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ELENCO DIPINTI, IN VENDITA E NON IN VENDITA, A DISPOSIZIONE DEGLI STUDIOSI
Galleria d'arte e d'antiquariato
VITTORIO
ZECCHIN PITTORE
di
Marco Mondi
Lo
scenario della cultura veneta e veneziana nella fattispecie, storicamente così
spesso isolato e chiuso nella sua turris eburnea non solo geografico-lagunare, si presentava all'alba
del XX secolo come uno dei centri d'attività artistica e critica più fertili
d'Italia. Fu nell'humus veneziano,
infatti, che vennero ad abbeverarsi i Futuristi nella loro polemica contro il "chiaro
di luna"; così come, qualche anno prima, il dannunziano Stelio
Effrena accompagnò il feretro del musicista Wagner, vero tripode di tutto il
Decadentismo europeo, sulle acque della defunta Serenissima. Prese di posizione
apparentemente contraddittorie, vissero ed anzi si corroborarono reciprocamente
trovando in Venezia uno tra i luoghi della penisola più adatti per dar sfogo o
far da culla alle proprie idee.
La
decisa volontà dell'artista, sia questo pittore o scrittore, poeta o musicista,
di affacciarsi sullo scenario dell'arte europea e con esso instaurare un
continuo e libero scambio, fu una delle caratteristiche peculiari di tutta la
prima metà del secolo. E si pensi, da un lato, all'importanza del ruolo svolto
dalle numerose riviste artistico-letterarie e, dall'altro, al diffondersi nelle
maggiori città italiane delle esposizioni nazionali ed internazionali d'arte.
Una tappa fondamentale verso una visione moderna dell'arte italiana, conseguenza
inevitabile di quanto era andato maturando per tutto l'Ottocento nella maggior
parte della penisola e, in modo particolare, proprio nella città lagunare, fu
la creazione della Biennale veneziana nel 1895, <<prima
apertura dell'arte italiana in uno scenario europeo>>[1].
Al fianco della Biennale e con essa, comunque sia, sempre in continua relazione,
Venezia vide sorgere Ca' Pesaro, altra istituzione cittadina dal cui studio non
può prescindere chi vuole affrontare l'arte italiana dei primi anni del XX
secolo.
Per
un decennio almeno, sulla Venezia della Biennale e di Ca' Pesaro, e sulle loro
prime accese polemiche, si concentrarono le attenzioni dell'arte e della critica
italiana più accorte. Ed è impensabile, come per molti altri artisti
dell'epoca attivi in città, affrontare la personalità creativa di Vittorio
Zecchin prescindendo da tutto ciò. Anche perché solo così è possibile una
rilettura di tutta la sua variegata e varia opera, riscattandola da
quell'appellativo, talvolta tanto ricorrente, di mera decorazione per farla
essere ciò che veramente è stata: arte moderna e, sotto più aspetti, arte
estremamente innovativa. Sia in pittura quanto e soprattutto nelle arti
applicate, si legge sempre in Zecchin la concreta volontà di voler dare un
forte e profondo scossone all'arte e all'artigianato locali, arenati allora in
un'oramai attardata cultura ottocentesca. Molto più d’altri artisti
dell'epoca, egli assunse ben presto il ruolo, allora moderno,
d’artista-designer, dando certo il suo maggior contributo nell'ambito della
produzione vetraria muranese. E, a ben pensarci, l'operare secondo una logica
che conduceva al design in Zecchin si manifestò assai precocemente, in piena
sintonia con quanto fecero altri artisti in Italia e soprattutto all'estero (e
in contesti sicuramente più avanzati anche a livello industriale); tant'è vero
che le sue decorazioni pittoriche di maggior rilievo furono concepite non fine a
se stesse, cioè come semplici pitture da cavalletto, bensì in funzione del
luogo in cui dovevano essere collocate: gran parte del fascino della sua pittura
sta nel riallacciarsi idealmente ai teleri dei grandi cicli decorativi della
gloriosa tradizione pittorica veneziana ed inserirvi, concependola appositamente
in funzione del luogo che andrà a decorare, la sua elegante e raffinata poesia
figurativa elaborata su di una complessa sorprendente e stupefacente
architettura del colore, che fa evadere la nostra immaginazione in un mondo
incantato, ricco di tutta un'originale, fiabesca simbologia.
Fu
il suo modo, in pittura, di reagire alla tradizione accademica e di maturare
gradualmente una forma mentis creativa
che lo portò con decisione alle arti applicate, operando in un ambiente
artistico, quello di Ca' Pesaro, alle cui vicende e vicissitudini egli fu sempre
profondamente legato, cosciente, inoltre, di lavorare inserito in un gruppo
d'artisti che non fu mai cristallizzato in un preciso movimento artistico e che,
forse proprio per questo, fu più aperto a quanto succedeva in Europa andando,
come portata, ben oltre i confini naturali d'un agglomerato d’isole,
accettando, affiancando e corroborando le nuove tendenze artistiche di tutta una
nazione.
Nato
a Murano il 21 maggio del 1878, Vittorio Zecchin fu uno di quegli artisti la cui
terra d'origine, la bella isola del vetro, la città e la laguna, <<Catedral/
che ga per sofito/ el cielo/ e per altar Venezia>>[2],
rappresentarono un legame tanto abbarbicato nel suo animo da leggersi a piene
lettere in ogni sua opera. E la sua opera perderebbe di significato, cadrebbe
davvero nella mera decorazione, se la si immaginasse al di fuori del contesto
veneziano.
In
essa vi è il continuo riflettersi di una Venezia profondamente amata e
profondamente sentita: l'incanto magico, fatato, di una città da "mille e
una notte"; la trasparenza, il riflesso e il luccichio dell'acqua; le
raffinate eleganze di una cortigiana piegata <<sotto
la pompa dei suoi monili>>[3];
la laguna misteriosa che fa <<specio
a le stele>>[4];
il grande passato artistico, pittorico, dove più che il Veronese si sente
l'intenso cromatismo vivarianiano e l'incanto magico dei marmi e dei mosaici
bizantineggianti.
Nelle
sue opere si scorge una visione mistica, fiabesca, s'è detto, della vita, quasi
una fuga in un paradiso perduto, in una Venezia da sogno. Un’evasione che trovò,
però, nella cultura artistica lagunare d'inizio secolo il suo naturale
insediamento, dando così vita ad un progressivo reinserimento del sogno nella
realtà, concreta e pratica, dei più diversi settori artigianali riportati a
proporre i tradizionali oggetti d'uso comune come vere e proprie opere d'arte.
Figlio
di un vetraio muranese, Luigi, nei primi anni di vita il giovane Zecchin ebbe un
diretto contatto con l'arte che rese la sua isola famosa in tutto il mondo. Un
contatto che, se da un lato poteva esaltare la fantasia e la gioia di un bambino
nel vedere creare con un soffio un oggetto dalle magiche trasparenze (quanto
meno incantate sarebbero state le sue pitture altrimenti!), dall'altro gli
permise d'avere una giovanile cognizione dei problemi e delle difficoltà di un
settore artigianale ancora fortemente legato ad una gloriosa tradizione
secolare, che ne rappresentava il vincolo stesso. Vivendo e crescendo dentro,
sin da bambino, al mestiere di vetraio ben poté rendersi conto dei limiti e
delle potenzialità di un’attività ricca di creatività e, cosa molto
importante, intuirne le principali difficoltà pratiche[5].
Poté sentire la doppia valenza della ripresa di un settore artigianale che ben
rifletteva l'andamento generale di tutta una cultura divenuta provinciale: una
crisi produttiva superata in parte dal punto di vista quantitativo e di
conseguente riscontro economico, e un perdurare di crisi qualitativa che
costringeva l'arte del vetro, per i più, ad un’attività essenzialmente
artigianale[6].
Fu
attraverso l'artigianato della sua isola che Zecchin, dunque, mosse i suoi primi
passi nell'arte ed è attraverso questa chiave di lettura che devono essere
viste oggi le sue diverse esperienze artistiche. Il suo ritorno alle arti
applicate, mai dimenticate nemmeno quando i suoi interessi erano prevalentemente
rivolti alla sola pittura, fu la naturale conseguenza del suo animo artistico,
che vedeva chiaro, per una tradizione quasi congenita in un giovane cresciuto a
Murano, lo stretto legame tra arte ed artigianato e sentiva forte l'esigenza di
rompere le barriere di quanto aveva fatto sì che l'una fosse più elevata e
nobile dell'altra. Il connubio tra le arti cosiddette maggiori e minori
individuabile in ogni espressione dell'Art Nouveau, di quel "Stile
Novo" o "Stile Moderno" o semplicemente, in Italia, Liberty, che
nell'Inghilterra di John Ruskin e di William Morris aveva trovato, teoricamente
e praticamente, le sue prime concrete applicazioni, in Vittorio Zecchin dovette
essere una realtà oltre la quale l'arte stessa quasi non sarebbe potuta
esistere: egli faceva parte di quegli artisti per i quali si può quasi
affermare che non vi fu una vera evoluzione verso ciò che allora si intendeva
per modernismo, poiché esso era tanto innato ed insito nel loro animo da essere
per loro l'unica vera manifestazione artistica. Non fu casuale, infatti, se sin
da giovane egli sentì la crisi dell'artigianato, dell'arte della sua isola, e a
questa reagì.
Certo
non poté focalizzare subito le motivazioni di quella diffusa inquietudine ed
incertezza che accompagnarono i suoi primi passi nell'arte, ma di ciò ne subì
le conseguenze. La famiglia lo costrinse ad intraprendere studi tecnici, quando
egli forse avrebbe preferito seguire le orme del padre. Modo, questo, per
allontanare il figlio da un lavoro artigianale che più di tanto non prometteva
e vero sintomo di crisi interiore di un'arte. Alla frequentazione degli studi
tecnici, Zecchin s'oppose con impeto tutto giovanile e, come ricorda Vittorio
Pica, <<più che alle sue esortazioni verbali, lo dovette alla sua scoraggiante
ed incorreggibile svogliatezza addimostrate>>[7]
se i suoi genitori gli permisero di iscriversi, nel 1894, all'Accademia di Belle
Arti della città.
L'ambiente
artistico dell'Accademia che il giovane Zecchin incontrò, presentava lo stesso
scenario da "pomposo teatro", visto in chiave didattica, che
caratterizzava la mondanità salottiera dei palazzi alla moda, della Piazza e
dei Giardini (dal 1895)[8]
di una città che viveva ormai essenzialmente del proprio passato e che pur si
stava preparando ad entrare nel nuovo secolo.
Se
la stessa penisola italiana, per tutto l'Ottocento, fu provincia, e non solo per
l'arte, Venezia rappresentò sicuramente uno tra gli esempi più emblematici del
perdurare d'una tradizione secolare profondamente radicata in ogni sua
espressione artistica o d’altro genere.
All'Accademia,
Zecchin mostrò infatti poco interesse per coloro che furono i caposcuola
dell'arte veneziana di fine Ottocento. Nel 1897, ad esempio, seguì un corso sul
paesaggio tenuto da Guglielmo Ciardi, ma a fine anno non si presentò agli
esami. Fu probabilmente più interessato alla spiegazioni di un
"decoratore" come Augusto Sezanne, che si dilungava sovente sulle
particolarità tecniche ed esecutive delle arti maggiori applicate (e applicate
anche al vetro[9]),
tant'è vero che per due anni, a partire dal 1899, fu ammesso e premiato al
corso di Speciale Ornato tenuto dallo stesso Sezanne.
In
pittura, egli fu soprattutto un grande decoratore e fu attraverso queste
ricerche figurative che giunse gradualmente alle arti applicate. Come
l'Accademia fu un'esperienza essenzialmente didattica, anche la pittura, in un
certo senso, per anni lo impegnò a sperimentare soluzioni formali e compositive
destinate poi a stare alla base delle successive invenzioni create per stoffe,
mobili, vetri o mosaici. La stilizzazione di figure e d’oggetti cui arrivò in
pittura, oltre a permettergli d'andar oltre la tradizione pittorica
ottocentesca, fu la via che gli permise di trasferire gli stessi temi su
superfici innanzitutto diverse dalla tela, e che quindi pure tecnicamente
richiedevano di per se stesse, per forza di cose, determinate soluzioni; poi,
che giustificasse figurativamente soluzioni tanto di contenuto quanto di forma
il cui scopo era l'utilità decorativa, la raffinatezza ed eleganza compositiva
legata al contesto reale che doveva accoglierla. Il contenuto delle sue opere,
pertanto, in stretto rapporto con le soluzioni formali adoperate, era elaborarlo
attraverso invenzioni fantastiche e fiabesche, ma ideate in funzione sempre di
un contesto di decoro e d’arredo per un suo pratico inserimento in una realtà
applicativa e vivibile. In un certo senso, alla luce delle sue successive
realizzazioni nel campo delle arti applicate, egli si servì della pittura, o
almeno di certe sue opere pittoriche, così come un pittore si serve del
disegno, uno scultore del bozzetto o un architetto del progetto. E basta
sfogliare le opere pittoriche presentate in questo catalogo e confrontarle con
alcuni vetri, stoffe, arazzi, mosaici ed altro ancora, pubblicati nelle apposite
sezioni, per farsene un’idea piuttosto precisa. Zecchin entrò nel
"sogno" attraverso invenzioni fantastiche della realtà, seppur mai
così totalmente chiuse in un universo a sé da dover rompere definitivamente
con la realtà stessa, perché era in questa, alla fine, che esse dovevano
trovare la loro collocazione e a questa, quindi, tornavano ad essere legate. In
ultima analisi, il percorso seguito da Zecchin per liberarsi dalle pastoie di
una cultura ottocentesca divenuta anacronistica, non fu poi così diverso da
quello che altri artisti avevano intrapreso, pur per vie differenti.
All'interno
delle sale dell'Accademia, trovò solo parzialmente un ambiente per egli
veramente vivo di creatività, come quello che troverà negli spazi di Palazzo
Pesaro. La cultura figurativa veneziana di fine-inizio secolo, per le nuove
generazioni rappresentò una "realtà" da superare, vuoi nella
direzione del simbolo, vuoi in una più radicale impostazione della sua stessa
struttura formale e di contenuto. Le nuove istanze liberty, che nell'ultimo
decennio del XIX secolo si erano così rapidamente affermate e diffuse anche in
Italia, servirono a molti artisti per liberarsi dall'"Ottocento" ed
entrare nel "modernismo" di un'epoca nuova. Molti dei pittori
dell'Ottocento, al volger del nuovo secolo, ed oltre, avevano tentato, tuttavia
senza validi risultati, una forma d'aggiornamento della loro arte attraverso
l'adozione, ad esempio, di stilemi simbolisti, di una pennellata di derivazione
divisionista, o per lo meno pastosa e bozzettistica, e talvolta di sinuosità
formali apertamente liberty. In ultima analisi, però, la maggior parte degli
artisti, e dei loro epigoni, che a Venezia (e nel suo entroterra) furono i
protagonisti della splendida stagione del Verismo veneto (che ebbe il suo
culmine tra la seconda metà dell'ottavo e la prima metà dell'ultimo decennio
del secolo), rimasero sempre legati ad una cultura figurativa che nel giro di
pochi anni era stata esteticamente sorpassata, anche per l'imporsi di nuove
esigenze figurative capaci di cogliere quelle trasformazioni sociali oramai
fattesi incalzanti pure in Italia. La cultura figurativa ottocentesca,
sopravvissuta e portata con decisione nel nuovo secolo da parte di un ceto
sociale, quello più rigidamente conservatore, che di essa ne aveva fatto quasi
un emblema, per le nuove generazioni divenne ben presto l'ostacolo principale da
dover superare per poter fare "arte moderna". L'Accademia veneziana,
nelle sue sale, insegnava arte dell'Ottocento e le Biennali, salvo sporadiche
apparizioni o solitarie eccezioni, almeno fino all'avvento di Vittorio Pica a
capo della segreteria generale (e siamo nel 1920!), la esponevano, scovandola
non solo in Italia, ma anche all'estero. Così, le Esposizioni dei Giardini si
rivelarono subito essere, al di là del clima artificiosamente estetizzante,
"celebrazioni" artistiche dalla duplice valenza. Da un lato,
rappresentarono la finestra aperta sul panorama artistico europeo tanto agognata
dall'Italia intera; dall'altro, però, e basta sfogliarne i primi cataloghi e
scorrere l'elenco delle personalità invitate, la Biennale rappresentò la
principale istituzione italiana alla quale fu demandato il compito di avallare
un indirizzo social-artistico che doveva consolidare la cultura figurativa di
una ben determinata classe dirigente. La risoluta cernita artistica che le
Biennali esercitarono non può, per chi scrive, essere semplicemente considerata
un errore di scelta o una ristrettezza di vedute e <<la
storia delle prime>> Esposizioni semplicemente <<la
storia delle occasioni mancate>>[10]:
fu un deciso tentativo, ben consapevole, di far sopravvivere un tradizionalismo
artistico che era anche l'unico, nelle sue mille sfaccettature, a poter essere
acclamato da una società, in fondo, di derivazione o di valenza ancora
aristocratica, che allora gestiva, a tutti gli effetti, l'organizzazione
dell'Istituzione stessa. Non fu solo la scelta di una cultura che non poteva
vedere oltre la propria concezione, ma fu pure una volontà di scelta ben
precisa, che impediva di andare al di là di una tradizione che altrimenti
avrebbe portato a rinnegare tutti quei valori che costituivano le colonne
portanti di un determinato modo di vivere, con tutti i suoi privilegi di casta
sociale. Tutto quanto avvenne a Venezia a cavallo del secolo, dimostra come a
scontrarsi furono, sotto i gonfaloni di uno o dell'altro artista o gruppo
d'artisti, due culture il cui compromesso non era assolutamente facile da
raggiungere perché l'esistenza di una stava agli antipodi dell'esistenza
dell'altra: una doveva ritardare quanto più la nascita dell'altra, la quale non
sarebbe potuta sorgere se non dalle ceneri della prima. La cultura ufficiale
acclamava quel genere d'arte che, comunque fosse, poneva una netta separazione
tra i ceti sociali più abbienti e quelli più poveri: accettava i soggetti più
disparati, anche nell'ambito di un tardo Realismo a carattere sociale, quando
questo metteva a fuoco, talvolta con risvolti pietistico-sdolcinati e quasi
sempre infarciti di romanticismi, la squallore e la miseria del popolo, purché,
però, da esso se ne mantenesse le distanze, per cui, quell'inevitabile senso di
colpa che a livello più o meno cosciente gravava sull'animo delle classi più
ricche fosse risolto col gesto catartico, ad esempio, dell'elemosina, com'era
nella raffigurazione di molti dipinti dell'epoca. Allo stesso modo si potevano
accettare espressioni artistico-letterarie come il Decadentismo, soprattutto
quanto il suo maggior esponente italiano era l'"aristocratissimo" e
raffinatissimo Gabriele D'Annunzio; o anche scandali come quello del cosiddetto
"quadro maledetto" della prima Biennale, il famoso Supremo
convegno di Giacomo Grosso. Ma, per quella società elitaria, era ben
difficile accettare anche solo certe espressioni del Divisionismo, specie quando
si presentavano sotto le vesti del Quarto
stato di Pelizza da Volpedo, e meno che mai potevano essere accettate,
apertamente esposte alla Biennale e magari acquistate per essere esposte nella
neo-nata Galleria Internazionale d'Arte Moderna della città quelle opere che,
sebbene dipinte nell'Ottocento, all'estero avevano posto le basi davvero
all'arte moderna. Per non parlare poi d'alcune avanguardie storiche, alle quali
per molti anni la Biennale, salvo casi eccezionali, aveva praticamente chiuso le
porte: caso emblematico, ed oggi incredibile, l'ostracismo, sin dal 1910, nei
confronti di Pablo Picasso, la cui sua prima opera fu esposta solo nel 1948![11]
Tuttavia, le manifestazioni delle prime Biennali, che furono <<uno
spettacolo allora incomparabile>> di richiamo mondano <<nella
cornice unica della città>>, esercitarono comunque un'attrazione
fortissima sui giovani come Zecchin, <<lusingati
di poter spaziare in campo internazionale e di far propri gli apporti che
venivano di lontano, mentre c'era nell'aria un'attesa di rinnovamento, un
anelito diffuso, per i più inspiegabile, non circostanziato e preciso; ma si
attendeva la spinta dagli artisti 'ufficiali' dell'epoca, mentre il 'mondo
nuovo' doveva apparire attraverso quegli artisti che ebbero il coraggio di
rompere la cerchia>>[12].
E a far questo, a Venezia, furono gli artisti di Ca' Pesaro, dei quali Zecchin
ne era uno dei componenti storici.
Da
questo punto di vista, inoltre, una sorta di compromesso giunse dal modernismo
insito nell'Art Nouveau, perché esso si pose come ponte, come punto di
passaggio e di contatto tra le due culture a confronto. A risolvere tutto, però,
come la spietata spada dell'angelo giustiziere che pose fine all'Ottocento e aprì
ufficialmente le porte al nuovo secolo, fu la Prima Guerra Mondiale che,
parafrasando Gozzano, dopo i primi “entusiasmi” <<si ritolse
tutte le sue promesse>>[13].
Le
conseguenze di questa situazione di fervore ed inquietudine artistico-sociale,
portarono nel giovane Zecchin le incertezze che lo costrinsero a ritardare, di
anno in anno, la sua piena dedizione all'arte. Già da bambino fu spinto ad
abbandonare l'arte del vetro proprio perché questo settore, diventato solo
d'"artigianato", poco garantiva agiatezza e tranquillità economica.
Anche all'Accademia, si sentì probabilmente sopraffatto da imposizioni che
ponevano all'arte vincoli paragonabili a quelli visti a Murano per il vetro. Così,
avendo alle spalle una famiglia sempre scontenta della sua scelta, alla fine
dell'anno accademico del 1901, non si presentò agli esami e abbandonò
definitivamente l'Accademia senza mai diplomarsi. Trovò, allora, per alcuni
mesi lavoro come impiegato al comune di Murano, che era municipio indipendente
da Venezia. Gli anni che seguirono furono un periodo, se pur breve, durante il
quale egli trascurò la sua vocazione artistica dedicandosi alla ricerca di un
lavoro come tanti altri, che gli permettesse di vivere. Dopo l'impiego al
comune, lavorò per qualche anno in una delle tante officine vetrarie
dell'isola, sentendosi per la prima volta personalmente coinvolto in una realtà
artigianale che ora poteva valutare direttamente dall'interno.
Praticamente
nulla si sa delle sue primissime opere, ed è lecito supporre che poco si
scostassero da quelli che erano allora gli insegnamenti accademici. Tra i suoi
primi lavori noti, l'Autoritratto
(tav. 2), dipinto verso il 1903, volutamente abbozzato e non concluso, è
un'opera che mostra già una notevole qualità esecutiva e, se da un lato
inevitabilmente risente della contemporanea pittura veneziana, come per la luce,
ad esempio, che colpendo da destra, dà vita a bagliori limpidi e freschi simili
a quelli che si scorgono nelle parti in sole di alcune opere di Guglielmo Ciardi,
e che son forse il risultato delle ore di lezione sul paesaggio seguite
all'Accademia, nel suo insieme respira un'atmosfera più moderna, di stampo
secessionista nella direzione mitteleuropea, in questo momento forse più
tedesca che austriaca. Vi si riscontrano soluzioni di un certo schematismo nel
trattare le forme e un impianto compositivo che, nella rigida frontalità della
figura, sembra già prepararsi ad accogliere stilemi d'ispirazione simbolista.
Non è trascurata l'indagine psicologica, e tanto meno è trascurato il
tentativo d'esprimere uno stato d'animo che va al di là delle apparenze, per
alludere quasi ad un vago senso interiore di tormento. Sono suggerimenti
figurativi filtrati con ogni probabilità dalla visione delle opere esposte alla
Biennale che, proprio nel 1903, aveva presentato la Mostra Internazionale del
Ritratto Moderno e due anni prima una mostra personale di 12 dipinti di Arnold Böcklin.
D'impianto decisamente più simbolista, e databili all'incirca allo stesso
momento, sono anche le due tele raffiguranti rispettivamente un Suonatore
di Flauto (tav. 1) e una Figura in
meditazione (tav. 3). La prima, spiccatamente simbolista nel soggetto,
caratterizzato da un taglio compositivo impreziosito dal lembo orizzontale dello
sfondo dorato, volutamente messo in contrasto cromatico con la parte scura
inferiore, che copre gran parte della superficie facendo così risaltare, con
grande valenza semantica, la solitaria e delicata figura del suonatore, è
immersa in una cultura alquanto innovativa per la Venezia di quegli anni e pare
essere una citazione piuttosto puntuale di un particolare dell'opera
raffigurante un paesaggio marino con ninfa e Pan oggi conservata nella villa di
Monaco di Franz von Stuck, artista che fu presente in più occasioni alle
Biennali: nel 1907, partecipò alla mostra internazionale de' "L'Arte del
sogno" (che tra i suoi curatori ebbe anche Galileo Chini) e, nel 1909, ebbe
una personale di 31 dipinti e 4 sculture. L'altra opera, nella quale si
percepisce una suggestione particolare di una dimensione esistenziale che
prelude, per certi versi, alla ricerca onirica, fiabesca dei suoi successivi
lavori, appare anch'essa apertamente e sintomaticamente ispirata alla cultura
secessionista mitteleuropea. Per questa via, Zecchin preparò le basi sulle
quali innalzò poi le sue cattedrali pittoriche: fece proprio un genere
artistico dalle molteplici sfumature, nel quale si conciliava una sorta di
evasione dalla realtà verso il mondo del simbolo con una pittura disposta ad
accostarsi agli stilemi di un pacato e raffinato gusto orientaleggiante[14].
Sin
dagli esordi, egli si mostrò quindi piuttosto libero dalle pastoie e dai
virtuosismi romantici del tardo Realismo Ottocentesco, accostandosi a quella che
era in fondo la tendenza dominante di un certo tipo di cultura lagunare, quella,
se si vuole, più internazionale e che le prime Biennali stesse portarono
avanti. L'apertura europea, infatti, anche per precisi legami storici,
intrapresa dalla città con le Esposizioni dei Giardini aveva seguito, come lo
stesso Bartolomeo Bezzi aveva suggerito, più l'indirizzo della Germania e di
Vienna che quello francese dell'Impressionismo e del postimpressionismo, seppure
alla Biennale vi furono sovente presenze francesi (ma anche preraffaellite, o di
gusto preraffaellita, e sicuramente molte aperture verso la stilizzazione
lineare tipica dell'Art Nouveau). Artisti quali Cesare Laurenti, Ettore Tito o
Mario De Maria, ma pure Teodoro Wolf Ferrari, Guido Cadorin o Felice Casorati,
solo per citarne alcuni, avevano prestato particolari e precise attenzioni
all'arte secessionista di stampo mitteleuropeo.
La
volontà di distaccarsi dal tradizionalismo ottocentesco, Zecchin la manifestò
anche con la caricatura. Pur riallacciandosi ad una certa tradizione veneziana (Anton
Maria Zanetti, Teipolo), la caricatura gli servì per liberarsi dal dover per
forza, pur partendo dal reale, imitare il reale, dandogli la possibilità di
spaziare, soprattutto formalmente, con più facilità verso le invenzioni della
fantasia. E, a tal proposito, è interessante un accostamento con alcuni lavori
simili che anche Arturo Martini, all'incirca nello stesso momento, andava
realizzando per prendere le distanze dalla cultura ufficiale.
In
questi anni, o poco dopo, inoltre, Zecchin dà vita ad una serie di piccoli
quadretti dalle soluzioni figurative più convenzionali, anch'essi però,
talvolta, risolti con uno spirito creativo del tutto moderno, in tutto e per
tutto immerso nella nuova cultura liberty. Affascinante a tal proposito, e
simbolisticamente sfuggente, è la figura di Dama su divano (tav. 4),
risolta nella positura in modo, se si vuole, boldiniano, o forse meglio alla
maniera di Lino Selvatico, ma con fiammanti cromatismi e abbaglianti accensioni
di luce da ricordare Moreau o Redon, mostrando già quella sensibilità
coloristica che caratterizzò tante sue successive opere.
Un incontro fondamentale per la sua
arte, fu certo quello con i dipinti di Gustav Klimt alla Biennale del 1910.
Prima però, alla Biennale del 1905, un'altro gruppo di opere affascinò Zecchin
in modo tanto particolare e così profondamente da far sì che le successive
influenze klimtiane fossero recepite con un'originalità tutta sua, soprattutto
nella tessitura del colore: nelle sale olandesi furono esposti quattro dipinti e
diversi disegni ed incisioni di Jan Toorop, pittore dal mistico esotismo che fu,
come annota Vittorio Pica nella presentazione alla mostra di Zecchin del 1923 a
Milano[15],
una vera rivelazione. <<Jan Toorop,
oriundo dell'isola di Giava nelle Indie Olandesi, aveva tutte le qualità per
accendere la fantasia di Zecchin: era nato in Oriente e attraverso
l'impressionismo fiammingo di Ensor e l'astrazione di Seurat aveva trovato la
via al simbolismo letterario che si accosta alla poesia di Maeterlinck e di
Verhaeren>>[16].
L'ondulata sinuosità della linea nei lavori di Jan Toorop, e in modo
particolare di un'opera come Le tre spose,
fu la vera tentazione che sedusse Zecchin. Finalmente, aveva trovato un
linguaggio artistico che ben poteva conciliare l'attrazione del sogno orientale
(che caratterizzò l'intera epoca) con il suo modo di vedere e sentire
l'esotismo, ovvero attraverso la millenaria tradizione delle sua città e in
modo particolare della sua isola. Le soluzioni suggerite dal pittore olandese,
si prestavano ad una lettura che poteva essere accostata alle opere che sin da
bambino avevano incantato e acceso la sua fantasia: le patere, le vetrate, i
mosaici, tante volte ammirati nelle chiese di San Pietro e di San Donato a
Murano, trovavano un loro senso nella sinuosità delle linee armoniche, dalle
esasperate ondulazioni serpentine, delle composizioni dell'artista giavanese.
Una linea che poteva contornare e coronare soluzioni cromatiche accese e che, ai
suoi occhi, doveva mostrare assonanze ed incisività avvicinabili al disegno
nelle opere dei Vivarini: pittori di Murano da egli sempre ammirati. Ancora,
Toorop rappresentò agli occhi di Zecchin quel punto fondamentale di passaggio
tra le influenze secessioniste, di cui s'è detto (comprese quelle dei
padiglioni dell'Ungheria alla Biennale), e un universo dove il simbolo era
inteso come mezzo di evasione in un’artificiosità diretta più verso una
dimensione onirica ed immaginaria del mondo oggettivo, che verso una sensuale ed
inquieta, sofferta fuga nella scoperta delle travagliate sensazioni emotive
interiori.
Zecchin, entrò così nell'atmosfera di un sogno mistico rimasto sino ad allora latente. Attuò nelle sue opere una progressiva stilizzazione della forma attraverso una linea capace di racchiudere colori dalle calde e vitree trasparenze, inventando composizioni che furono sì debitrici nei confronti di una cultura che giungeva dall'esterno, ma che egli seppe far propria, permeandola di un simbolismo intimo e spirituale, d'ispirazione mistica, romantica e quasi preraffaellita, e che seppe proporre e sviluppare in una città come Venezia, nella quale si continuava ad accettare ufficialmente solo una cultura figurativa di stampo ottocentesco.
Il
merito di Zecchin, anche quando subì l'influenza di Klimt, fu quello d'aver
saputo uscire dalle pastoie di una cultura anacronistica oramai anche per la sua
stessa città e cercare, per una via suggerita ma che seppe adattare al contesto
artistico lagunare, d'entrare in una concezione artistica più moderna e, nel
suo genere in questi primi anni, praticamente unica in città, che lo condusse
con grande coscienza critica alle arti applicate.
Nascono,
allora, tutto un gruppo di opere sorprendenti per l'impianto compositivo, per la
ricerca cromatica e per la stilizzazione figurativa, oramai pienamente liberty.
Di esse, ci rimangono principalmente squisiti bozzetti, eseguiti con una
pennellata decisa e frizzante, ricca di cromatismi sorretti da una
schematizzazione formale delle figure e dell'ambiente che da noi non ha
precedenti, e che pur tuttavia, con quell'aspetto vitreo e fiammante della
materia pittorica, quasi da fucina muranese, si ricollegano per via diretta ai
cromatismi della Venezia tardo-medievale e quattrocentesca. Le opere riprodotte
alle tavole XXXXX, sono composizioni che affrontano una simbologia di contenuto
apertamente mistica, incantata, già votata alla favola; realizzate con una
raffinatezza ed un'eleganza sublime nel trattare soggetti che ripongono il loro
fascino nel recupero, gestuale e cromatico, di una fantasia rituale primitiva e
orientaleggiante, che sembra voler riportare alla stato di coscienza sacralità
ataviche di una civiltà che giace latente nelle zone nere della nostra memoria.
Le titolazioni stesse di molte opere eseguite in questi anni, come quelle
presentate alle mostre di Ca' Pesaro (sebbene, non essendoci dei veri e propri
cataloghi, di esse si sappia ben poco), sono alquanto sintomatiche a tal
proposito: Visioni, Le vergini del fuoco,
Impressione, Angelicus, Libellule, Le
vergini degli alberi, Pavoni, Silenzio. Le prime quattro, furono quelle esposte alla mostra estiva
di Ca' Pesaro del 1909, le altre, assieme ad un bozzetto, quelle esposte alla
mostra autunnale.
Se per i giovani artisti la
Biennale rappresentava, come s'è detto, la ritardata cultura ufficiale alla
quale si doveva reagire, le Esposizione dei Giardini restavano pur sempre,
nonostante tutto, il luogo più ambito dove esporre, ma inevitabilmente chiuso
alla maggior parte di loro. L'importanza di Ca' Pesaro sta nell'aver aperto loro
le porte con esposizioni che ben presto iniziarono a contrastare, sempre più
apertamente e sempre più polemicamente, fino alla scoppio della guerra, la
chiusura artistica propugnata dalle Biennali. Grazie al lascito testamentario
dell'accorta duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, nel 1899 il Comune di Venezia
veniva in possesso della poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto,
però, che, tra le altre condizioni, là si tenessero <<esposizioni
permanenti di arte ed industrie veneziane. [...]specie
per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi
mostre, per cui sconosciuti e sfiduciati non hanno i mezzi da farsi avanti e
sono sovente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli ed incettatori che
sono i loro vampiri>>[17].
Nel 1907, il giovane ferrarese Nino Barbantini vinse il concorso per la
direzione della Galleria Internazionale d'Arte Moderna, che prevedeva anche la
funzione di segretario della "Fondazione Bevilacqua La Masa". E già
nel 1908, riuscì ad allestire le prime due mostre: <<con una mossa abile e intelligente, Barbantini aveva fatto
“invitare” anche artisti allora già molto noti come Guglielmo Ciardi,
Pietro Fragiacomo, Cesare Laurenti, Alessandro Milesi e altri. [...]si preoccupava perciò di pubblicizzare le mostre>>[18].
A partire dalle mostre del 1909, Ca' Pesaro iniziò ad accogliere quella ventata
di gioventù i cui rappresentanti, e tra loro v'era anche Vittorio Zecchin,
furono davvero tra gli antesignani dell'arte italiana moderna.
Il
1910, fu un anno estremamente importante. Importante per le mostre palatine
perché, come ricorda direttamente Barbantini,<<i
fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando... la staffetta della
gioventù, anzi la gioventù in persona [bussò] alla nostra porta>>[19];
ed importante anche perché le sale di Ca' Pesaro ospitarono la personale
"futurista" di Umberto Boccioni (la sua prima mostra in assoluto), con
tutto il <<rumoroso battage
pubblicitario organizzato da Marinetti>>[20]
ed il clamore del lancio dei volantini contro la "Venezia passatista"[21].
Importante per la Biennale che, anticipata di un anno per evitare la
concomitanza con l'esposizione internazionale di Roma del 1911, presentò tre
interessanti mostre: la retrospettiva di Courbet, la personale di Renoir e
l'individuale di Klimt[22],
che furono uno spiraglio di novità e speranze[23]
per i giovani artisti ed intellettuali dell'epoca[24]
(la Biennale, però, mostrò una chiusura ancora forte nei confronti della nuova
arte[25],
particolarmente accentuata proprio perché quell'anno furono soppresse le sale
regionali ed istituita la "Sala della gioventù"[26]).
Il
1910 fu un anno importante anche per Vittorio Zecchin. Le opere presentate alla
mostra primaverile di Ca' Pesaro, non tutte identificate con certezza, dovevano
vivere ancora del seducente ed orientaleggiante fascino tooroppiano, come i su
citati bozzetti. Tuttavia, anche dalla sola loro titolazione, Getzemani, I.N.R.I., Gli
angeli che difendono il Paradiso Terrestre e Mattino,
s'intuisce subito come la sua non fu una pedissequa ripresa di quegli stilemi
figurativi, in quanto si sforzò di rielaborarli e reinserirli in un contesto
tutto nostro: quello della mitologia cristiana. Il dipinto Getzemani (tav. 11), ad esempio, del quale oggi si è rintracciato
solo uno studio per la figura del Cristo (tav. 12), mostra chiaramente questo
sforzo, non solo a livello formale, ma anche a livello contenutistico. Egli
inventò un'icnografia figurativa estremamente originale e d'effetto, che si
prestava a tradurre un soggetto religioso letto in chiave estremamente
intellettualistica e dal complesso misticismo simbolico-spirituale. E l'ardire
compositivo di questa raffigurazione è sorprende per la forza icastica che
riesce a trasmettere con la spettrale figura del Cristo, che domina la scena, e
con quelle ascendenti "fiammelle" femminili che come fiori s'innalzano
sulla sinistra, a contrastare il ritmo zigzagato di quelle dall'altro lato,
risolte con una forte valenza di macabra simbologia, che tocca vertici di un
espressionismo alla Ensor nello straziante urlo del teschio in basso a destra,
quasi a voler sottolineare l'importanza "cristologica" della
raffigurazione attraverso una forza icastica paragonabile alle stesse parole del
Vangelo: <<Ma tutto è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti>>,
<<Si adempiano dunque le Scritture!>>,
<<Questa è la vostra ora, è
l'impero delle tenebre>>. Così facendo, una volta ancora, si
ricollega alla tradizione artistica veneziana del passato, quella della sacralità
medievale, quella della macabra simbologia del Carpaccio di San Giorgio degli
Schiavoni.
La visione delle opere di Gustav
Klimt alla Biennale del 1910, segnò un momento fondamentale nello sviluppo
artistico di Vittorio Zecchin. Come per le opere di Toorop, pure le opere di
Klimt furono una rivelazione e allo stesso tempo una conferma e un incentivo a
continuare una ricerca espressiva che aveva già manifestato il proprio
indirizzo poetico. Klimt si presentava con tutto il fascino di un'estetica
raffinata all'inverosimile, dove vivevano, in armonia assoluta, Oriente mistico
e Occidente secessionista, dramma e gioia icastica, felicità d'esecuzione ed
evasione allusiva in un universo di fantastiche invenzioni, tanto ricercate da
trasformare la realtà da cui traevano spunto in sentita visione onirica
saldamente legata al più profondo essere dell'introspezione umana. <<Nella
pittura e nella decorazione Klimt sovrasta tutti. Era l''astro artificiale',
come lo definiva Boccioni, contrario del suo successo, ma la qualità
dell'artificio andava ai limiti della fantasia tra astrazione e decorazione
pura. Zecchin non sente in Klimt l'atmosfera di decadentismo che circonda l'arte
del pittore viennese, quella dissolvenza della forma, che porta un'immagine
quasi sensitiva di languori trasognati, di profumi d'Oriente dal sapore
dolcissimo e velenoso, di quell'estetismo che vari aspetti della moda fecero
proprio. Zecchin è dotato d'un candore d'eccezione, non ha nessun aspetto di 'poète
maudit'... L'artista coglie da Klimt e fa tutto suo il ritmo musicale della
linea ad arabesco e l'incanto del colore, esaltato in bagliori vitrei e
splendenti lontano da ogni immediato riferimento alla realtà contingente>>[27].
La lettura che Zecchin seppe fare delle opere di Klimt, e che gli pesò a lungo
l'appellativo di "klimtiano" per le sue, fu quella di una
stilizzazione estremamente accentuata ed affascinante che era ad un tempo
astrazione e decorazione, e che ben presto sentì di poter trasportare nella
arti applicate. Ed era, in fondo, quello che aveva fatto anche Klimt all'interno
della Wiener Werkstätte! In questo senso, Zecchin sì, si avvicino a Klimt
molto di più di altri artisti italiani, che furono klimtiani dopo la Biennale
del 1910. Tuttavia, egli seppe cogliere da klimt quegli stimoli che lo portarono
con decisioni alle arti applicate, vedendo chiaramente quel "decorativismo"
come una traduzione linguistica del figurativo necessaria affinché certe forme
potessero essere inserite nei diversi campi applicativi delle cosiddette arti
minori.
Klimt
non fu un punto di partenza per un epigonismo decorativo fine a se stesso: fu il
vertice a cui un certo tipo di arte poteva aspirare. Zecchin, attraverso le
esperienze fatte, s'era lentamente avvicinato e aveva assimilato un linguaggio
poetico dal sapore bizantineggiante che, in un certo senso, preludeva
all'incontro con le opere di Klimt. Klimt fu una rivelazione, ma una rivelazione
annunciata; s'inserì come l'inevitabile tappa che l'arte del nostro doveva
affrontare per raggiungere una propria maturità figurativa; maturità che più
volte dovette farlo meditare sul proprio lavoro con acuto senso critico. Dalle
opere di Klimt, egli non assimilò quel senso di disfacimento ed esaltazione
sensuale della malattia fin-de-siècle nell'età
dell'oro dell'insicurezza di una Vienna che, al ritmo di Strauss, alzava i
calici alla propria apocalypse joyeuse.
Nemmeno Casorati, nelle influenze dell'artista austriaco, recepì e sviluppò le
caratteristiche morbose che fecero dell'ignoto un universo anarchico da far
paura, di cui la donna ne divenne la rappresentante indiscussa e Klimt la punta
di diamante di quella stessa sensibilità rappresentativa. Il ritratto della
Vienna a cavallo del secolo è il ritratto della donna ritratta, della femme
fatale, della femme abominable, della figlia del tempo dell'insicurezza, della
"donna = sensualità"[28],
dell'"Enide" weiningeriana[29];
è il ritratto della città di Freud, della città dei suicidi, della città
dello sfacelo di un impero: di tutto quanto a Venezia non esisteva. Non fu
incapacità di Zecchin di comprendere l'indole più profonda delle opere di
Klimt. Fu solo che Venezia non era Vienna. Egli colse di Klimt, traducendoli in
un linguaggio tutto veneziano, quegli aspetti che più s'addicevano alla sua
indole, che era ben più di quando dalle opere dell'artista viennese fu
generalmente colto a Venezia nel 1910. Zecchin non fu un epigono klimtiano. Egli
si servì di Klimt per giungere alle arti applicate in una Venezia che viveva
una realtà tutta sua e che necessitava di nuova forza, capace di rigenerare
l'arte in ogni sua manifestazione[30]. Sotto quest'ottica,
Zecchin s'avvicinò molto più di altri alla generazione degli esteti dello Jung-Wein
e di Hermann Bahr, agli artisti della secessione e delle architetture di
Hoffmann e di Olbrich e, soprattutto, al progetto della Wiener Werkstätte.
La produzione artistica di Zecchin
dopo il 1910, appare spesso, almeno nelle opere più impegnate, intenta ad una
ricerca di soluzioni dall'estrema eleganza e raffinatezza decorativa, dove il
tema o il racconto, sovente riportato ad un bidimesionalismo degli spazi e dei
volumi, fu usato come pretesto per sviluppare lavori che richiedevano una
collocazione spaziale per trovare la loro più genuina giustificazione. Se
guardiamo ad opere come il trittico della Salomè
(tav. 15) o la Madonna e santi (tav.
14), ad esempio, togliendo loro quel legame con le arti applicate, allora sì,
si rischia di trovarvi solo un elegante decorativismo pittorico fine a se
stesso, un semplice epigonismo klimtiano. Ma, come fu per Le
mille e una notte e soprattutto per molta sua produzione dallo scoppio della
guerra in poi, se solo le pensiamo in relazione all'ambiente da decorare, magari
reinterpretate in arazzi o in mosaici, si coglie allora un’importanza
artistica maggiore, più moderna, più da designer che da solo pittore. E questa
è una prima fondamentale considerazione. L'altra, è squisitamente artistica:
se, ad esempio, Galileo Chini dà un'interpretazione toscana degli stimoli
klimtiani, vale a dire nel senso della linea, cioè del disegno, Zecchin ne dà
un'interpretazione tutta veneziana, cioè nel senso del colore. Tornando ad
esaminare le opere alle tavole XXXXX, soprattutto nel trittico della Salomè,
si coglie subito che l'originalità maggiore sta proprio nella “tramatura”
del colore. Se le opere sono klimtiane nella composizione, sono estremamente e
sorprendente veneziane nel colore. Ed è il colore che, in opere come queste, fa
di lui un grande artista.
Che
l'interesse di Vittorio Zecchin già in questi anni fosse rivolto alle arti
applicate, lo prova il catalogo della mostra di Ca' Pesaro del 1912 ed i suoi
rapporti con il gruppo de' "L'Aratro", col cui principale fautore, il
"secessionista" d'influenza monacense Teodoro Wolf Ferrari, il nostro
iniziò un interessante sodalizio artistico. Così si legge nel catalogo:
<<Un gruppo di artisti veneziani,
persuasi dell'opportunità di ricondurre anche da noi tutte le manifestazioni
dell'arte alla sua più genuina espressione, la decorazione, intendono
sottomettersi a se stessi e la loro produzione ad una comune regola di armonia,
pur restando fedeli ad una propria ispirazione. Le due sale organizzate al
pianterreno di Palazzo Pesaro sono l'attuazione pratica di un primo tentativo in
questo senso>>. La finalità era, dunque, rivolta alla
rivalorizzazione delle arti minori. E fu nell'ambito di questi interessi e per
lo stampo sempre più marcatamente secessionista preso da Ca' Pesaro, se anche
Zecchin entrò in diretto contatto con altre realtà artistiche nazionali e
straniere, tanto da fargli affermare in una lettera del novembre del 1912
all'amico Emilio Fuga: <<Varda, mi
no go che speranze: intendi po' speranze che me possa riuscir i lavori che devo
far per Roma - Vienna - Berlin - Monaco - Parigi; basta per carità: me vien le
vertigini a mi e anca a ti. Ciò, co sto benedetto gruppo secessionista xe
probabile far strada, data la forza e l'intraprendenza di Zanetti-Zilla. Ma...
bisogna che i lavori vegna fora ben, e se... no? Patapunfete dalla cabianda>>.
Da qui, le sue partecipazioni alle mostre della Secessione romana del 1913, del
1914 e del 1915 e a quella di Monaco del 1913, e sin da ora con un occhio di
riguardo verso le arti decorative.
Tra
le opere più significative di questi anni, quella in questa sede proposta con
il titolo di Perla orientale[31]
(tav. 28), presenta un'invenzione compositiva d'un simbolismo di grande
suggestione, dove la figura femminile che, come un prezioso idolo d'Oriente,
emerge da un'atmosfera nebulosa, evanescente, pare dissolversi in una luce
incantata, sapientemente ricamata dagli impercettibili vapori del fumo
dell'incenso, decorato di mille bolle cerchiate, e da misurate gocce d'oro,
anch'esse, come bolle di sapone, sospese nell'aria. Di grande eleganza e
raffinatezza decorativa sono il tripode per l'incenso, i portacandele e le
candele, elementi che, magistralmente impreziositi dall'impiego dell'oro, fanno
da quinta di presentazione alla magia della "ri-velazione" e,
contemporaneamente, ne regolano il ritmo. Un'atmosfera dall'analoga spiritualità,
mistica e ricca di simbologie, si respira anche in lavori come Verso
la luce (tav. 30)[32],
Le tre principesse (tav. 32), il
trittico delle Vergini del fuoco (tav.
31), o Convegno mistico (tav. 33);
tutte opere nelle quali la componente klimtiana ha sicuramente un suo indubbio
valore, ma che è reinterpretata e rielaborata con un'originalità compositiva e
cromatica tutta di Zecchin. In Verso la luce, ad esempio, il decorativismo, magicamente immerso nel
silenzio blu cobalto del cielo, è risolto con una riduzione bidimensionale
dalla preziosità cromatica raffinata, ricca e squillante d’orror vacui nelle incastonature delle vesti dei Re Magi, pacata ed
appena suggerita nel prato trapuntato e nella coda della cometa tutta ricamata
d'oro. Di klimtiano non v'è null'altro se non il suggerimento dell'arabesco
decorativo: l'atmosfera d'insieme, infatti, è molto più quella d'uno
spiritualismo cristiano tutto, anche nel colore, veneziano; d'una venezianità
rispettosa d'una simbologia tardo-medievale o di primo Rinascimento, come fu
quella di alcune opere dei Vivarini, di Michele Giambono o delle, sebbene
affollate, processioni del Carpaccio e di Gentile Bellini. Anche in opere
d'ispirazione apparentemente più klimtiana, come Le vergini del fuoco, v'è un candore ed una purezza figurativa
fatti di una valenza magica, ricca d'una forza icastica mistica e
veneto-orientaleggiante, che nulla hanno a che vedere con le sensuali seduzioni
di Klimt. La stessa fastosità decorativa del Convegno mistico, che già prelude alla complessa architettura
cromatico-compositiva de’ Le mille e una
notte, è risolta con un'immaginazione inventiva ispirata molto più ad una
Venezia bizantino-orientaleggiante che alle rappresentazioni simboliche del
decorativismo del geniale pittore austriaco. E così, dovette essere anche per
la decorazione del Il giardino delle fate,
tre pannelli dipinti per la sala che accoglieva le sue opere nell'importante
e polemicamente "accesa" esposizione capesarina del 1913; lavoro
memore, probabilmente, pure delle decorazioni eseguite da Galileo Chini per la
Biennale.
Di
grande interesse, fu l'esperienza artistica a diretto contatto con le arti
applicate vissuta al fianco di Teodoro Wolf Ferrari, che fu anche un suo primo
vero ritorno all'universo artigianale dell'arte del vetro. I due artisti
idearono una serie di murrine a vetro mosaico e di vetri, fatta realizzare
dall'officina vetraria "Artisti Barovier" di Murano, con la quale si
presentarono all'Esposizione d'arte decorativa di Monaco del 1913 e che, con
ogni probabilità, fu presentata anche alla Biennale del 1914. Alcune opere di
Zecchin realizzate in questo contesto, sono in assoluto tra quelle di maggior
qualità artistica di tutta la sua attività. In modo particolare, la lastrina
del Barbaro (tav. 93), conservata al
Museo Vetraio di Murano, è un lavoro dal primitivismo bidimensionale
sorprendente e dall'efficace espressività icastico-evocativa, realizzato
attraverso una grande padronanza delle suggestioni che le trasparenze ed i
cromatismi vitrei riescono a suscitare. In quest'opera, è palese il suo
tentativo d'applicare stilemi pittorici moderni alle possibilità luministiche
del materiale vitreo ed è un primo, qualitativo, esempio di come gli sforzi di
stilizzazione e semplificazione delle forme da egli raggiunti in pittura,
trovino un loro naturale inserimento nell'ambito delle arti applicate. Il
decorativismo maturato sulle esperienze prima di Toorop e poi di Klimt, è così
pienamente riscattato, tanto a livello cromatico quanto formale, e ricondotto,
una volta ancora, e forse mai con tanta efficacia, alla tradizione
veneto-bizantineggiante della sua città, specie quando, attraverso il vetro, il
colore, e con il colore la luce, si fanno protagonisti assoluti dell'opera
d'arte. La dogaressa o Salomè[33]
(tav. 27), ne è un'altro esempio, ottenuto non più operando sulla
materia vitrea da dentro, ma usando il vetro, una piccola lastrina in questo
caso, come superficie pittorica. Una volta in più, il decorativismo raffinato
ed esasperato fino all'orror vacui, trova una poesia cromatica unica per lo splendore della
luce e del colore. <<Il lucido del
vetro dà maggior fascino al superbo volto giovanile della dogaressa bella ed
irreale come un idolo, circondata da uno straordinario trapunto decorativo di
colori dallo stato puro come un antico mosaico bizantino, esaltati dalla linea
elegante del pavone in primo piano e dalla sintesi del motivo dell'acqua e delle
'bricole' lagunari poste sullo sfondo>>[34].
Fu proprio perché l'arte di
Zecchin era un'arte dal marcato sapore decorativo ed apertamente allineata alle
nuove mode liberty, quindi facilmente comprensibile e giustificabile nella sua
modernità, che essa ebbe alle mostre un buon successo e che spinse il signor
Indri, proprietario dell'Hotel Terminus, a commissionargli, verso il 1914, il
ciclo pittorico de’ Le mille e una notte.
Considerate
tra i massimi capolavori del Liberty a Venezia, Le
mille e una notte (tavv. 43-54), realizzate presumibilmente su di una
superficie di circa trenta metri di lunghezza ed oggi suddivise in oltre una
decina di tele, furono concepite per andare a decorare con gran fasto una sala
da pranzo stretta e lunga dell'albergo, il cui edificio subì purtroppo nel
corso del tempo varie ristrutturazioni che portarono alla dispersione del ciclo
stesso. La fonte sulla quale l'opera è stata ideata, s’identifica con
precisione da un frammento del ciclo conservato al Museo Internazionale d'Arte
Moderna di Ca' Pesaro e che reca la seguente scritta incompleta: <<e
Aladino disse al genio: adunami qua / le schiave bianche e polite siccome...>>.
L'ispirazione, pertanto, re-inventata, giunse a Zecchin dalla lettura del
racconto della lampada di Aladino tratto da' Le mille e una notte. Ed è fondato supporre, inoltre, che la
lettura Zecchin l'abbia fatta sulla traduzione di alcune delle favole persiane
pubblicata nel 1913, o poco prima, da Umberto Notari per l'Istituto Editoriale
Italiano di Milano, nei nn.13 e 14 della collana "Biblioteca dei
ragazzi". In queste edizioni, la parte grafica fu curata da Duilio
Cambellotti, il quale illustrò anche tre volumi dei racconti di Sceherazad con
tavole fuori testo a colori, considerate unanimemente dalla critica come il
capolavoro di Cambellotti illustratore.
Per
quel che concerne lo snodarsi figurativo del corteo nuziale di Aladino verso la
sua promessa sposa, non si conosce con sicurezza la successione esatta che tutti
i pannelli dovevano avere sulle pareti della sala dell’albergo. Il pannello
con la principessa Badr al-Budùr, era comunque il punto verso cui la
processione convergeva e quindi, nella sala da pranzo stretta e lunga
dell’albergo, doveva andare a decorare la parete di fondo. E’ da supporre,
in ogni caso, che il ciclo non si svolgesse in maniera continuativa, poiché
sicuramente aveva delle interruzioni spaziali in corrispondenza delle porte,
delle finestre o delle eventuali vetrate. Queste interruzioni, servirono certo a
Zecchin per scandire anche le pause spaziali all’interno della processione,
che vede un maggior numero di personaggi sul lato alla sinistra della
principessa; mentre sulla parete alla destra dovevano esserci un numero maggiore
di aperture (porte, finestre o vetrate), poiché di quel lato si conoscono un
minor numero di pannelli nei quali, tra l’altro, alquanto meno numerose sono
le figure del corteo e dove probabilmente c’erano più pause compositive con
paesaggi o altri elementi. Il pannello centrale stesso della principessa, con le
offerenti a sinistra e il solo paesaggio sulla destra, porterebbe a confermare
questa ipotesi.
Le
mille e una notte di Zecchin,
rappresentano il sogno orientale, decadente, filtrato dalla Venezia d'inizio
secolo che, pur sulla base del testo persiano, è in grado di rievocare in
chiave moderna gli antichi splendori cromatici della città importati da
Bisanzio e dall'Oriente. Tutto il ciclo si svolge sulla teoria isocefala della
processione di schiave "tutte giovani e di eccezionale bellezza" che,
cariche di preziosi doni ed alternate ritmicamente dall'inserimento delle figure
nere dei guardiani, muscolosi ed imponenti come telamoni egizi, vanno a rendere
omaggio alla principessa Badr al-Budùr, figlia del sultano, che Aladino seppe
conquistare e riuscì ad avere in sposa grazie alle immense ricchezze profuse
dal genio della lampada. Straordinaria la figura della principessa Badr al-Budùr
(tav. 51), fulcro verso il quale converge l'intera composizione, colta, nella
sua elegante immobilità ieratica, maestosamente seduta su di un trono dorato ed
immersa in un'invenzione paesaggistica stupefacente, tanto a livello formale e
cromatico quanto a livello contenutistico, proprio per la capacità che Zecchin
ha avuto di saper trasmetterci quella sensazione d'incantato stupore e di
mistica sacralità, che sembra essere quasi stata scovata in un angolo
dimenticato della nostra memoria e riportata allo stato cosciente attraverso il
racconto fantastico di una poesia figurativa da fiaba, come quella che sognavamo
quand'eravamo bambini. Tutto è un sogno, o meglio, tutto è una visione magica,
simbolica, incantata, orientale, da "mille e una notte": il vibrante orror
vacui cromatico del paesaggio, la molle e ad un tempo regale positura delle
tigri, il tripode sulla destra, le ancelle inginocchiate sulla sinistra con le
braccia protese ad offrire alla principessa i vassoi colmi di gemme e pietre
preziose. Con la stessa ricchezza, lo stesso sfarzo, la stessa maestosità
inventiva e cromatica, si snoda il corteo nuziale negli altri pannelli, dove vi
è un'ancora maggiore profusione di forme e di colori, in un ritmo ancora più
serrato e con spazi ancora più compressi dall'affollarsi di personaggi tutti
colti, con occhi egiziani, sullo sfondo dello stesso paesaggio incantato, in
nobili positure e in regali atteggiamenti nelle loro ricchissime vesti
incastonate d'oro, di pietre preziose e di ogni sorta di decoro, fin sul grande
pannello con gli unici offerenti maschili (tav. 48), tra i quali si vuole
indovinare Aladino stesso, con turbante e scettro, anch'egli avvolto in <<vesti
tanto preziose... [come] nessun re
ne... [ha] mai avuto di simili nel suo guardaroba>>. Con un'eleganza ed
una raffinatezza inaudita, davanti alla processione che rende omaggio alla bella
principessa Badr al-Budùr si ha la sensazione di assistere ad un rituale sacro
che appartiene alla notte dei tempi, che l'artista ha saputo evocare ed al quale
ha saputo dar forma e colore. In esso, vi è un sapore anche di primitività, un
qualcosa di barbaresco, che è lo stesso di certi brani di D'Annunzio o, più
ancora, della Salambò di Flaubert.
Il
ciclo de’ Le mille e una notte,
è uno straordinario capolavoro concepito, pensato e risolto come opera
decorativa, nella quale tutto è un pretesto per decorare al punto tale che la
decorazione pare essere fine a se stessa, e, come tale, trova la sua finalità
primaria nell'adornare, con sfarzo ricco e sontuoso, la sala da pranzo
dell'albergo. La stessa evasione nella fiaba, sembra quasi farsi da parte
davanti al piacere di disegnare, di inventare e, soprattutto, di colorare.
Quest'opera segna il culmine di tutto quanto Zecchin era andato maturando fino a
questo momento. Le influenze di Toorop e di Klimt trovarono ne’ Le mille
e una notte il loro vertice, che si fece il non
plus ultra dopo il quale l'artista, per non cadere in un manierismo di se
stesso, pur mantenendo le caratteristiche stilistiche sviluppate, volse la sua
attenzione altrove. Non fu un caso se, dopo questa esperienza, forse vissuta
anche come una sorta di felice "crisi" artistica che lo immerse in una
profonda autocritica, egli si dedicò sempre più alle arti applicate. Le
mille e una notte rappresentano
un'ultima fuga in un sogno allora ancora possibile, perché allora ancora ci si
poteva distaccare dalla realtà, ma che fu presto spazzato via dalla guerra.
Uniche
nel loro genere a Venezia, sono la viva testimonianza della capacità
coloristiche di Vittorio Zecchin: <<Egli ama la violenza del colore; la sua genialità consiste
nell'armonizzare tutte le vivacità della tavolozza più accesa>>[35].
Chi, ne’ Le mille e una notte,
ma in genere in tutta la pittura di Zecchin, volesse trovarvi l'abilità tecnica
nell'uso del pennello, la capacità di sofisticati virtuosismi di tocco, la
tradizionale perizia degli insegnamenti accademici, o solo la qualità
figurativa del particolare, che pur vi sono, resterebbe piuttosto deluso, perché
l'arte tecnica di Zecchin sta altrove, così come altrove sta la sua poesia. Se
ci si concentra, tralasciando tutto il resto, sull'armonica fusione di tinte e
sulla loro tessitura, si scopre una vera sinfonia, una vera cattedrale, una vera
architettura cromatica, dove più ancora della stilizzazione delle forme,
l'artista attua una stilizzazione del colore. E' il colore che rende innovativo
e originale l'intero ciclo, ed è attraverso il colore che Zecchin attuò in
quegli anni a Venezia il più significativo e geniale recupero della secolare e
gloriosa tradizione artistica della sua isola e della sua città: quella che
conduce direttamente ai luccichii delle fornaci del vetro e alle tinte accese
dei Vivarini, quella che si riallaccia alle vetrate ai mosaici alle patere ai
pavimenti medievali della Venezia bizantina ed orientaleggiante.
Spinti
dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno Gabriele D'Annunzio,
in un'Italia sempre più convinta al “bel gesto” e a vedere nella guerra la
<<sola igiene del mondo>>,
tanti furono i giovani che intrapresero un’avventura dalla quale per molti non
vi fu ritorno, e chi tornò, tornò profondamente cambiato. Nella seconda metà
del 1915, anche gli amici capesarini, più o meno convinti, furono chiamati alle
armi. Vittorio Zecchin, perché claudicante, fu uno dei pochissimi che rimase a
Venezia o, meglio, isolato a Murano. Egli non visse la guerra in prima persona;
la visse indirettamente, tra stenti di ogni genere nella costrizione a rimanere
con tutti i suoi sogni rilegato su un'isola sempre più deserta e inoperosa,
popolata solo da donne, vecchi e bambini. Tuttavia, questo non bloccò la sua
genialità e, spinto dalla lettura di riviste inglesi, dov'era esaltata nei
popoli nordici l'arte del ricamo su grossi canovacci, Zecchin decise di far suo
un vecchio convento nei pressi di San Donato a Murano e, richiamando le giovani
donne dell'isola, fondare un vero e proprio laboratorio per arazzi[36].
Questo momento segna l'inizio della sua profonda e totale dedizione alle arti
applicate. Egli stesso si mise a ricamare e lo fece con tanto amore ed inventiva
da ideare un punto che potesse imitare la pennellata sulla tela. Considerò, con
moderna convinzione, l'arte dell'arazzo (come ogni altro genere di arte
applicata) alla pari di ogni altra manifestazione figurativa e, in questa piena
convinzione, promosse il rilancio dei più svariati settori artigianali
veneziani e veneti. E, nel suo laboratorio d'arazzi, come ricorda Alfredo Rota,
avvenne l’incontro con D'Annunzio: <<La guerra... infuria spaventosa: Gabriele D'Annunzio, fra un volo e
l'altro, si spinge a Murano dove celebra, al rezzo di quei miti orti salmastri,
degli atti di vita. Così conosce Zecchin che gli parla in veneziano, gli dice i
suoi propositi e gli mostra il primo arazzo. D'Annunzio lo ascolta ammirato e
compra il bel saggio. Nasce così dalle parole di Zecchin la raffigurazione
dell'Arte Paesana che il poeta celebra nello Statuto di Fiume[...]
Una sera[...] Zecchin narra a D'Annunzio la Leggenda della Valle dei sette morti[[37]],
che il poeta metterà poi - traducendola dal veneziano - nella Leda senza cigno.
Il libro recherà, in compendio, questa dedica “- Al grande artiere Zecchin da
Murano, che mangiò la polenta nella Valle dei sette morti”>>[38].
La
guerra, intanto, aveva cambiato tutto. L'entusiasmo iniziale fu ben presto
soppiantato dalla fredda logica di una realtà ben diversa da quella che si
pensava. L'evento bellico pose fine all'Ottocento, spintosi ormai per quasi due
decenni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il
popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria
mutilata", dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e
culturalmente diversa da quella che si credeva essere.
Nel
giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro, con le loro
esposizioni, si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera
dell'Italia artistica del dopoguerra.
All'interno
del gruppo capesarino, nell'organizzazione della mostra del 1919, tanto
attivamente gestita da Barbantini, l'”U.G.A.”, l'Unione Giovani Artisti,
sorta su iniziativa di Teodoro Wolf Ferrari, aveva creato dissidi. Zecchin
stesso partecipò all'iniziativa ma, come Gino Rossi, non accettandone in tutto
le idee. La mostra di Ca' Pesaro, comunque, si rivelò tra le più belle e
riuscite di tutta la storia della Fondazione. A Vittorio Zecchin, membro della
giuria d'accettazione, fu dedicata un'intera sala, dove espose, in una mostra
personale, arazzi e vetri, che andarono quasi a ruba e che testimoniarono gli
sforzi artistici fatti dal muranese durante l'evento bellico.
La
mostra capesarina del '19, aveva evidenziato però, negli artisti stessi, una
volontà diversa da quella che dominava prima della guerra. Ca' Pesaro reclamava
un pieno riconoscimento a tutti i livelli: gli artisti, non più giovanissimi ed
inesperti, avevano oramai tutti delineato il loro percorso figurativo e
l'istituzione serviva loro ancora come punto d'esposizione e di lavoro, ma non
rappresentava più la loro unica ed indispensabile possibilità. Ognuno aveva
maturato una propria fisionomia artistica che poteva continuare autonomamente.
Le polemiche con la Biennale avevano in un certo modo perso di senso e dovevano,
come fu, volgere velocemente all'epilogo: la realtà nel dopoguerra era cambiata
e, come conseguenza, doveva cambiare ogni cosa. L'esigenza di romper con il
tradizionalismo di stampo ottocentesco venne meno: la guerra stessa aveva
spazzato via tutto quanto di ottocentesco fino a qualche anno prima era ancora
forte e vivo. A Venezia non ci fu, tolte le persone più accorte, una precisa
coscienza delle mutate e nuove esigenze culturali. L'isola geografico-lagunare
della città fu toccata solo indirettamente dall'evento bellico, e per taluni
rimase la convinzione che le cose potessero continuare come prima. Alla base di
quanto successe nel 1920 e dopo, per qualche anno ancora, ci fu un ultimo,
disperato tentativo di riesumare una cultura ormai morta, quanto mai
anacronistica e fuori luogo. E la Biennale di quell'anno, nonostante gli sforzi
del nuovo segretario generale, ne fu un esempio.
Nino
Barbantini aveva fatto del suo meglio per organizzare l'esposizione palatina del
1920. A dimostrazione dell'importanza della mostra, erano stati invitati anche
molti artisti che non gravitavano nell'orbita di Ca' Pesaro[39].
Una decisione comunale, però, cambiò la giuria d'accettazione della Fondazione[40],
la quale fu spinta a adottare alla lettera, non senza voluti fraintendimenti,
quanto dettato dal testamento della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa. Ci fu
una sorta di Serrata del Maggior Consiglio: con lo stesso criticato metodo della
Biennale, furono accettati quasi tutti gli artisti che si erano presentati
(senza attuare quella discriminazione qualitativa che aveva fatto tanto
interessanti le mostre palatine), ed esclusi i <<non
veneziani>>. La reazione fu immediata e le conseguenze furono che
dall'anno successivo tra gli artisti di Ca' Pesaro vi fu una specie di vera
diaspora. Zecchin stesso, ancora giovane ma non più giovanissimo (aveva
superato i quarant'anni e quell'anno s'era anche sposato), pur mantenendo sempre
i rapporti con le istituzioni artistiche cittadine, volgeva i propri interessi
oramai quasi esclusivamente alle arti applicate.
Per
qualche anno ancora dopo Le mille e una
notte, Zecchin realizzò opere pittoriche dal marcato sapore decorativo,
sempre immerse in quella sua poesia fatta d'incantate suggestioni. Le Tre
principesse (tav. 56), la Principessa
nel paesaggio (tav. 55), Vescovi
(tav. 59), Cattedrale (tav. 61), sono tutte opere che respirano quell'atmosfera
di magia decorativa e di favola, e le prime due potrebbero idealmente ben
accompagnare il corteo nuziale di Badr al-Budùr. In esse, tuttavia, vi si sente
una stilizzazione compositiva formalmente e coloristicamente pensata già per
essere reinterpretata nell'ambito delle arti applicate: per essere tradotta in
arazzo, ad esempio. Altre opere, nelle quali la sinuosità liberty mostra di
avviarsi con decisione verso la nuova moda dell'Art Déco, in sintonia con quel
diffuso Ritorno all'ordine che caratterizzò tutte le arti nel primo dopoguerra,
hanno una composizione più semplice, libera, almeno in parte, da quell'orror
vacui decorativo visto fino ad ora: La
lucciola (tav. 57) e Fede (tav.
58), ad esempio, presentano entrambe due esili figure femminili che, quasi come
libellule o fiammelle, assumo ricercate ed eleganti positure atte ad accentuare,
assieme al contrasto cromatico delle vesti con lo sfondo scuro, il fascino
mistico d'un rituale d'antica devozione, o d'iniziazione a qualche culto
esoterico, che pare celebrato adesso, tanto sembrano alla moda d'allora gli
abiti indossati e le capigliature. Di un fascino analogo, mistico e esoterico, e
sempre incantato come in una visione fiabesca, sono tutta una serie di splendidi
paesaggi (tavv. 62-70) dalle raffinatissime soluzioni compositive che, nel loro
gusto di ascendenza klimtiana, si presentano come piccole “cattedrali” che
trovano, ancora una volta, le loro note poeticamente più alte nella sinfonia
della loro preziosa architettura del colore. Di questi ultimi due gruppi
d'opere, tele già databili verso il 1920 come Cammina..., cammina... (tav. 87) o Principessa nel bosco (tav. 85), paiono esserne un calibrato punto
d'incontro. E la profusione di un decorativismo nuovamente ricco di orror
vacui si riscontra in opere anch'esse eseguite nel primissimo dopoguerra,
nelle quali rimane vivo il ricordo dei sogni incantati, tutti permeati d'un
orientalismo fastoso e ridondante. Soprattutto in quei lavori destinati, come Le
mille e una notte, a andare a addobbare sfarzosamente intere sale. E, di
questi cicli decorativi, Zecchin dovette probabilmente eseguirne più d'uno, se
egli stesso, in una lettera a Nino Barbantini del 6 agosto 1923, ci fa sapere
che <<me piasaria (questo saria il
mio più vivo desiderio) presentarme con una serie de tavole, dove voria far
veder che go gran vogia da impiturar. Insomma voria presentarme sotto la veste
del decorator>>. E' con questo spirito che nascono, allora, altri
cicli decorativi come quello di cui il grande pannello sagomato sull'arco di una
porta (tavv. 72a, 72b) ci rimane oggi come unica testimonianza, caratterizzato
da un continuo ripetersi di fitti motivi decorativi ritmicamente cadenzati da
ieratiche figure femminili; come quello, tutt'ora in loco (è fino ad oggi
l'unico di Zecchin giuntoci nella sua integrità), realizzato per un villino in
stile neo-gotico (tavv. 73, 74), sfarzosa sinfonia cromatica tutta giocata su
dolci sinuosità coloristiche rette da una sorprendente architettura compositiva
profusa nell'oro di fantastici motivi veneziani di navi a vela; o, ancora, come
quello in affresco dipinto verso il 1922, assieme ad un grande sipario (si
vedano anche la scheda n. 278 e relativa tavola), per il teatro di Murano[41].
Di
grande valenza decorativa, sono anche tutta una serie di opere a soggetto
femminile (tavv. 75-77), dove le donne, avvolte alla maniera orientale in
voluminosi scialli o ricchi manti incastonati di ogni preziosità, ci fissano
come matrone misteriose o enigmatiche e seducenti sfingi. Il loro elegante e
raffinato decorativismo, retto da una ricercata stilizzazione di forme e colore,
così come si vede in Salomè[42]
(tav. 78), in Procellarie (tav. 80),
in Re Magi (tav. 82), ne' Le
tre fate (tav. 84), in Gru ed aironi
(tav. 81), o nelle più tardive, realistiche e cromaticamente accese tele con La partenza (tav. 88) e Le
Veneziane (tav. 89), è il principale legame con l'universo della arti
applicate: infatti, non sorprende ritrovare temi analoghi realizzati in arazzi,
in mosaici, in vetrate o con altra tecnica. Sono motivi che Zecchin sperimentò
in pittura per poi servirsene altrove. Significativi a tal proposito sono anche
i disegni degli anni Venti e Trenta, dove il rigore del designer trasformò il
segno grafico nello scheletro entro il quale prese forma un razionalismo
figurativo moderno e di ampio respiro europeo, che dette i suoi più alti
risultati nell'arte vetraria. In modo analogo, la sua pittura fu sempre più
finalizzata alle arti decorative. Rare eccezioni in questo senso, sono tutto un
gruppo di nature morte (tav. 91) eseguite nei suoi ultimi anni di vita,
sintomatiche raffigurazioni di un realismo magico tanto ricercato ed esasperato,
da far sì che gli oggetti stessi s'innalzino a simboli inquietanti, troppo
"tranquilli" in quei giorni che precedevano un'altra immane
catastrofe; catastrofe che a Zecchin tolse definitivamente tutto quello che un
tempo <<gera solo... pensieri [che]
correva lontan>>, per rinchiuderlo in un <<povero
palazzo>> dai <<balconi /
scavai come gran oci / vodi, / senza fondo...
per el dolore grando, / senza fin / che te consuma>>.
Marco
Mondi
[1] G. Perocco, Artisti del primo Novecento italiano, Torino 1965, p. 11.
[2] M. Mondi, Per un catalogo dell'opera di Vittorio Zecchin, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Venezia, Ca' Foscari, a.a. 1991/1992, vol. I, p. 211. Vittorio Zecchin, tra le altre cose, scrisse anche numerose poesie, alcuni racconti e alcune massime in dialetto veneziano (cfr. Ibidem, vol. I, pp. 205-272). Scrisse, inoltre, un’opera dal titolo alquanto interessante e significativo, Il romanzo del vetro, un dattiloscritto di 257 fogli nei quali è narrata la storia del vetro e le sue varie tecniche di lavorazione.
[3] G. D'Annunzio, Il fuoco, Torino, Mondadori, 1963 (1951).
[4] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. I, p. 210.
[5] Su Vittorio Zecchin ed il vetro, oltre a quanto detto da Marino Barovier nel capitolo sui Vetri di Vittorio Zecchin, cfr. anche Ibidem, vol. I, pp. 8-162, vol. II, pp. 179-582, vol. III, pp. 11-212, 398-412, vol. V, vol. VI, pp. 2-120, vol. VII, vol. IX.
[6] Sulla storia del vetro di Murano tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, oltre a quanto detto da Marino Barovier nel capitolo sui Vetri di Vittorio Zecchin, si veda: R. Barovier Mentasti, A. Dorigato, A. Gasparetto, T. Toninato, Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia 1982; R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982; M. Barovier, Il “Liberty” a Murano, in Il Liberty in Italia, cat. a cura di F. Benzi, Padova, Palazzo Zabarella, 18 novembre 2001 – 3 marzo 2002, Milano 2001.
[7] L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, cat. a cura di V. Pica, Galleria Pesaro, Milano 1923, p. 9.
[8] Dall'anno, cioè, dell'istituzione della Biennale di Venezia.
[9] Augusto Sezanne, nell'ambito della sua collaborazione con la ditta bolognese Aemilia Ars ebbe occasione di realizzare anche vetri, alcuni dei quali furono presentati all'Esposizione internazionale di arti decorative di Torino del 1902.
[10] P. Rizzi, E. Di Martino, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982, p. 20.
[11] Alla Biennale del 1910, Fradeletto fece togliere dal salone spagnolo un’opera di Picasso perché la sua modernità poteva scandalizzare il pubblico (cfr. G. Romanelli, Biennale 1895: nascita, infanzia e prime imprese di una creatura di genio, in Venezia e la Biennale – I percorsi del gusto, cat. della mostra, Venezia, 1995, p. 21).
[12] G. Perocco, op.cit.
[13] G. Gozzano, Totò Merùmeni, da I colloqui, 1911.
[14] Non si dimentichi, inoltre, che la Biennale del 1897 aveva presentato la "Mostra d'arte antica giapponese".
[15] L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., p. 11.
[16] Vittorio Zecchin, cat. a cura di G. Perocco, Venezia, Palazzo Pesaro, aprile-maggio 1981, Milano 1981, p. 5.
[17] E. Di Martino, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia 1984, p. 19.
[18] Ibidem, p. 20.
[19] N. Barbantini, Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi, in Scritti d'Arte, Verona 1953.
[20] M. Mimita Lamberti, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, cat. mostra, Milano 1987, p. 50.
[21] E fu in quegli anni che <<nacque anche quel “centro” artistico di Burano>> (S. Branzi, Ca' Pesaro - Prima Voce del l'Arte Moderna Italiana, Venezia 1959, p. 4).
[22] <<La Biennale del 1910, tutta per inviti, andava preparata in gran fretta che permise di accettare a scatola chiusa una personale di Renoir e una retrospettiva di Courbet (presentata da Ojetti), l'individuale di Klimt, ma anche una serie meno felice di sale accaparrate dai protagonisti accreditati delle tradizioni locali, Brass Fragiacomo, Sartorelli, Scattola>> (M. Mimita Lamberti, op. cit., p. 48).
[23] Quelle mostre aprirono <<uno spiraglio di speranze che anche Soffici dovette ammettere, a denti stretti, nel giudizio nitido e severo che egli dette del panorama dell'esposizione>> (G. Perocco, op. cit.).
[24] Vale la pena ricordare anche che alla Biennale del 1910 furono presentati alcuni disegni dell'inglese Aubrey Beardslay, artista che, come ricorda Vittorio Pica (L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., pp. 13-14), fu ammirato da Zecchin. A tal proposito si vedano le tavv. 18 e 79.
[25]
Vedi nota 11.
[26] <<L'organizzazione della "Sala della gioventù" doveva essere o apparirgli [a Barbantini] come un'infida “concorrenza” di Fradeletto>> (F. Scotton, Un'estetica della gioventù: Barbantini e Palazzo Pesaro, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, cat. mostra, Milano 1987, p. 89).
[27] Vittorio Zecchin, op. cit., p. 6.
[28] K. Kraus, Il vaso di Pandora, in F. Wedekind, Lulu, Milano 1972, p. 23.
[29] <<”Enide” è un termine introdotto da Weininger per significare quel momento in cui non è distinguibile la sensazione dal sentimento, cioè una rappresentazione senza contorni, oscura, indefinibile, priva di differenziazioni>> (E. Di Stefano, Il complesso di Salomè, Palermo 1985, p. 28). <<L'uomo ha gli stessi contenuti in forma articolata come la donna, ma quando questa pensa più o meno in enidi, quello ha già rappresentazioni chiare e distinte[...] Per la donna pensare e sentire sono la stessa cosa, mentre l'uomo può sempre distinguere[...] L'uomo vive cosciente, la donna no>> (O. Weininger, Sesso e Carattere, Milano 1945, pp. 99, 168).
[30] Scrive Vittorio Pica: <<Non è di pittori, buoni mediocri o cattivi, che manchiamo ai nostri giorni in Italia - l'ho scritto e lo ripeto con profonda convinzione - ma bensì di accorti intelligenti instancabili cultori delle industrie artistiche e quando se ne trova qualcuno[...] lo si deve incoraggiare ed aiutare come più e come meglio si può>> (L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., pp. 28 - 29).
[31] Per la titolazione di quest'opera, si veda la relativa scheda.
[32] Per la titolazione di quest'opera, si veda la relativa scheda.
[33] Come giustamente ha fatto osservare la dottoressa Carla Sonego, per le tipologie stilistiche delle decorazioni, non è da escludere che l'opera possa essere stata eseguita qualche anno più tardi, forse verso il 1918, elaborata sull'idea originaria del 1913. Un articolo sulla "Voce di Murano" del 2 marzo 1914, tuttavia, parla di un'opera che è certamente da mettere in relazione con questa. Chi scrive, preferisce mantenere la datazione data a suo tempo dal prof. Perocco.
[34] Vittorio Zecchin, op. cit., p. 6.
[35] A. Rota, Un taumaturgo del colore: Zecchin da Murano, dattiloscritto datato del 28 giugno 1941, p. 2.
[36] Cfr. Ibidem., p. 3.
[37] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. I, p. 257.
[38] A. Rota, op. cit., pp. 3-5.
42 - Alla mostra della “Società delle Belle Arti di Firenze” della primavera del 1928, Zecchin espose uno splendido vaso in vetro decorato con lo stesso soggetto della Salomè raffigurata in quest’opera.
[39] Cfr. E. Di Martino, op. cit., p. 43.
[40] Cfr. N. Barbantini, La prima mostra di Ca' Pesaro, in op. cit., p. 267.
[41] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. II, p. 130, scheda 111, vol. IV, tav. 111.
[42] Alla mostra della “Società delle Belle Arti di Firenze” della primavera del 1928, Zecchin espose uno splendido vaso in vetro decorato con lo stesso soggetto della Salomè raffigurata in quest’opera (vedi tav. 115).
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Specializzazione: lo Studio espone in permanenza dipinti antichi e dipinti moderni (dipinti del Quattrocento, dipinti del '400, dipinti del secolo XV secolo, dipinti del Cinquecento, dipinti del '500, dipinti del secolo XVI secolo, dipinti del Seicento, dipinti del '600, dipinti del secolo XVII secolo, dipinti del Settecento, dipinti del '700, dipinti del secolo XVIII secolo, dipinti dell'Ottocento, dipinti del '800, dipinti del secolo XIX secolo, dipinti del Novecento, dipinti del '900, dipinti del secolo XX secolo dipinti veneti e quadri veneti soprattutto). Effettua compravendite di quadri, consulenze d'arte, ricerche artistiche, stime e perizie d'arte. Esegue testi storico critici, organizza e cura mostre e catalogazioni per conto di privati, Pubbliche Istituzioni, Associazioni Culturali ed Enti Pubblici e Privati. Per ricerche in corso, si invitano i possessori di opere e documenti di artisti di Castelfranco Veneto ed attivi in città a contattare lo Studio. Lo Studio Mondi Dipinti Antichi Moderni effettua, inoltre, ricerche e studi su artisti e pittori attivi a Castelfranco Veneto, Treviso, Padova, Vicenza, Venezia, Mestre, Verona, Rovigo, Belluno, Castelfranco Veneto, San Floriano, Treville, Sant'Andrea oltre Muson, Salvarosa, Villarazzo, Salvatronda, Campigo, Castello di Godego, Vedelago, Casacorba, Cavasagra, Castelminio, Istrana, Padernello, Fossalunga, Morgano, Casier, Roncade, Biancade, Casale sul Sile, Meolo, Musile di Piave, Monastiero, Campagna Alta, Tombolo, San Martino di Lupari, Resana, Galliera Veneta, Paese, Cittadella, Albaredo, Feltre, Montebelluna, Caerano San Marco, Pedavena, Riese Pio X, Mel, Cornuda, Piazzola sul Brenta, Dueville, Bassano del Grappa, Angarano, Arzignano, Rossano Veneto, Borso del Grappa, Rosà, Romano d'Ezzelino, Pove del Grappa, Solagna, Molvena, Pianezze, Altavilla Vicentina, Breganze, Torri di Quartesolo, Cartigliano, Nove, Mason Vicentino, Gallio, Piovene Rocchette, San Zenone degli Ezzelini, Monastier, Asolo, Cavaso del Tomba, Possagno, Castelcucco, Paderno del Grappa, Pagnano, Fonte Alto, Maser, Fietta, Bessica, Barcon, Caselle d'Asolo, Giavera del Montello, Selva del Montello, Crespano, Ca' Rainati, Monfumo, Campo Croce, Montecchio Precalcino, Arcignano, Bressanvido, Mussolente, Arcade, Nervesa della Battaglia, Susegana, Valmarana, Soave, San Bonifacio, Creazzo, San Vendemiano, Castello Roganzuolo, Godega di Sant'Urbano, Colle Umberto, Vallà di Riese, Spineda, Preganziol, Spinea, Mira, Mirano, Carmignano di Brenta, Zero Branco, Scandolara, Levada, Torreselle, Noale, Camposanpiero, Santa Maria delle Badesse, Badoere, Quinto di Treviso, Spresiano, Conegliano, Vittorio Veneto, Serravalle, San Fior, Montello, Pieve di Soligo, Passo Rolle, Biadene, Venegazzù, Signoressa, Trevignano, Monte Grappa, Asiago, Crocetta del Montello, Montecchio Maggiore, Piombino Dese, Limena, Torreglia, Arquà Petrarca, Teolo, Rubano, Curtarolo, Pederobba, Quero, Onigo, Massanzago, Borgoricco, Loreggia, Trebaseleghe, Scorzé, Martellago, Maerne, Zelarino, Olmo, Mogliano Veneto, Villorba, Dolo, Saonara, Piove di Sacco, San Donà di Piave, Caorle, Chioggia, Sottomarina, Jesolo, Lido di Jesolo, Cortellazzo, Cavallino, Treporti, Lido di Venezia, Duna Verde, Malamocco, Mazzorbo, Punta Sabbioni, Sant'Erasmo, Tronchetto, Tessare, Alberoni, Pellestrina, Marghera, Burano, Murano, San Francesco del Deserto, Cannaregio, Castello, Dorsoduro, San Marco, Santa Croce, San Polo, San Polo di Piave, Grado, Lignano Pineta, Lignano Sabbiadoro, Bibbione, Dona Verde, Porto Santa Margherita, Marostica, Thiene, Schio, Zanè, Malo, Piovene Rocchette, Valdagno, Chiampo, Chirignago, Trissino, San Bonifacio, Lonigo, Campodarsego, Vigodarzere, Noventa Padovana, Strà, Vigonza, Cadoneghe, Camin, Selvazzano, Este, Montagnana, Solesino, Monselice, Abano, Abano Terme, Albignasego, Tezze sul Brenta, Bussolengo, Villafranca di Verona, Cerea, Nogara, Legnago, Isola della Scala, Lendinara, Badia Polesine, Laguna Veneta, Eraclea, San Stino di Livenza, Concordia Sagitaria, Portogruaro, Porcia, Sacile, Susegnana, Sedico, Ponte nelle Alpi, Arsiè, Borgo Valsugana, Lamon, Pergine, Valsugana, Levico terme, Grado, San Michele al Tagliamento, Trieste, Monfalcone, Cervignano del Friuli, Gorizia, Udine, Cividale del Friuli, Spilimbergo, Gemona, Maniago, Codroipo, Aviano, Tolmezzo, Auronzo, Cortina d'Ampezzo, Comelico, Pieve di Cadore, Dobbiaco, Brunico, Selva di Val Gardena, Bressanone, Bolzano, Moena, Cavalese, Forno di Zoldo, Alleghe, Agordo, Falcade, Ortisei, Longarone, Cles, Merano, Rovereto, Arco, Riva del Garda, Limone del Garda, Desenzano, Peschiera, Sirmione, Salò, Gardone, Bardolino, Isola della Scala, Mantova, Ferrara, Porto Tolle, Mesola, ecc. dipinti antichi dipinti moderni Cinquecento '500 Seicento 600 Settecento '700 dell'Ottocento '800 Novecento '900 veneti quadri
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