarsi del Comune di Venezia a ricordo delle Nozze d'argento delle LL.MM. Umberto e Margherita". Non venne  rispettata la scadenza e fu grazie al pittore Bartolomeo Bezzi che, su suo insistente suggerimento, fu deciso che la mostra avesse un carattere non nazionale ma  internazionale e il regolamento ricalcasse quello dell'allora famosa Secessione di Monaco. Nella riunione del 30 marzo 1894, il Consiglio comunale deliberò l'internazionalità dell'istituenda Esposizione e di rinviarne l'inaugurazione al 30 aprile 1895, data dalla quale si fa normalmente iniziare la vita dell'Ente  (PAOLO RIZZI,  ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982).

15 - Così, ben poteva passare lo scandalo del quadro "maledetto" di Giacomo Grosso, anzi diventare addirittura un affare lucroso portandolo in tournée per il mondo; certo bastava che lo scandalo restasse tra il fumo dei salotti (e l'opera sicuramente non fu dipinta per altri scopi), chiacchierato pure da tutti ma sotto la veste decisamente solo mondana.

 

Le influenze secessioniste e orientaleggianti,

Non si legge infatti un colore o un modo di fare in ge­nere strettamente legato ad uno dei maestri di fine Ottocen­to operanti in città. Forse alcuni sottili legami possono essere  fatti con la ritrattistica di Giacomo Favretto, ma l'opera appare già immersa in una visione artistica diversa, più nuova. Solo la luce, che colpendo da destra e illuminan­do metà del volto ricorda certi bagliori limpidi e freschi che si scorgono nelle parti in sole di alcune opere di Gu­glielmo Ciardi, è forse il risultato delle ore di lezione sul paesaggio seguite all'Accademia. Ma la luce stessa, in fondo, si mostra già più vicina, magari perché la fonte è la medesima, a certi modi di fare che saranno propri ad esempio di un artista, più giovane di Zecchin, come Guido Cadorin. Per il resto, e guardando soprattutto le soluzioni di un certo schematismo con cui sono trattate le forme, il dipinto ha un sapore che sa di secessionismo, di un secessionismo non tanto austriaco ancora, al quale si accosterà solo suc­cessivamente, ma piuttosto tedesco. Nel  concepire l'autoritratto forse Zecchin s'è fatto influenzare dalle opere, e diverse di queste erano di pittori di gusto mitteleuropeo, viste alla Biennale di quell'anno esposte alla Mostra Inter­nazionale del Ritratto Moderno e dai dipinti presentati nel­le sale dedicate alla Mostra personale di Arnold Böcklin.

Libero quindi, fin dalle primissime opere, dai virtuo­sismi pittorici veneziani di fine secolo, Zecchin si accostò così a quella che era in fondo la tendenza dominante di un certo tipo di cultura lagunare, quella, se si vuole, più in­ternazionale e che le prime Biennali stesse portarono  avanti. L'apertura europea infatti che la città aveva operato con le Esposizioni dei Giardini aveva seguito, come lo stesso Bartolomeo Bezzi aveva suggerito prima ancora della crea­zione dell'Istituzione, più l'indirizzo della Germania e di Vienna, piuttosto che quello parigino. Artisti come Cesare Laurenti, Ettore Tito o Marius De Maria, ma in seguito, ol­tre al nostro, Teodoro Wolf Ferrari, Guido Cadorin o Felice Casorati, avevano mostrato particolari attenzioni all'arte secessionista di stampo mitteleuropeo. E ben più numerose erano alla Biennale le presenze degli artisti stranieri che in qualche modo erano i portavoce di questa tendenza d'avan­guardia rispetto a quelle degli artisti dell'altra vera ca­pitale dell'arte mondiale.

La linea si esibisce in eleganti e raffinate sinuosità di sapore spesso già li­berty e il colore in contrasti cromatici armoniosi che pre­ludono alle successive opere di carattere simbolista.

Tradizione pittorica veneta: Sono piccoli dipinti, eseguiti tra il 1903 e il 1907, il cui soggetto rientra pienamente nel gusto fine ottocentesco di riesumare scenette di vita a carattere settecentesco con donnine e personaggi in ampie vesti e dalla chioma folta im­mersi in paesaggi, che è poi uno dei modi in cui viene spes­so risolto un certo tipo di Liberty a Venezia. Opere sicu­ramente minori, le quali rivelano però due aspetti interes­santi: il primo, è proprio come viene risolto il paesaggio o lo sfondo che, pur essendo spesso un po' ingenuo, immerge le figure in una atmosfera da sogno e sotto certi aspetti simbolista da ricordare artisti inglesi come Gustave Moreau e Odilon Redon, diventando così forse il legame più diretto con le sue successive opere pittoriche; secondo aspetto in­teressante, è l'uso di una tecnica pittorica di tocco rapido e veloce eseguita con un mescolarsi di colori fiammeggianti che, sfumando e sfocando i contorni delle figure e del pae­saggio, creano particolari effetti coloristici i quali, non sempre accompagnati di una adeguata qualità esecutiva, fanno pensare Zecchin guardasse ad opere decisamente diverse da quelle che generalmente si considerano le fonti dalle quali egli attinse. L'uso stesso di questo modo di dipingere allu­de al sogno, e i richiami che possono venire alla mente, ol­tre al svolazzante "fa presto" della pittura veneziana di fine  secolo che dagli splendidi tocchi di Favretto si spinge sino alle romantiche composizioni di una Emma Ciardi, o agli influssi scapigliati che giungevano in città anche at­traverso una pittura già diversa come quella di un Mancini, sono certe soluzioni di influenza impressionista. A Venezia all'inizio del secolo dovevano sicuramente essere attive, e forse non solo attraverso la Biennale (con la quale si dovrà attendere Vittorio Pica affinché la pittura francese approdi veramente  in città), influenze di stampo impressionista.

 Un incontro fondamentale per la sua arte fu quello con le opere di Gustav Klimt alla Biennale del 1910. Ma pri­ma del 1910, un'altro incontro lo aiutò a maturare un lin­guaggio artistico personale che lo porterà a recepire l'in­fluenza klimtiana in modo particolare e non da semplice epi­gono. La Biennale del 1905 segnò per Zecchin quello che fu forse il suo primo contatto con un genere  d'arte  veramente consono al suo spirito di sognatore muranese. Ai Giardini furono esposti nelle sale olandesi quattro dipinti e diversi

disegni ed incisioni di Jan Toorop. Il pittore dal mistico esotismo fu, come annota  Vittorio Pica nella  presentazione alla mostra del 1923 a Milano, una vera rivelazione. "Jan Toorop, oriundo dell'isola di Giava nelle Indie Olandesi, aveva tutte le qualità per accendere la fantasia di Zecchin: era nato in Oriente e attraverso l'impressioni­smo fiammingo di Ensor e l'astrazione di Seurat aveva trova­to la via al simbolismo letterario che si accosta alla poesia di Maeterlinck e di Verhaeren".

     Da questo momento i suoi tentativi pittorici, che lo porteranno alle tele presentate alla sua prima partecipazio­ne capesarina, assumono un sapore dove "sono palesi le cor­renti spiritualistiche che avevano fatto da ponte tra il realismo dell'Ottocento e il simbolismo più intimista, di ispirazione romantica e mistica: c'era già l'avvio a quella astrazione e a quell'impennata verso nuove strade che indi­rizzò nella stessa via alcuni dei giovani più sensibili ma-turatisi a Ca' Pesaro[...] Nelle sale della  Biennale  erano passati dai preraffaelliti inglesi a Gustavo Moreau a Whistler a Odilon Redon fino alle nuove esperienze della pittu­ra giapponese e giavanese; dall'afflato lirico ed angelicato di Burne-Jones, commissario per la Gran Bretagna, alla stilizzazione lineare tipica dell'Art Nouveau".

     L'ondulata sinuosità della linea nei lavori di Jan Too­rop, e in modo particolare di un'opera come Le tre spose che influenzerà alcune tele di soggetto religioso portate alle prime esposizione di Ca' Pesaro, fu la vera tentazione che sedusse Zecchin. Ancora, Toorop rappresentò agli occhi di Zecchin quel punto fondamentale di passaggio tra le influenze secessioniste, di cui pure sentì e continuerà a sentirne il fascino, e un universo dove il simbolo era inteso come mezzo di evasione in una artificio­sità che verteva più verso una dimensione onirica ed immagi­naria del mondo oggettivo, che verso una sensuale ed inquie­ta, sofferta fuga nella scoperta delle travagliate sensazioni emotive interiori.

2 - "Il gusto accademico era più rivolto a Vienna e Monaco che a Parigi. Questa è la ragione per cui gli impressionisti tardarono clamorosamente il loro ingresso... In confronto, alcuni artisti dell'area espressionistica mitteleuropea furono più precoci nella loro apparizione alle Biennali[...] Ma va tenuto conto che a Venezia il gusto era sempre stato rivolto, anche per ovvie ragioni politiche, verso l'ambiente secessionistico." (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982).

4 - Alla Biennale del 1903 Auguste Renoir, assieme ad  altri impressionisti, fu presente con qualche rara opera.

5 - Claude Monet fu in effetti a Venezia, e per la prima volta, tra la fine del settembre 1908 e il mese di  dicembre dello stesso anno, dipingendo 29 dipinti di soggetto veneziano.

8 - Nel dal 1897 la Biennale propose una "Mostra d'arte antica giapponese".

 

Gli anni di Ca' Pesaro

Il periodo compreso tra gli anni delle prime mostre di Palazzo Pesaro e quelli immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, segna un momento di fondamentale importanza per la cultura artistica lagunare. Venezia, per un decennio circa, assunse un ruolo di primissimo piano per l'arte ita­liana diventando uno dei centri più fervidi della cultura d'avanguardia nazionale e attirando su di sè l'attenzione di quanti allora auspicavano un allineamento della nostra arte alle tendenze più moderne del panorama artistico internazio­nale.

     Il polo istituzionale attorno al quale gravava tutto quanto successe in città in quegli anni fu l'Esposizione In­ternazionale dei Giardini. La Biennale presentava diverse e molteplici sfaccettature da costituire l'humus ideale per il generarsi e il moltiplicarsi di nuove tendenze artistiche saldamente abbarbicate nel nuovo secolo. Come già s'è detto, le Esposizioni, attirando a loro artisti e mondanità giun­genti un po' da tutta Europa, rappresentavano l'avamposto di tutta la cultura di una società tradizionalista di stampo ottocentesco che voleva mantenere integre le proprie esigenze e divenne, proprio per questo nel giro di breve tempo, la naturale istituzione a cui le nuove tendenze d'avanguardia, veneziane innanzitutto ma anche italiane, dovevano reagire e, di conseguenza, contestare. In città, prima della guerra, solo polemizzando con la Biennale e sperando in un cambia­mento delle sue scelte artistiche (cambiamento che, sottoli­neo, avrebbe significato per la classe dirigente d'allora l'accettare o, per lo meno, l'adeguarsi ad una nuova realtà culturale e di vita), la nuova generazione poteva sperare d'esprimersi liberamente. Ed era alla Biennale che i giovani, nonostante la polemizzata "chiusura", potevano ammirare spesso importanti capolavori e, in ogni caso, sentire l'on­data delle nuove tendenze d'avanguardia europee. L'Esposi­zione dei Giardini rimaneva inoltre pur sempre il luogo più ambito dove poter raggiungere il tanto desiderato riconosci­mento sociale e rappresentava quindi una meta indispensabile da raggiungere.

     Alla vigilia del centenario della Biennale veneziana, bisogna riconoscere che uno dei suoi più alti meriti fu per­mettere l'esistenza, non formalmente ma come fucina d'arte moderna, di Ca' Pesaro, ovvero quella che a mio avviso può essere fondatamente ritenuta l'altra parte della Biennale stessa. Non c'è dubbio che Ca' Pesaro e i suoi artisti senza il continuo paragonarsi e distaccarsi da ciò che i Giardini rappresentavano, non sarebbero potuti essere ciò che son stati e, se ancora oggi quei giovani antesignani dell'arte italiana sono sovente troppo spesso trascurati dalla vasta critica, ciò è dovuto alla mancanza di un ufficiale ricono­scimento del profondo legame, pur sofferto, esistito tra le due istituzioni cittadine. E' da sperare che la Biennale del 1995 riesca a sottolineare con sufficiente chiarezza quanto avvenne in quegli anni di cultura artistica italiana a Vene­zia.

     Il 31 gennaio del 1899 si spense l'illustre Felicita Bevilacqua La Masa. L'accorta duchessa lasciò per testamen­to, redatto l'anno prima, al comune di Venezia la poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto che ivi vi si te­nessero "esposizioni permanenti di arte ed industrie vene­ziane. [...]specie per i  giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciu­ti e sfiduciati non hanno i mezzi da farsi avanti e sono so­vente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli ed

incettatori che sono i loro vampiri". Altre clausole del testamento prevedevano la trasformazione in studi e  ricoveri, per quei "giovani artisti", di una parte del  palazzo e di un'altra parte da destinarsi ad essere affittata allo scopo di garantire un reddito per il funzionamento dell'"O­pera".

     La "Fondazione Bevilacqua La Masa", esistente sulla carta sin dal 1905, dovette attendere il concorso per di­rettore della  Galleria Internazionale d'Arte Moderna, che prevedeva anche la funzione di segretario dell'"Opera", per avere un ordinatore ed iniziare a tutti gli effetti la propria attività. Vincitore del concorso indetto fu il Giovane ferrarese Nino Barbantini, allora ventitreenne, il quale capì subito l'opportunità che gli si offriva di dare inizio ad una intensa attività artistica giovanile.

     Come la Biennale, anche la Fondazione Bevilacqua La Masa e la Galleria Internazionale d'Arte Moderna sottostavano alle decisioni direzionali del comune di Venezia. Le Esposizioni palatine furono sempre condizionate, e uno dei grandi meriti di Barbantini fu quindi l'aver saputo portar avanti idee artistiche moderne riuscendo a mediare continua­mente tra quelle che erano le esigenze di Ca' Pesaro e quel­le che invece erano le esigenze comunali, che a livello ar­tistico si risolvevano quasi sempre con i voleri di Frade­letto, segretario sino al 1920 della Biennale. L'intento iniziale fu quello di fare della Fondazione un organismo le­gato all'Istituzione artistica principale dove, alla fin fi­ne, potevano ripiegare ad esporre quei giovani che, anche per vere e proprie esigenze di spazio non erano accolti ai Giardini.

     Persona estremamente attiva, sin dal 1908 Nino Barban­tini riuscì ad allestire le prime due mostre, delle quali purtroppo non esistono cataloghi. "Con una mossa abile e in­telligente, Barbantini aveva fatto <<invitare>> anche arti­sti allora già molto noti come Guglielmo Ciardi, Pietro Fragiacomo, Cesare Laurenti, Alessandro Milesi e altri. [...] si preoccupava perciò di pubblicizzare le mostre di Ca' Pesaro".

     In una Venezia dove l'arte contemporanea d'allora era per il grande pubblico quasi esclusivamente l'Esposizione dei Giardini, uno dei primi problemi da risolvere fu far conoscere le mostre palatine. Per i giovani artisti al con­trario, Ca' Pesaro apparve subito come una possibilità in­sperata d'esporre i propri lavori e quindi un'iniziativa di cui  vennero  subito a  conoscenza. Alle prime mostre del 1908, non furono molti i giovani della nuova generazione ad esporre ma ce ne furono, e per alcuni addirittura ne fu ne­gato l'accesso.

 Le prime due mostre tenute a Ca' Pesaro non ebbero nul­la di particolare da poter disturbare la Biennale di Antonio Fradeletto: se pur la nascita della nuova Fondazione arti­stica non fu vista, si dall'inizio, di buon occhio, le sue prime due mostre sembrarono avallare le scelte artistiche dell'istituzione maggiore e corroborarne anzi la presa di posizione tradizionalista. Furono le mostre del 1909 a por­tare le prime vere ventate di gioventù nelle sale del palaz­zo sul Canal Grande iniziando a contrastare la chiusura ar­tistica dei Giardini. L'attenzione di tutti comunque, quell'anno, era rivolta all'VIII Esposizione Internazionale d'Arte. Scrisse Ardengo Soffici, il "toscano maledetto" come era sopranominato a Venezia: "Monet, Degas, Cézanne, Toulou­se-Lautrec, sono questi i pittori e gli scultori che il si­gnor Fradeletto avrebbe dovuto supplicare con le mani in croce per indurli a mostrare nella sua Venezia che cosa vuol dire arte moderna e quali siano le aspirazioni e le espres­sioni dell'anima occidentale rinnovellata". La Biennale fu dunque deludente e, a contrario, la foga giovanile che regnava nelle sale di Ca' Pesaro suscitò subito gran clamore e speranze anche fuori della stessa città. La querelle tra le due istituzioni, che assumerà toni sempre più polemizzan­ti e accesi negli anni successivi, era così ufficialmente iniziata.

     Una caratteristica, a mio avviso, di importanza fonda­mentale per Ca' Pesaro, evidenziata sin dalle prime esposi­zioni, fu che nelle sue sale accolse un gruppo di giovani artisti i quali non furono mai un movimento artistico. Era la conseguenza più logica per un'istituzione sorta con l'esplicita volontà di ospitare quei giovani "sconosciuti e sfiduciati che non hanno i mezzi da farsi avanti". Questo ebbe il significato di una vera e propria apertura ad una visione artistica più moderna: le mostre palatine furono la culla delle più diverse tendenze e manifestazioni figurati­ve, le quali trovarono un corroboramento reciproco sorretto prinpalmente dalla giovanile foga di far arte innovativa. Nel decennio che rese glorioso il nome della Fondazione, ar­tisti dalla formazione, dalla tempra e dagli esiti differen­ti si trovarono ad operare uno affianco all'altro accomunati dall'esigenza di rompere definitivamente con la tradizione provinciale in cui, a Venezia in modo particolare, si era immersi. Fu una vera fucina la quale sfoggiò, e per la quale passarono, alcuni tra coloro che saranno gli artisti più significativi della prima metà del nostro secolo. Le porte di Ca' Pesaro, non rappresentando un unico movimento artistico, non vennero mai chiuse alle nuove tendenze artistiche che andavano maturando nell'Italia intera. Ca' Pesaro assunse il ruolo di palestra dove i giovani artisti poterono esercitarsi, nei loro primi anni di attività, per poi proseguire au­tonomamente la loro ricerca espressiva. Anche in tutto questo devono essere ravvisate, in parte, le cause della "diaspora" che seguì la fine della prima guerra mondiale, quando vennero a mancare le motivazioni basilari che sussistevano prima dell'evento bellico.

     Le mostre di Ca' Pesaro del 1909, per le quali, come l'anno precedente, non esistono dei veri e propri cataloghi, furono tre. La partecipazione che suscitò maggior interesse, assieme a quella di Umberto Moggioli, fu quella, come ri­corda Gino Damerini, di Ugo Valeri, artista che, in qualche modo, era riuscito ad esporre, negli anni preceden­ti, anche alla Biennale.

     Il 1910 fu un anno di estrema importanza per Ca' Pesa­ro. La Biennale, anticipata di un anno per evitare la conco­mitanza con l'esposizione internazionale di Roma del 1911, si rivelò, da un lato, una chiusura nei confronti della nuo­va arte giovane particolarmente accentuata proprio perché quell'anno vennero soppresse le sale regionali ed istituita la "Sala della gioventù"; dall'altro lato però, pre­sentò tre importanti mostre, la retrospettiva di Courbet, la personale di Renoir e l'individuale di Klimt, che furono uno spiraglio di novità e speranze per i giovani artisti ed intellettuali dell'epoca. Ca' Pesaro quell'anno, prima

con la mostra di primavera, poi con quella dell'estate, pre­sentò un'insieme di iniziative che definirono nettamente la linea di contrasto e polemica nei confronti dell'altra istituzione artistica cittadina. Sicuramente l'evento che su­scitò maggiore risonanza fu l'aver ospitato nelle sale palatine la mostra personale di Umberto Boccioni, vista come vera e propria provocazione. Le opere che Boccioni presentò, nonostante l'infuocata propaganda di Filippo Tommaso Marinetti, erano più futuriste nella lettera che nella so­stanza. Ciò non toglie che Ca' Pesaro si mostrò aperta là dove la Biennale aveva categoricamente sbarrato le porte. Il Futurismo come manifestazione artistica, non fu mai ab­bracciato dai giovani capesarini, come essi non furono mai così spavaldi nell'attaccare la tradizione, pure se il grup­po andava prendendo sempre più connotati di netto stampo se­cessionista. Anzi, si pensi solo a Burano e  come quest'isola diverrà sempre più una specie di Bretagna veneziana. Vi fu un naturale affiancamento dovuto alla vicinanza di ideali, alla sentita esigenza, sia per il gruppo palatino che per il movimento marinettiano, di rompere con il vincolo di un'arte anacronistica.

     La visione delle opere di Gustav Klimt alla Biennale del 1910, segna un momento fondamentale nello sviluppo artistico. Klimt si presentava con tutto il fascino di un'estetica raffinata all'inverosimile dove vivevano, in armonia assoluta, Oriente mistico e Occidente secessionista, dramma e gioia icastica, felicità d'esecuzione e evasione allusiva in un universo di fantastiche invenzioni, tanto ricercate, da trasformare la realtà da cui traevano spunto in sentita visione onirica saldamente legata al più profondo essere dell'intro­spezione umana. "La mostra alla Biennale del 1910 di Gustav Klimt è stata un'apertura d'orizzonti per  Vittorio Zecchin: nella pittura e nella decorazione Klimt sovrasta tutti. Era l''astro artificiale', come le definiva Boccioni contrario del suo successo, ma la qualità dell'artificio andava ai li­miti della fantasia tra astrazione e decorazione pura. Zec­chin non sente in Klimt l'atmosfera di decadentismo che cir­conda l'arte del pittore viennese,quella dissolvenza della forma, che porta un'immagine quasi sensitiva di languori trasognati, di profumi d'Oriente dal sapore dolcissimo e velenoso, di quell'estetismo che vari aspetti della moda fece­ro proprio. Zecchin è dotato d'un candore d'eccezione, non ha nessun aspetto di 'poète maudit'... L'artista coglie da Klimt e fa tutto suo il ritmo musicale della linea ad arabe­sco e l'incanto del colore, esaltato in bagliori vitrei e splendenti lontano da ogni immediato riferimento alla realtà contingente". Zecchin nelle opere di Klimt non assimila quel senso di disfacimento ed esaltazione sensuale della malattia fin-de-siècle nell'età dell'oro dell'insicurezza di una Vienna che, al ritmo di Strauss, alzava i cali­ci alla propria apocalypse Joyeuse. Nemmeno Casorati, nelle influenze dell'artista austriaco, recepisce e sviluppa le caratteristiche morbose che fanno dell'ignoto un universo anarchico da far paura, di cui la donna ne diviene rappre­sentante indiscusso e Klimt la punta di diamante di quella stessa sensibilità rappresentativa della sua società. Il ri­tratto della Vienna a cavallo del secolo è il ritratto della donna ritratta, della femme fatale, della femme abominable, della figlia del tempo dell'insicurezza, della "donna = sensualità", dell'"Enide" weiningeriana: di tutto quanto a Venezia non esisteva.

Con la mostra palatina dell'estate del 1910, erano intanto entrati a pieno titolo nell'orbita capesarina tutti coloro che saranno i veri fautori della querelle artistica contro la Biennale.

     Il 1911 si aprì, fatto a cui già s'è  accennato, con la tragica morte di Ugo Valeri, artista la cui memoria fu immediatamente onorata alla mostra di primavera di Ca' Pesa­ro con una retrospettiva di oltre trenta opere. Questo fu anche l'anno in cui i giovani artisti, e primo fra tutto Artu­ro Martini, il più battagliero, dopo le esperienze del 1910, abbracciarono apertamente il partito di netta opposizione all'ambiente e alla cultura ufficiale che la Biennale rappresentava.

     In quell'estate del 1911, sovrastata dalla calura e dal timore largamente diffuso, come ricorda anche Thomas Mann nella Morte a Venezia, del pericolo del colera, la seconda mostra stagionale di Ca' Pesaro non si tenne. Questo non servì a calmare l'animo di Fradeletto che, dopo la minaccia in fondo domabile rappresentata delle mostre sul Canal Gran­de, si sentì incombere il ben più preoccupante successo dell'Esposizione Internazionale di Valle Giulia. La stampa e lo stesso governo avevano largamente sostenuto la volontà di trasferire da Venezia a Roma il più importante centro arti­stico internazionale della nazione. La stessa riapertura della Biennale era in discussione: "Fradeletto arrivava a chiedersi se non convenisse spostarla al 1913 o addirittura al 1914".

     La Biennale si tenne comunque due anni dopo la precedente, nel 1912. Fradeletto temeva la concorrenza romana e voleva così presentare artisti che richiamassero il vasto pubblico e che riassicurassero le esposizioni dei Giardini. Chiese la collaborazione anche di Barbantini, con l'intento da una parte di assicurarsi la partecipazione di Previati, e dall'altra di attenuare le polemiche con Ca' Pesaro. Nonostante gli sforzi di Fradeletto, le speranze di Barbantini e, per la prima volta, la partecipazione di Vittorio Pica in qualità di vicesegretario, l'Esposizione fu deludente, più ancora della precedente. Ai Giardini avevano ripreso il me­todo della giuria d'accettazione (oltre agli inviti) e secca fu la selezione tra i giovani, tanto che Barbantini scrive a Fradeletto una lettera di vera protesta e dal tono "quasi rabbioso".

     La mostra di Ca' Pesaro del 1912, da quest'anno annua­le, fu ricca d'iniziative pur con la mancanza di Gino Rossi e Arturo Martini. Fautore della proposta più interessante, subito abbracciata dagli altri artisti tra cui Vittorio Zec­chin, fu Teodoro Wolf Ferrari che "tutto preso dalle nuove idee liberty a favore dell'arte applicata che egli aveva ma­turato durante il lungo soggiorno a Monaco, volle portare anche nelle sale di Ca' Pesaro un'aria nuova proponendo tra i giovani un movimento chiamato l''Aratro'. Monaco, ancor più di Parigi, era allora negli ideali delle Biennali vene­ziane. Lo stesso catalogo di Ca' Pesaro del 1912 si ispira ad alcune riviste liberty di moda, come <<Jugend>> di Mona­co,  <<Pan>> di Berlino e <<Ver Sacrum>> di Vienna".  Lo stampo marcatamente secessionista che andava prendendo Ca' Pesaro, sempre restando, malgrado i vari tentativi, un gruppo d'artisti più che un movimento artistico, portò subito ad aver contatti con altri giovani romani che proprio quell'anno s'erano costituiti in un gruppo secessionista per reagire alla sorta di bazar ch'era stata l'Esposizione d'arte mon­diale del 1911.

     La presentazione del catalogo della mostra di Ca' Pesa­ro, riferendosi al gruppo dell'"Aratro", precisa l'intento finalizzato alle arti decorative dell'iniziativa: "Un gruppo di artisti veneziani, persuasi dell'opportunità di ricondur­re anche da noi tutte le  manifestazioni dell'arte alla sua più genuina espressione, la decorazione, intendono sottomet­tersi a sè stessi e la loro produzione ad una comune regola di armonia, pur restando fedeli ad una propria ispirazione. Le due sale organizzate al pianterreno  di Palazzo Pesaro sono l'attuazione pratica di un primo tentativo in questo senso". La finalità era dunque rivolta alla rivalorizzazione delle arti minori, senza alcun vincolo stilistico che potes­se veramente incanalare ogni singolo artista in una ben pre­cisa tendenza figurativa.

     Il 1913 si aprì con l'attenzione rivolta a Roma. Gli artisti di Ca' Pesaro furono invitati a partecipare alla Prima Esposizione Internazionale della <<Secessione Romana>>, inaugurata a marzo a Palazzo delle Esposizioni. L'iniziativa romana, come già s'è accennato, era nata dalle stesse motivazioni di reazione, in questo caso all'Esposizione internazionale in commemorazione del cinquantenario dell'U­nità d'Italia, che a Venezia avevano spinto i giovani arti­sti a polemizzare con la Biennale. Sia Ca' Pesaro che la Se­cessione Romana, rientravano in un generale clima di scontento  artistico nei confronti della cultura  ufficiale che portò, negli anni che precedettero la guerra, a simili ini­ziative sorte spontaneamente un po' in tutt'Italia, da Mila­no a Napoli. Non ci fu mai una vera coordinazione generale dei giovani secessionisti della nazione, ma i collegamenti tra loro furono molteplici.

     Come ricorda lo stesso Barbantini, il 1913 fu l'anno più importante per Ca' Pesaro: "[...]dopo [...] che un giornale ebbe dato l'allarme e  svelato in un'intervista da cronaca nera che proprio lì a Venezia, contro le Biennali gloriose, si tramavano a due passi congiure e attentati se­cessionisti. Poco dopo un massimo foglio romano, stampava invece un articolo di due colonne, giurando che Ca' Pesaro valeva più dei Giardini, tanto che Antonio Fradeletto padre e cavaliere amatissimo della Biennale e di  conseguenza difensore geloso e vendicativo delle sue grazie, sporse querela contro l'estensore di quell'articolo o per lo meno minac­ciò di farlo. E poi a procurarci una notorietà insperata, arrivò la Mostra del '13, dove Rossi Martini e Garbari, che s'erano messi d'impegno, fecero miracoli, suscitando tra i ben pensanti uno scandalo tale che in città non si parlava d'altro e se ne parlò molto anche fuori. Nelle sale non si respirava, tant'era la folla. I giornali polemizzavano, i pittori e i clienti dei caffè, chi per noi, chi contro di noi, se ne dicevano di tutti i colori. S'arrivò qua e là a vie di fatto. Il Consiglio Comunale ci dedicava una  seduta, deplorando che in casa del Comune e all'insegna del leone in moleca si potesse vedere quello che si vedeva. Fu proposta la chiusura immediata della Mostra in questione, che sarebbe stata attuata di sicuro, se taluni artisti belgi che figura­vano quell'anno nel padiglione della Biennale non si fossero raccolti a prendere partito per noi, chiedendo di poter e­sporre d'allora tra i vivi di Ca' Pesaro invece che tra i morti dei Giardini. Tutti, nel torneo, avevano perso le staffe". Dovette esser stato un anno straordinario dove Venezia, per fatti d'arte, non ricordava tante accese pole­miche probabilmente dalla metà del Settecento, quando, anche allora, la stessa gente comune si divise in vere e proprie fazioni parteggiando, discutendo e litigando, per strada, nelle osterie e nei luoghi ufficiali, chi per il teatro in­novativo di Goldoni, chi per le tradizionali rappresentazio­ni chiariniane e gozziane. Come ben hanno documentato Guido Perocco ed Enzo di Martino, gli allestimenti delle opere di Gino Rossi, Arturo Martini, Tullio Garbari, Umberto Moggioli, Ubaldo Oppi, Guido Marussig, e tutti gli altri, fece­ro gridare allo scandalo e la reazione ufficiale rischiò di far chiudere l'esposizione. Lo stesso Fradeletto, in polemi­ca con Ca' Pesaro, aveva organizzato una mostra giovanile alternativa al Salone Vittoria, alla Pietà. Ma, in ultima analisi, il successo della mostra palatina fu tale che Ca' Pesaro iniziò ad avere il suo peso sulla cultura artistica veneziana ed italiana, tanto che, per il 1914, si pensò addirittura ad una forma di collaborazione tra le due isti­tuzioni. "Non se ne fece niente e, anzi, la polemica  continuò ancora aspra e clamorosa".

     Alla Seconda Esposizione Internazionale d'Arte della <<Secessione Romana>>, inaugurata il 21 marzo, gli artisti veneziani si presentarono carichi di nuova forza e circonda­ti da un alone di successo per quanto era avvenuto l'anno prima.

Quanto successe a Ca' Pesaro nel 1913, condizionò anche l'anno successivo. Da principio sembrò potesse esserci una possibile collaborazione tra le due istituzioni  artistiche, ma l'dea fu subito abbandonata e, a contrario, il sindaco Grimani, presidente della Biennale, non autorizzò l'annuale esposizione palatina del 1914. "Barbantini era rimasto al suo posto, non si era risusciti a scalzarlo, ma gli si to­glieva ogni possibilità di agire[..]". I giovani artisti di Ca' Pesaro, nella speranza che la mostra si potesse tenere, esortarono ed incoraggiarono Barbantini: "Mi raccoman­do Dottore coraggio, quest'anno l'esposizione è necessaria, non importa una, due o cinque sale, ma bisogna aprirla per accogliere il nostro massimo sforzo". Dal canto loro, comunque fossero andate le cose, avrebbero messo tutte le forze possibili per continuare la linea di polemica contro la Biennale. La chiusura di Ca' Pesaro portò i suoi artisti a concorrere per la partecipazione alla Biennale. "...su 621 artisti ne furono accettati solo 114. Forse non erano nean­che pochi ma ciò che risultò clamoroso fu il fatto che furono scartati - certo con una deliberata  intenzione - proprio gli artisti rivelatisi più nuovi e turbolenti alla mostra di Ca' Pesaro del 1913".

Se pur siamo ancora lontani dal 1930, anno in cui alla Biennale venne istituito il padiglione per le arti de­corative, un'attenzione particolare l'esposizione dei Giardini aveva sempre riservato alle arti applicate. L'arte decorativa, com'era nei dettami di una tradizione che risaliva il tempo sino all'accademismo neoclassico, era alla fin fine rilegata tra le ma­nifestazioni minori e le novità che ad esse venivano appor­tate furono a lungo considerate secondarie, almeno in certi ambienti, rispetto alle tre espressioni artistiche principa­li.

"La Biennale di Venezia, intanto, celebrava quell'anno una delle sue edizioni più scialbe. Non c'era nessuna mostra speciale, nessun segno di apertura verso le nuove esperienze europee e, semmai, perfino un certo arretramento rispetto al 1910[...] Le uniche mostre di un certo interesse furono quelle dedicate ai divisionisti italiani[...] e la retro­spettiva di Giuseppe De Nittis: un po' poco[...] Nei padi­glioni stranieri l'unica mostra di rilievo era quella dedi­cata dal belgio a James Ensor[...]".

     La reazione alla chiusura di Ca' Pesaro e alla "chiusura" della Biennale, "probabilmente incoraggiata dietro le quinte dallo stesso Barbantini",  intento dall'altro lato ad una equivoca azione di mediazione con il comune e con i giardini, fu l'organizzazione della mostra dei Rifiutati all'Albergo Excelsior del Lido. Il catalogo, dal titolo quanto mai polemico, "Esposizione di alcuni artisti rifiutati alla Biennale veneziana", portava la seguente accesa presentazione: "Breve discorso per chiarire le ragioni di questa nostra manifestazione. Non furore iconoclasta contro i vecchi maestri[...] o ai danni della Biennale Veneziana ci sospinse ad essa[...] Noi siamo consapevoli che il ritmo della storia si alimenta perennemente di tendenze che si esauriscono e di altre che si de­terminano in arcane penombre prima di espandersi vittoriosa­mente alla gloria del sole: e attendiamo fidenti la nostra ora[...] E poiché la giuria dell'undicesima Esposizione ci ha respinti quali <<pallidi ripetitori che non sanno né ove volgersi né ove mirare>>, noi - pur rispecchiando indirizzi artistici diversi - abbiamo composti i nostri dissidi ideali in un affratellamento dignitoso per appellare alle competi­zioni artistiche. Abbiamo a tal uopo raccolte in una sala dell'Excelsior[...] le opere reiette[...] Non sta a noi pro­fetare[...] quale che sia la sorte che il futuro ci riserba, crediamo che non sarà stata pronunciata invano la nostra corretta e ferma parola di protesta quando siasi riconosciu­ta la nobiltà dei nostri intenti e l'ardore fattivo del no­stro entusiasmo". A corroborare questo clima di ribellione, parteggiato da tutti gli artisti più accorti del gruppo capesarino fu il rientro in Italia, di ritorno dalla tournée carichi di nuove energie, dei futuristi, sempre pronti ad affiancare nella polemica gli artisti veneziani.

     Nel 1915, a febbraio, partecipò all'Esposizione di Boz­zetti di Artisti Veneziani tenuta all'Hotel Vittoria. E,  presente alla Terza Esposizione Internazionale della <<Se­cessione Romana>>, inaugurata il 3 aprile sempre a Palazzo delle Esposizioni, espose il dipinto Scolta Barbara.

     A Venezia, il gruppo di artisti che ruotava attorno a Palazzo Pesaro continuava la sua polemica e nel giugno di quell'anno arrivò a fondare anche una sua rivista, dal titolo quanto mai esplicativo "I pazzi", della quale uscì solo un numero. "La storia dell'arte italiana dei primi anni del secolo si svolse in questo drammatico inserirsi di forze attive in una società che andava sempre più chiudendosi e non rispondeva, o rispondeva solo in parte, ad un corso inelut­tabile di eventi che portarono alla soglia della prima guer­ra mondiale".

     Spinti dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno Gabriele D'Annunzio, in un'Italia sempre più convinta al bel gesto e a vedere nella guerra  la  "sola igiene del mondo", tanti furono i giovani che intrapresero una avventura dalla quale per molti non vi fu ritorno, e chi tornò, tornò profondamente cambiato. Nella seconda metà del 1915,  anche i ragazzi di Ca' Pesaro,  più o meno convinti, furono chiamati alle armi.

  La guerra aveva cambiato tutto. L'entusiasmo iniziale che aveva spinto i giovani a voler affrontare di faccia i combattimenti, fu ben presto soppiantato dalla fredda logica della realtà bellica e la guerra stessa, come ebbe e dire Gozzano, "ritolse tutte le sue promesse". L'evento bellico pose fine all'Ottocento, spintosi ormai per quasi due decen­ni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria mutilata", dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva essere.

     Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell'Italia artistica del dopoguerra.

     La guerra aveva portato via Boccioni e nel 1919 la febbre spagnola si portò via anche Moggioli. Gino Rossi, dopo la drammatica esperienza di Restatt, elaborò un linguaggio artistico di difficile comprensione anche per lo stesso Bar­bantini, e, dopo qualche anno, la malattia lo costrinse ad uscir di scena. Troppe cose erano cambiate, soprattutto nella volontà degli artisti rimasti.

     All'interno del gruppo capesarino, nell'organizzazione della mostra di quell'anno, tanto attivamente gestita da Barbantini, l'UGA, l'Unione giovani artisti, sorta su ini­ziativa di Teodoro Wolf Ferrari, aveva creato dissidi. Zec­chin stesso parteciperà all'Unione ma, come Gino Rossi, non accettandone in tutto le idee.

     La mostra di Ca' Pesaro, inaugurata il 12 luglio del 1919, si rivelò, in ogni caso, tra le più belle e riuscite di tutta la storia della Fondazione. Il catalogo porta una lunga presentazione di Gino Damerini, dov'è riassunto tutto quanto Ca' Pesaro aveva fatto ed era stata prima della guerra. I giornali locali e nazionali accolsero con entusiasmo la manifestazione e, come il mondo culturale, non tardarono a definirla il più importante evento artistico del dopoguer­ra. L'Esposizione at­tirò su di sè e su Venezia l'attenzione di tutta la critica nazionale. Venezia poteva sperare di assumere un'importanza primaria nel determinare la strada o influire significativa­mente sul cammino dell'arte italiana. Oltre tutto, "Pareva proprio che il grande ideale di Ca' Pesaro stesse per essere finalmente accettato e che le grandi esposizioni ufficiali fossero sul punto di aprire le porte alle proposte di rinno­vamento dell'arte che i giovani di Ca' Pesaro avanzavano da anni". La stessa mostra di Natale del Circolo Artistico della Galleria Geri-Boralevi sembrava preludere a questo.

     La mostra capesarina del '19, aveva evidenziato però, negli artisti stessi, una volontà diversa da quella che dominava prima della guerra. Ca' Pesaro reclamava un pieno riconoscimento a tutti i livelli: gli artisti, non più giova­nissimi ed inesperti, avevano tutti delineato il loro percorso artistico e l'istituzione serviva ancora come punto d'esposizione e di lavoro, ma non rappresentava più l'unica ed indispensabile possibilità. Ognuno aveva maturato una propria fisionomia artistica che poteva continuare autonoma. Le polemiche con la Biennale avevano in un certo modo perso di senso e dovevano volgere velocemente all'epilogo: la realtà nel dopoguerra era cambiata e cambiare doveva ogni cosa. L'esigenza di romper con il tradizionalismo di stampo ottocentesco venne meno, la guerra aveva spazzato via tutto quanto fino a qualche anno prima era forte e vivo. A Venezia non ci fu, tolte le persone più accorte, una precisa co­scienza delle mutate e nuove esigenze culturali. L'isola geografico-lagunare della città fu toccata solo indiretta­mente dall'evento bellico, e per taluni rimase la convinzio­ne che le cose potessero continuare come prima. Alla base di quanto successe nel 1920 e dopo, per qualche anno ancora, ci fu un ultimo, disperato tentativo di riesumare una cultura ormai morta, quanto mai anacronistica e fuori luogo.  La Biennale di quell'anno ne fu un esempio. "Il 1920 fu un anno di grandi cambiamenti, sia alla Biennale che a Ca' Pesaro, anche per la scomparsa di alcuni personaggi che ne avevano determinato, nel bene e nel male, l'ormai lunga vicenda. Cambiò anche il sindaco della città  Filippo Grimani - in seguito alla crisi della giunta modera­ta da lui presieduta per quasi venticinque anni e venne so­stituito da un commissario straordinario. In Biennale venne perciò nominato un presidente (fino ad allora era lo stesso sindaco a presiedere l'ente) nella persona di Giovanni Bordiga. Inevitabilmente cambiò anche il segretario e Vittorio Pica, vice segretario sin dal 1912, sostituì finalmente An­tonio Fradeletto". La Biennale riaprì con un'esposizione ambiguamente deludente. Vittorio Pica ebbe l'accortezza, con l'aiuto di un commissario d'eccezione come Paul Signac, di dare un panorama dell'Impressionismo e Postimpressionismo francese, nonché di accogliere opere di Van Gogh e Archipen­ko; ma d'altro lato, sotto le direttive comunali, dovette escludere proprio quelle avanguardie nazionali e locali che, con la mostra del 1919, reclamavano l'atteso riconoscimento. Il mondo artistico e culturale italiano del dopo guer­ra, con gli occhi puntati su Venezia, e sulla Biennale innanzi tutto, aveva bisogno di una mostra in grado di dare una esaustiva panoramica su quanto era successo prima della guerra e, allo stesso tempo, di vedere raggruppate in un'u­nica sede espositiva le nuove tendenze artistiche sulle quali poter edificare la cultura figurativa post-bellica. Vittorio Pica non fu in grado di dare tanto subito: la sua ope­ra di rinnovamento all'Esposizione Internazionale richiderà ancora qualche anno. Nel 1920, la Biennale, sembrò voler i­gnorare quelle che erano le nuove esigenze di una nazione che di colpo s'era gettata nel nuovo secolo. Ai Giardini, nelle sale italiane, tutto era volutamente rimasto come ne­gli anni precedenti.

     Nino Barbantini stava facendo del suo meglio per orga­nizzare l'esposizione palatina del 1920. A dimostrazione dell'importanza della mostra, aveva invitato anche molti ar­tisti che non gravitavano nell'orbita di  Ca' Pesaro. Una decisione comunale, però, cambiò la giuria d'accettazione della Fondazione, la quale fu spinta ad adottare alla lettera, non senza voluti fraintendimenti, quanto dettato dal testamento della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa. Ci fu una sorta di Serrata del Maggior Consiglio: con lo  stesso criticato metodo della Biennale, vennero accettati quasi tutti gli artisti che si erano presentati (senza attuare quella discriminazione qualitativa che aveva fatto tanto in­teressanti le mostre palatine), ed esclusi i "non veneziani". Felice Casorati, che tanto desiderava esporre a Ca' Pesaro (e che già aveva esposto nel 1913), fu  una delle po­chissime esclusioni ed ovviamente susciutò l'ira di tutti i colleghi.

     La reazione fu immediata. Venne allestita, presso la galleria Geri-Boralevi, in piazza San Marco, ed inaugurata il 15 luglio (quindici giorni dopo l'apertura di Ca' Pesaro), l'Esposizione degli Artisti Dissidenti di Ca' Pesaro "Si trattava di una presa di posizione clamorosa che per la prima volta allontanava  da Ca' Pesaro, cioè dalla sede sto­rica, un gruppo di artisti tra i più rappresentativi della ricerca veneziana del tempo".  Un'articolo comparso ne' "La Gazzetta di Venezia" dei primi giorni di  luglio, e riportato poi all'interno della  presentazione nel catalogo della mostra, precisa: "I sottoscritti venuti a conoscenza dei nuovi criteri con i quali sarà organizzata quest'anno la Esposizione di Ca' Pesaro; criteri che, dovuti ad una agita­zione inconsulta ed infondata sotto tutti gli aspetti così giuridici per quanto riguarda la interpretazione del testamento della Duchessa Bevilacqua La Masa, come artistici, so­no stati accettati dal Commissario Regio, e contrastano con quelli che nei precedenti anni crebbero fama nazionale alle Esposizioni stesse; Considerato, che in base alle nuove di­sposizioni vengono esclusi specialmente quegli artisti i quali con il loro costante intervento richiamarono su Ca' Pesaro l'attenzione del mondo artistico, giovando in parti­colar modo ai giovani meno noti; considerato che l'agitazio­ne di cui sopra è ora rivolta ad ottenere l'allontanamento dalla Mostra di uno di questi artisti e precisamente di Fe­lice Casorati; protestano per le arbitrarie disposizioni intervenute a distruggere a beneficio di non si sa che, certo non dell'Arte, il lavoro compiuto fino alla IX Esposizione di Ca' Pesaro; e deliberano di astenersi da quella di quest'anno invitando quanti riconoscono la bontà di tale decisione ad uniformarvisi". Firmano  lo scritto: Carlo Carrà, Teodoro Wolf Ferrari, Pio Semeghini, Guido Balsamo Stella, Guido Trentini, Gino Rossi, Gigi Scopinich, Vittorio Zec­chin, Federico Cusin, Emilio Notte, F. Dudreville ed Ercole Sibellato. La mostra alla Geri-Boralevi fu indubbiamente più interessante di quella palatina, ma segnò la fine della glo­riosa stagione di Ca' Pesaro.

     Venezia aveva così mostrato la sua volontà, nel tenta­tivo d'ignorare quanto era successo di nuovo, di ristabili­re, e con maggior determinazione nella speranza di riuscir­ci, una tradizione artistica e culturale non solo vecchia, ma ormai anche morta. La polemica con la Biennale non aveva più senso: se Venezia voleva rimanere legata ad una determinata cultura, altrove, in Italia, le cose stavano cambiando veramente. Tanto più che la Biennale stessa, negli anni successivi, iniziò, per merito di Vittorio Pica, ad accogliere quegli artisti, ormai non più sconosciuti, che per tanti an­ni l'avevano contestata. I "ribelli" di Ca' Pesaro, non es­sendo un movimento artistico, ma solo un gruppo di artisti dalle forme espressive diverse, dopo essersi allenati nella "palestra" sul Canal Grande (e dopo che questa aveva ormai perso quella stessa funzione di "palestra qualitativa"), nel momento in cui venne meno il senso della polemica, scelsero ognuno  di continuare il proprio percorso artistico autono­mamente, là dove ritennero più opportuno direzionarsi. Il tentativo di Venezia, nei primi anni del dopoguerra, di ripristinare una cultura passata, spinse tanti dei capesarini a lasciare la città, cercando altrove quello che Venezia vo­leva ignorare. Dal 1921 vi fu una specie di vera diaspora. Anche chi rimase i città, non mantenne più quei forti legami che sussistevano prima con l'istituzione di Palazzo Pesaro.

1 - La città stessa fu sempre un luogo d'attrazione mondana e artistica e, specie agli inizi del Novecento, località balneare e culturale tanto alla moda.

4 - Al 1897  risale il primo nucleo dell'istituenda Galleria d'arte moderna della città di Venezia, allorché il principe Alberto Giovannelli, a tale scopo, acquistò e  poi donò un gruppo di opere scelte tra quelle  esposte alla Seconda Biennale. L'esempio del principe fu subito seguito da altre illustri personalità cittadine e il comune stesso stanziò una somma di denaro annua per l'acquisto di opere d'arte da collocare nella neo-nata istituzione. Prima nell'appartamento d'onore di Ca' Foscari, dal 1902 la Galleria Internazionale d'Arte Moderna trovò nel piano Nobile di Palazzo Pesaro la sua definitiva sede. Ufficilamente esistente dal 1897, la Galleria, come pure la Fondazione Bevilacqua La Masa, dovette attendere il     concorso del 1907 per avere il suo direttore ed iniziare ad effettuare attività espositiva (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano, 1982, p. 20).

6 - L'Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia divenne ente autonomo nel 1930.

8 - Pure  alle dipendenze comunali, dopo le prime donazioni di fine secolo (vedere nota 4), la Galleria aveva continuato ad accogliere gli acquisti di opere d'arte del comune attinte prevalentemente dagli artisti allora più in voga. Guido Perocco evidenzia come furono preferite, ad esempio nel 1903, opere di pittori come Dall'Oca Bianca, Sartorio, Selvatico, Tito o Miti-Zanetti ad opere disponibili di Manet, Renoir, Sisley, Pissarro o dello stesso Fattori tra gli italiani, addirittura talvolta in vendi a prezzi più bassi (GUIDO PEROCCO, Artisti del primo No­ vecento italiano, Torino, 1965).

9 - Sindaco di Venezia dal 1895 al 1919 fu il  conte Filippo Grimani, il quale, in fondo, già promotore di altre importanti iniziative per la città, ebbe sempre un occhio di riguardo nei confronti di Barbantini e dei giovani espositori di Ca' Pesaro.

10 - Le raccomandazioni fatte a  Barbantini sin dalla sua prima visita in municipio riguardavano la disciplina dei giovani artisti ospiti di Ca' Pesaro e l'opportunità che le sue mostre non disturbassero le  Biennali di Antonio Fradeletto (ENZO DI MARTINO,  L'Opera  Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 18).

11 - "Lo spazio era sempre tiranno. In un allestimento tracimiteriale e termale, con intermezzi ora  frivoli ora pretenziosi, il 'salon' biennalesco si presentò nelle prime edizioni come una enorme stipatissima collettiva[...] Ogni artista esponeva uno o due o tre quadri al massimo" (PAOLO RIZZI, ENZO  DI MARTINO,  Storia  della Biennale  1895 - 1982, Milano, 1982, p. 25).

12 - "Quella volta per le Biennali i giovani era come se non esistessero. Se ce ne sgattaiolava dentro uno ogni tan to, era  per  sbaglio o l'avevano scelto apposta tra quelli che assomigliavano ai vecchi: da scambiarli. Facendo a questo modo le Biennali facevano anche il nostro gioco" (NINO BARBANTINI, La  prima mostra di Ca'  Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 265).

14 - "Da principio laggiù in fondo, cacciati com'eravamo a San Stae; (che allora anche il vaporetto tirava avanti e si fermava più in là, e i veneziani di San Marco o di Castello per arrivarci domandavano la strada); pochissimi ci capitavano, e per lo più per riderci, o per indispettirci, o per alzarci le spalle. Cinque o sei al giorno ci parevano tanti" (NINO BARBANTINI, La  prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Ar­ te inediti e rari, Venezia, 1953, pp. 265, 266). "Tutti gli occhi del pubblico erano rivolti ai Giardini di Castello, alla Biennale. Oltretutto Ca' Pesaro era abbastanza isolata, non esisteva l'attuale approdo dei vaporini ed è curiosità interessante l'insistenza con la quale Barbantini richiedeva, con numerose lettere indirizzate al sindaco di Venezia, un'adeguata réclame dell'iniziativa e la disposizione di cartelli indicatori del percorso da San Marco a Ca' Pesaro" (ENZO DI MARTI­NO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 19).

 

15 - E' da ricordare che la parte del  testamento della duchessa prima ad essere attuata fu la concessione  degli studi, gratuitamente o a basso prezzo, ai giovani artisti. Fin dal 1901, alcuni di loro ebbero alloggio a Ca' Pesaro.

17 - L'unico screzio tra le due istituzioni riguardò il manifesto pubblicitario della mostra palatina disegnato da Guido Marussig: il pittore inserì il leone marciano che già usava la Biennale. Subito Fradeletto scrisse una lettera di rivendicazione e ammonimento a Barbanti­ni.

18 - "[...]la  presenza di artisti come Guglielmo Ciardi, Fragiacomo, Laurenti, Milesi, già illustri e  partecipanti assidui dell'Esposizione ai Giardini, irritarono Fradeletto che trovò modo di richiamare i dirigenti di Ca' Pesaro all'osservanza della volontà della testatrice -confermata dal regolamento- sull'esigenza che alla mostra accedessero soltanto giovani artisti e artisti non arrivati" (ROMOLO BAZZONI, 60 della Biennale di Venezia, Venezia, 1962, p. 80).

20 - "Non bisogna peraltro dimenticare che le prime rassegne italiane d'arte furono proprio quelle di Ca' Pesaro e che il ruolo svolto in questo senso dalla Fondazione supera certamente i confini lagunari" (ENZO DI MARTINO, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia, 1984, p. 18).

25 - "[...]alla  Biennale del 1910 il segretario generale Fradeletto fece togliere dal padiglione centrale, un'o­pera di Picasso perché con la sua novità[...] avrebbe potuto scandalizzare il pubblico[...] Picasso -incre­dibile a dirsi- entrerà per la prima volta alla Biennale nel 1948!" (PAOLO RIZZI, ENZO DI MARTINO, Storia  della Biennale 1985 - 1982, Milano 1982, p. 20).

28 - "La Biennale del 1910, tutta per inviti, andava preparata in gran fretta che permise di accettare a scattola chiusa una personale di Renoir e una retrospettiva di Courbet (presentata da Ojetti), l'individuale di Klimt, ma anche una serie meno felice di sale accaparrate dai protagonisti accreditati delle tradizioni locali, Brass, Fragiacomo, Sartorelli, Scattola[...]" (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 48).

29 - Scrisse Nino Barbantini in Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi (in Scritti d'Arte, Verona, 1953): "[...]i fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La fan­ciulla in fiore, che a me e a pochi amici con gli occhi aperti parevano bellissime e levavamo ai sette cieli. Finalmente la staffetta della gioventù, anzi la gio­ventù in persona aveva bussato alla nostra porta".

30 - La mostra personale di Umberto Boccioni allestita a Ca' Pesaro nell'estate del 1910, fu in assoluto  la prima mostra che l'artista ebbe.

31 - "[...]resta  però  ribadito il carattere di sfida che l'invito di Boccioni a Ca' Pesaro veniva  ad assumere agli occhi di Fradeletto, ben prima del rumoroso battage pubblicitario organizzato da Marinetti per l'apertu­ra della mostra. L'adesione al futurismo aumentava il richiamo trasgressivo dell'operazione che accoglieva la personale di un giovane non accettato in Biennale (a questo si aggiunga il silenzio di Barbantini, che poteva sembrare doppiezza[...]). Si spiega così il tono adirato di una minuta, con l'indicazione 'riservatissima', di Fredeletto al sindaco Grimani, circa la donazione, annunciata da Boccioni durante la personale ca­pesarina, del suo quadro La maestra di scena alla Gal­leria d'Arte Moderna  di Venezia[...] La riportiamo[...] perché permette di datare con precisione l'a­pertura  delle ostilità[...]: <<Venezia, 21.VII.910 / Gentilissimo Signor Sindaco, Leggo ora nei giornali che il giovane pittore[...] futurista Boccioni Le ha scritto, offrendo un suo quadro alla nostra galleria inter­     nazionale  d'arte moderna. E così siamo giunti  a questo estremo, che chi partecipa ad una Mostra destinata essenzialmente ad incoraggiare i giovani, gli esordien­ti, osa offrire un'opera sua ad una delle più importanti Gallerie moderne d'Europa. Sarebbe un atto d'orgoglio veramente... futurista, se non fosse qualche cosa di diverso e di peggio. E' un atto intenzionalmente suggerito[...] Ora si vorrebbe fare entrare addirittura in Galleria ciò che non è entrato nella Mostra [della Biennale...]>>" (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli  anni di Ca' Pesaro  1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 50).

33 - Non si dimentiche che il Futurismo, assieme alla Metafisica, fu l'unica avanguardia italiana ad avere una importante eco internazionale.

34 - "[...]e nacque anche quel <<centro>> artistico di Burano, ove alcuni pittori avevano preso dimora e molti capitavano di tanto in tanto, dopo gli scontri cittadini, in cerca di solitudine e di ispirazione. Burano era  un rifugio e un riposo. Quando la brigata partiva dalle Fondazione Nuove - ha scritto Barbantini - tutto il mondo era suo. <<Le barene, l'acqua il cielo parevano una sostanza sola aerea e azzurra[...] Ridevamo e cantavamo. Ci lasciavamo indietro i pensieri e le persone serie, gli avvocati, la politica, gli uomini d'affari, gli uffici, il ricordo stesso della nostra vita vissuta fino all'attimo dell'imbarco. Rinascevamo ogni volta[...]>>" (SILVIO BRANZI, Ca' Pesaro - Prima Voce dell'Arte Moderna Italiana, Venezia 1959, p. 4).

46 - "Fradeletto aveva dovuto cedere sulle date, anticipare la nona edizione della Biennale e ora guardava con sospetto alla concorrenza romana più che alle alternative giovanili veneziane (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro  1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 53).

48 - "La collaborazione tra Barbantini e Fradeletto si muoveva così nel 1912 su due fronti: se Barbantini appia nava le difficoltà dell'organizzazione della sala di Previati[...] Fradeletto consigliava il giovane collaboratore, ansioso di stabilizzare attraverso un qualche concorso la propria posizione professionale, sui tempi e sui modi amministrativi, confermandogli la propria fiducia" (MARIA MIMITA LAMBERTI, La stagione di Ca' Pe­saro e le Biennali, in Venezia - Gli  anni di Ca' Pesa­ro 1908 - 1920, catalogo mostra, Milano, 1987, p. 56).

50 - "Quando, col pensiero palese di favorire la mostra  romana del 1911, ma con quello segreto di recarle il più gran danno possibile, il Comitato veneziano decise di replicare a un anno di distanza la sua biennale, non si accorgeva forse del grande errore che stava commetten­do. La Mostra del 1910 fu di per sé mediocre: questa del 1912 lo è anche di più. Ora, siccome fra l'una e l'altra, aveva avuto luogo quella magnifica di Valle Giulia, così il confronto fu anche più visibile e disastroso[...] Il secondo errore, poi, consiste nell'aver snaturato il carattere della Mostra veneziana e di averla resa un'esposizione come tutte le altre[...] Cer­to il pubblico, che si era abituato ad una complessa armonia di arte, a una più intera e moderna manifesta­zione estetica, ritorna malvolentieri ai vasti saloni gnudi, ove le tele sono attaccate una accanto all'al­tra, senza un criterio decorativo, senza una visione d'insieme. I bei giorni delle sale regionali sono lontani: il danno è tanto più grande in quanto le opere esposte quest'anno non sono di tale importanza da far passare sopra a quella manchevolezza" (DIEGO ANGELI, Secessionisti veneziani, in "Il Giornale d'Italia", 6 ottobre 1912).

64 - La mostra "fu profondamente positiva, tanto positiva, che poteva preludere ad una svolta decisiva  nell'impostazione delle stesse Biennali con determinanti conseguenze sull'indirizzo dell'arte italiana" (GUIDO PEROC­CO, Artisti del primo Novecento italiano, Torino, 1965)

93 - "A modificare poi in definitiva la natura e le funzioni di Ca' Pesaro intervenne, di li a poco, l'indirizzo innovato delle Biennali, che cominciarono e continuarono egregiamente ad accogliere in casa  loro i giovani di merito con la fiducia più sollecita. Ca' Pesaro seguita anche lei a far del bene, e seguiterà a  farne. Ma in modi differenti da quello della sua origine, conformandosi ormai alle circostanze e alle convenienze che da allora sono sostanzialmente cambiate" (NINO BARBANTINI, La prima mostra di Ca' Pesaro, in Nino Barbantini, Scritti d'Arte inediti e rari, Venezia, 1953, p. 268).

 

Tra le due Guerre

La Prima Guerra Mondiale, anche in Italia, aveva acce­lerato vertiginosamente lo sviluppo industriale il quale, crescendo con indiscriminata logica, aveva portato, il più delle volte, allo scadimento dei prodotti e a un'alienazione del modo di vivere che fu per alcuni la motivazione di una reazione ed di un rifiuto  nell'accettare a braccia aperte la nuova e trascinante forza dell'economia moderna.

     Venezia ed il Veneto vivevano inoltre una realtà econo­mica essenzialmente agricola ed artigianale: le attenzioni di chi voleva allinearsi ad una visione moderna dell'arte applicata, non poteva direzionarsi se non verso l'artigiana­to.

   Dal "ritorno all'ordine" di <<Valori Plastici>> al <<Novecento>>, tolti i veri artisti -loro stessi sovente irretiti dalle "rivoluzionarie" ideologie di parte-, le nuove tendenze e movimenti artistici trovarono nell'esaltazione pomposa ed enfatica, monumentale ed arrogante della propaganda figurativa militante, lo scadimento qualitativo dei loro prodotti, solo apparentemente mascherati da una sorta di "accademismo modernista" per mezzo del quale il "nuovo" veniva imitato nel gusto come una moda del momento. Quando l'arte stava sotto l'egida della cultura delle privilegiate classi sociali ottocentesche, essa ebbe un'esaltazione che sfociò nelle chiusura contro tutto quando ostacolava un certo modo di vivere; con il Fascismo, l'arte trovò la stessa ideale esaltazione sostituendo stilemi artistici d'un tipo con quelli più consoni alle mutate esigenze. A tutto questo Zecchin pose il suo rifiuto, rivendicando quella sensibilità

di comprensione e meditazione che è prerogativa essenziale dell'artista.

     La realtà artistica veneziana dopo la guerra era cam­biata, la Biennale stava cambiando, i gloriosi anni di Ca' Pesaro stavano volgendo velocemente all'epilogo

Gino Rossi fu il grande incom­preso del dopoguerra e ancora oggi, sotto certi versi, con­tinua ad esserlo. Egli sì, merita il suo giusto posto tra i grandi geni artistici del nostro secolo. Fu l'unico tra gli italiani a giungere ad una forma di "cubismo italiano" medi­tato, maturato e sviluppato autonomamente; sentito e  non scopiazzato o importato dall'estero. Il suo temperamento era profondamente diverso da quello del nostro: egli ebbe la forza di sacrificare tutto  alla sua arte, la famiglia, la vita stessa. Non giunse mai al compromesso tra arte e vita. Fu troppo intellettuale, troppo incompreso, troppo abbandonato. Lo stesso Barbantini ebbe difficoltà a seguire i passi da gigante che dopo la guerra egli andava facendo. La conseguenza, fu una rottura totale col mondo che lo circondava.

     Questi sono gli anni in cui anche a Venezia, come nel resto dell'Italia, ci si avviava verso una progressiva, ine­sorabile, degenerazione della situazione politico-sociale. Il Fascismo, nell'enfatica finzione ideologica che lo carat­terizzò, come ogni regime totalitario, voleva, legando la cultura agli interessi di stato, fare delle manifestazioni artistiche il proprio vessillo di partito, acclamando e so­stenendo quell'arte che si prestava ai suoi voleri e ostaco­lando tutto ciò che poteva opporvisi. A questo scopo Musso­lini fece sorgere istituzioni come l'Accademia d'Italia, l'Istituto Fascista di Cultura, e altre ancora, le quali servirono a garantire e divulgare un certo tipo di cultura essenzialmente propagandistica. L'ideologia fascista s'in­filtrò, al fine di manovrare, in ogni livello organizzativo e amministrativo anche delle istituzioni già esistenti e si fece promotrice di importanti, quanto corrotte iniziative culturali ed espositive. Numerosissime furono dunque le ma­nifestazioni ufficiali che celarono un fine decisamente di­verso da quello artistico. Su questa falsa riga il Fascismo incentivò un gusto figurativo che, dal già sobrio plastici­smo del "ritorno all'ordine" dei primi anni Venti, alla so­glia degli anni Trenta, presentava un rigore modernista en­fanticamente pomposo e monumentale.

 

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