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VITTORIO ZECCHIN PITTORE

 di Marco Mondi

  Lo scenario della cultura veneta e veneziana nella fattispecie, storicamente così spesso isolato e chiuso nella sua turris eburnea non solo geografico-lagunare, si presentava all'alba del XX secolo come uno dei centri d'attività artistica e critica più fertili d'Italia. Fu nell'humus veneziano, infatti, che vennero ad abbeverarsi i Futuristi nella loro polemica contro il "chiaro di luna"; così come, qualche anno prima, il dannunziano Stelio Effrena accompagnò il feretro del musicista Wagner, vero tripode di tutto il Decadentismo europeo, sulle acque della defunta Serenissima. Prese di posizione apparentemente contraddittorie, vissero ed anzi si corroborarono reciprocamente trovando in Venezia uno tra i luoghi della penisola più adatti per dar sfogo o far da culla alle proprie idee. 

  La decisa volontà dell'artista, sia questo pittore o scrittore, poeta o musicista, di affacciarsi sullo scenario dell'arte europea e con esso instaurare un continuo e libero scambio, fu una delle caratteristiche peculiari di tutta la prima metà del secolo. E si pensi, da un lato, all'importanza del ruolo svolto dalle numerose riviste artistico-letterarie e, dall'altro, al diffondersi nelle maggiori città italiane delle esposizioni nazionali ed internazionali d'arte. Una tappa fondamentale verso una visione moderna dell'arte italiana, conseguenza inevitabile di quanto era andato maturando per tutto l'Ottocento nella maggior parte della penisola e, in modo particolare, proprio nella città lagunare, fu la creazione della Biennale veneziana nel 1895, <<prima apertura dell'arte italiana in uno scenario europeo>>[1]. Al fianco della Biennale e con essa, comunque sia, sempre in continua relazione, Venezia vide sorgere Ca' Pesaro, altra istituzione cittadina dal cui studio non può prescindere chi vuole affrontare l'arte italiana dei primi anni del XX secolo.

  Per un decennio almeno, sulla Venezia della Biennale e di Ca' Pesaro, e sulle loro prime accese polemiche, si concentrarono le attenzioni dell'arte e della critica italiana più accorte. Ed è impensabile, come per molti altri artisti dell'epoca attivi in città, affrontare la personalità creativa di Vittorio Zecchin prescindendo da tutto ciò. Anche perché solo così è possibile una rilettura di tutta la sua variegata e varia opera, riscattandola da quell'appellativo, talvolta tanto ricorrente, di mera decorazione per farla essere ciò che veramente è stata: arte moderna e, sotto più aspetti, arte estremamente innovativa. Sia in pittura quanto e soprattutto nelle arti applicate, si legge sempre in Zecchin la concreta volontà di voler dare un forte e profondo scossone all'arte e all'artigianato locali, arenati allora in un'oramai attardata cultura ottocentesca. Molto più d’altri artisti dell'epoca, egli assunse ben presto il ruolo, allora moderno, d’artista-designer, dando certo il suo maggior contributo nell'ambito della produzione vetraria muranese. E, a ben pensarci, l'operare secondo una logica che conduceva al design in Zecchin si manifestò assai precocemente, in piena sintonia con quanto fecero altri artisti in Italia e soprattutto all'estero (e in contesti sicuramente più avanzati anche a livello industriale); tant'è vero che le sue decorazioni pittoriche di maggior rilievo furono concepite non fine a se stesse, cioè come semplici pitture da cavalletto, bensì in funzione del luogo in cui dovevano essere collocate: gran parte del fascino della sua pittura sta nel riallacciarsi idealmente ai teleri dei grandi cicli decorativi della gloriosa tradizione pittorica veneziana ed inserirvi, concependola appositamente in funzione del luogo che andrà a decorare, la sua elegante e raffinata poesia figurativa elaborata su di una complessa sorprendente e stupefacente architettura del colore, che fa evadere la nostra immaginazione in un mondo incantato, ricco di tutta un'originale, fiabesca simbologia.

  Fu il suo modo, in pittura, di reagire alla tradizione accademica e di maturare gradualmente una forma mentis creativa che lo portò con decisione alle arti applicate, operando in un ambiente artistico, quello di Ca' Pesaro, alle cui vicende e vicissitudini egli fu sempre profondamente legato, cosciente, inoltre, di lavorare inserito in un gruppo d'artisti che non fu mai cristallizzato in un preciso movimento artistico e che, forse proprio per questo, fu più aperto a quanto succedeva in Europa andando, come portata, ben oltre i confini naturali d'un agglomerato d’isole, accettando, affiancando e corroborando le nuove tendenze artistiche di tutta una nazione.

 

  Nato a Murano il 21 maggio del 1878, Vittorio Zecchin fu uno di quegli artisti la cui terra d'origine, la bella isola del vetro, la città e la laguna, <<Catedral/ che ga per sofito/ el cielo/ e per altar Venezia>>[2], rappresentarono un legame tanto abbarbicato nel suo animo da leggersi a piene lettere in ogni sua opera. E la sua opera perderebbe di significato, cadrebbe davvero nella mera decorazione, se la si immaginasse al di fuori del contesto veneziano.

  In essa vi è il continuo riflettersi di una Venezia profondamente amata e profondamente sentita: l'incanto magico, fatato, di una città da "mille e una notte"; la trasparenza, il riflesso e il luccichio dell'acqua; le raffinate eleganze di una cortigiana piegata <<sotto la pompa dei suoi monili>>[3]; la laguna misteriosa che fa <<specio a le stele>>[4]; il grande passato artistico, pittorico, dove più che il Veronese si sente l'intenso cromatismo vivarianiano e l'incanto magico dei marmi e dei mosaici bizantineggianti.

  Nelle sue opere si scorge una visione mistica, fiabesca, s'è detto, della vita, quasi una fuga in un paradiso perduto, in una Venezia da sogno. Un’evasione che trovò, però, nella cultura artistica lagunare d'inizio secolo il suo naturale insediamento, dando così vita ad un progressivo reinserimento del sogno nella realtà, concreta e pratica, dei più diversi settori artigianali riportati a proporre i tradizionali oggetti d'uso comune come vere e proprie opere d'arte.

  Figlio di un vetraio muranese, Luigi, nei primi anni di vita il giovane Zecchin ebbe un diretto contatto con l'arte che rese la sua isola famosa in tutto il mondo. Un contatto che, se da un lato poteva esaltare la fantasia e la gioia di un bambino nel vedere creare con un soffio un oggetto dalle magiche trasparenze (quanto meno incantate sarebbero state le sue pitture altrimenti!), dall'altro gli permise d'avere una giovanile cognizione dei problemi e delle difficoltà di un settore artigianale ancora fortemente legato ad una gloriosa tradizione secolare, che ne rappresentava il vincolo stesso. Vivendo e crescendo dentro, sin da bambino, al mestiere di vetraio ben poté rendersi conto dei limiti e delle potenzialità di un’attività ricca di creatività e, cosa molto importante, intuirne le principali difficoltà pratiche[5]. Poté sentire la doppia valenza della ripresa di un settore artigianale che ben rifletteva l'andamento generale di tutta una cultura divenuta provinciale: una crisi produttiva superata in parte dal punto di vista quantitativo e di conseguente riscontro economico, e un perdurare di crisi qualitativa che costringeva l'arte del vetro, per i più, ad un’attività essenzialmente artigianale[6].

  Fu attraverso l'artigianato della sua isola che Zecchin, dunque, mosse i suoi primi passi nell'arte ed è attraverso questa chiave di lettura che devono essere viste oggi le sue diverse esperienze artistiche. Il suo ritorno alle arti applicate, mai dimenticate nemmeno quando i suoi interessi erano prevalentemente rivolti alla sola pittura, fu la naturale conseguenza del suo animo artistico, che vedeva chiaro, per una tradizione quasi congenita in un giovane cresciuto a Murano, lo stretto legame tra arte ed artigianato e sentiva forte l'esigenza di rompere le barriere di quanto aveva fatto sì che l'una fosse più elevata e nobile dell'altra. Il connubio tra le arti cosiddette maggiori e minori individuabile in ogni espressione dell'Art Nouveau, di quel "Stile Novo" o "Stile Moderno" o semplicemente, in Italia, Liberty, che nell'Inghilterra di John Ruskin e di William Morris aveva trovato, teoricamente e praticamente, le sue prime concrete applicazioni, in Vittorio Zecchin dovette essere una realtà oltre la quale l'arte stessa quasi non sarebbe potuta esistere: egli faceva parte di quegli artisti per i quali si può quasi affermare che non vi fu una vera evoluzione verso ciò che allora si intendeva per modernismo, poiché esso era tanto innato ed insito nel loro animo da essere per loro l'unica vera manifestazione artistica. Non fu casuale, infatti, se sin da giovane egli sentì la crisi dell'artigianato, dell'arte della sua isola, e a questa reagì.

  Certo non poté focalizzare subito le motivazioni di quella diffusa inquietudine ed incertezza che accompagnarono i suoi primi passi nell'arte, ma di ciò ne subì le conseguenze. La famiglia lo costrinse ad intraprendere studi tecnici, quando egli forse avrebbe preferito seguire le orme del padre. Modo, questo, per allontanare il figlio da un lavoro artigianale che più di tanto non prometteva e vero sintomo di crisi interiore di un'arte. Alla frequentazione degli studi tecnici, Zecchin s'oppose con impeto tutto giovanile e, come ricorda Vittorio Pica, <<più che alle sue esortazioni verbali, lo dovette alla sua scoraggiante ed incorreggibile svogliatezza addimostrate>>[7] se i suoi genitori gli permisero di iscriversi, nel 1894, all'Accademia di Belle Arti della città.

 

  L'ambiente artistico dell'Accademia che il giovane Zecchin incontrò, presentava lo stesso scenario da "pomposo teatro", visto in chiave didattica, che caratterizzava la mondanità salottiera dei palazzi alla moda, della Piazza e dei Giardini (dal 1895)[8] di una città che viveva ormai essenzialmente del proprio passato e che pur si stava preparando ad entrare nel nuovo secolo.

  Se la stessa penisola italiana, per tutto l'Ottocento, fu provincia, e non solo per l'arte, Venezia rappresentò sicuramente uno tra gli esempi più emblematici del perdurare d'una tradizione secolare profondamente radicata in ogni sua espressione artistica o d’altro genere.

  All'Accademia, Zecchin mostrò infatti poco interesse per coloro che furono i caposcuola dell'arte veneziana di fine Ottocento. Nel 1897, ad esempio, seguì un corso sul paesaggio tenuto da Guglielmo Ciardi, ma a fine anno non si presentò agli esami. Fu probabilmente più interessato alla spiegazioni di un "decoratore" come Augusto Sezanne, che si dilungava sovente sulle particolarità tecniche ed esecutive delle arti maggiori applicate (e applicate anche al vetro[9]), tant'è vero che per due anni, a partire dal 1899, fu ammesso e premiato al corso di Speciale Ornato tenuto dallo stesso Sezanne.

  In pittura, egli fu soprattutto un grande decoratore e fu attraverso queste ricerche figurative che giunse gradualmente alle arti applicate. Come l'Accademia fu un'esperienza essenzialmente didattica, anche la pittura, in un certo senso, per anni lo impegnò a sperimentare soluzioni formali e compositive destinate poi a stare alla base delle successive invenzioni create per stoffe, mobili, vetri o mosaici. La stilizzazione di figure e d’oggetti cui arrivò in pittura, oltre a permettergli d'andar oltre la tradizione pittorica ottocentesca, fu la via che gli permise di trasferire gli stessi temi su superfici innanzitutto diverse dalla tela, e che quindi pure tecnicamente richiedevano di per se stesse, per forza di cose, determinate soluzioni; poi, che giustificasse figurativamente soluzioni tanto di contenuto quanto di forma il cui scopo era l'utilità decorativa, la raffinatezza ed eleganza compositiva legata al contesto reale che doveva accoglierla. Il contenuto delle sue opere, pertanto, in stretto rapporto con le soluzioni formali adoperate, era elaborarlo attraverso invenzioni fantastiche e fiabesche, ma ideate in funzione sempre di un contesto di decoro e d’arredo per un suo pratico inserimento in una realtà applicativa e vivibile. In un certo senso, alla luce delle sue successive realizzazioni nel campo delle arti applicate, egli si servì della pittura, o almeno di certe sue opere pittoriche, così come un pittore si serve del disegno, uno scultore del bozzetto o un architetto del progetto. E basta sfogliare le opere pittoriche presentate in questo catalogo e confrontarle con alcuni vetri, stoffe, arazzi, mosaici ed altro ancora, pubblicati nelle apposite sezioni, per farsene un’idea piuttosto precisa. Zecchin entrò nel "sogno" attraverso invenzioni fantastiche della realtà, seppur mai così totalmente chiuse in un universo a sé da dover rompere definitivamente con la realtà stessa, perché era in questa, alla fine, che esse dovevano trovare la loro collocazione e a questa, quindi, tornavano ad essere legate. In ultima analisi, il percorso seguito da Zecchin per liberarsi dalle pastoie di una cultura ottocentesca divenuta anacronistica, non fu poi così diverso da quello che altri artisti avevano intrapreso, pur per vie differenti.

  All'interno delle sale dell'Accademia, trovò solo parzialmente un ambiente per egli veramente vivo di creatività, come quello che troverà negli spazi di Palazzo Pesaro. La cultura figurativa veneziana di fine-inizio secolo, per le nuove generazioni rappresentò una "realtà" da superare, vuoi nella direzione del simbolo, vuoi in una più radicale impostazione della sua stessa struttura formale e di contenuto. Le nuove istanze liberty, che nell'ultimo decennio del XIX secolo si erano così rapidamente affermate e diffuse anche in Italia, servirono a molti artisti per liberarsi dall'"Ottocento" ed entrare nel "modernismo" di un'epoca nuova. Molti dei pittori dell'Ottocento, al volger del nuovo secolo, ed oltre, avevano tentato, tuttavia senza validi risultati, una forma d'aggiornamento della loro arte attraverso l'adozione, ad esempio, di stilemi simbolisti, di una pennellata di derivazione divisionista, o per lo meno pastosa e bozzettistica, e talvolta di sinuosità formali apertamente liberty. In ultima analisi, però, la maggior parte degli artisti, e dei loro epigoni, che a Venezia (e nel suo entroterra) furono i protagonisti della splendida stagione del Verismo veneto (che ebbe il suo culmine tra la seconda metà dell'ottavo e la prima metà dell'ultimo decennio del secolo), rimasero sempre legati ad una cultura figurativa che nel giro di pochi anni era stata esteticamente sorpassata, anche per l'imporsi di nuove esigenze figurative capaci di cogliere quelle trasformazioni sociali oramai fattesi incalzanti pure in Italia. La cultura figurativa ottocentesca, sopravvissuta e portata con decisione nel nuovo secolo da parte di un ceto sociale, quello più rigidamente conservatore, che di essa ne aveva fatto quasi un emblema, per le nuove generazioni divenne ben presto l'ostacolo principale da dover superare per poter fare "arte moderna". L'Accademia veneziana, nelle sue sale, insegnava arte dell'Ottocento e le Biennali, salvo sporadiche apparizioni o solitarie eccezioni, almeno fino all'avvento di Vittorio Pica a capo della segreteria generale (e siamo nel 1920!), la esponevano, scovandola non solo in Italia, ma anche all'estero. Così, le Esposizioni dei Giardini si rivelarono subito essere, al di là del clima artificiosamente estetizzante, "celebrazioni" artistiche dalla duplice valenza. Da un lato, rappresentarono la finestra aperta sul panorama artistico europeo tanto agognata dall'Italia intera; dall'altro, però, e basta sfogliarne i primi cataloghi e scorrere l'elenco delle personalità invitate, la Biennale rappresentò la principale istituzione italiana alla quale fu demandato il compito di avallare un indirizzo social-artistico che doveva consolidare la cultura figurativa di una ben determinata classe dirigente. La risoluta cernita artistica che le Biennali esercitarono non può, per chi scrive, essere semplicemente considerata un errore di scelta o una ristrettezza di vedute e <<la storia delle prime>> Esposizioni semplicemente <<la storia delle occasioni mancate>>[10]: fu un deciso tentativo, ben consapevole, di far sopravvivere un tradizionalismo artistico che era anche l'unico, nelle sue mille sfaccettature, a poter essere acclamato da una società, in fondo, di derivazione o di valenza ancora aristocratica, che allora gestiva, a tutti gli effetti, l'organizzazione dell'Istituzione stessa. Non fu solo la scelta di una cultura che non poteva vedere oltre la propria concezione, ma fu pure una volontà di scelta ben precisa, che impediva di andare al di là di una tradizione che altrimenti avrebbe portato a rinnegare tutti quei valori che costituivano le colonne portanti di un determinato modo di vivere, con tutti i suoi privilegi di casta sociale. Tutto quanto avvenne a Venezia a cavallo del secolo, dimostra come a scontrarsi furono, sotto i gonfaloni di uno o dell'altro artista o gruppo d'artisti, due culture il cui compromesso non era assolutamente facile da raggiungere perché l'esistenza di una stava agli antipodi dell'esistenza dell'altra: una doveva ritardare quanto più la nascita dell'altra, la quale non sarebbe potuta sorgere se non dalle ceneri della prima. La cultura ufficiale acclamava quel genere d'arte che, comunque fosse, poneva una netta separazione tra i ceti sociali più abbienti e quelli più poveri: accettava i soggetti più disparati, anche nell'ambito di un tardo Realismo a carattere sociale, quando questo metteva a fuoco, talvolta con risvolti pietistico-sdolcinati e quasi sempre infarciti di romanticismi, la squallore e la miseria del popolo, purché, però, da esso se ne mantenesse le distanze, per cui, quell'inevitabile senso di colpa che a livello più o meno cosciente gravava sull'animo delle classi più ricche fosse risolto col gesto catartico, ad esempio, dell'elemosina, com'era nella raffigurazione di molti dipinti dell'epoca. Allo stesso modo si potevano accettare espressioni artistico-letterarie come il Decadentismo, soprattutto quanto il suo maggior esponente italiano era l'"aristocratissimo" e raffinatissimo Gabriele D'Annunzio; o anche scandali come quello del cosiddetto "quadro maledetto" della prima Biennale, il famoso Supremo convegno di Giacomo Grosso. Ma, per quella società elitaria, era ben difficile accettare anche solo certe espressioni del Divisionismo, specie quando si presentavano sotto le vesti del Quarto stato di Pelizza da Volpedo, e meno che mai potevano essere accettate, apertamente esposte alla Biennale e magari acquistate per essere esposte nella neo-nata Galleria Internazionale d'Arte Moderna della città quelle opere che, sebbene dipinte nell'Ottocento, all'estero avevano posto le basi davvero all'arte moderna. Per non parlare poi d'alcune avanguardie storiche, alle quali per molti anni la Biennale, salvo casi eccezionali, aveva praticamente chiuso le porte: caso emblematico, ed oggi incredibile, l'ostracismo, sin dal 1910, nei confronti di Pablo Picasso, la cui sua prima opera fu esposta solo nel 1948![11] Tuttavia, le manifestazioni delle prime Biennali, che furono <<uno spettacolo allora incomparabile>> di richiamo mondano <<nella cornice unica della città>>, esercitarono comunque un'attrazione fortissima sui giovani come Zecchin, <<lusingati di poter spaziare in campo internazionale e di far propri gli apporti che venivano di lontano, mentre c'era nell'aria un'attesa di rinnovamento, un anelito diffuso, per i più inspiegabile, non circostanziato e preciso; ma si attendeva la spinta dagli artisti 'ufficiali' dell'epoca, mentre il 'mondo nuovo' doveva apparire attraverso quegli artisti che ebbero il coraggio di rompere la cerchia>>[12]. E a far questo, a Venezia, furono gli artisti di Ca' Pesaro, dei quali Zecchin ne era uno dei componenti storici.

  Da questo punto di vista, inoltre, una sorta di compromesso giunse dal modernismo insito nell'Art Nouveau, perché esso si pose come ponte, come punto di passaggio e di contatto tra le due culture a confronto. A risolvere tutto, però, come la spietata spada dell'angelo giustiziere che pose fine all'Ottocento e aprì ufficialmente le porte al nuovo secolo, fu la Prima Guerra Mondiale che, parafrasando Gozzano, dopo i primi “entusiasmi” <<si ritolse tutte le sue promesse>>[13].

  Le conseguenze di questa situazione di fervore ed inquietudine artistico-sociale, portarono nel giovane Zecchin le incertezze che lo costrinsero a ritardare, di anno in anno, la sua piena dedizione all'arte. Già da bambino fu spinto ad abbandonare l'arte del vetro proprio perché questo settore, diventato solo d'"artigianato", poco garantiva agiatezza e tranquillità economica. Anche all'Accademia, si sentì probabilmente sopraffatto da imposizioni che ponevano all'arte vincoli paragonabili a quelli visti a Murano per il vetro. Così, avendo alle spalle una famiglia sempre scontenta della sua scelta, alla fine dell'anno accademico del 1901, non si presentò agli esami e abbandonò definitivamente l'Accademia senza mai diplomarsi. Trovò, allora, per alcuni mesi lavoro come impiegato al comune di Murano, che era municipio indipendente da Venezia. Gli anni che seguirono furono un periodo, se pur breve, durante il quale egli trascurò la sua vocazione artistica dedicandosi alla ricerca di un lavoro come tanti altri, che gli permettesse di vivere. Dopo l'impiego al comune, lavorò per qualche anno in una delle tante officine vetrarie dell'isola, sentendosi per la prima volta personalmente coinvolto in una realtà artigianale che ora poteva valutare direttamente dall'interno.

 

  Praticamente nulla si sa delle sue primissime opere, ed è lecito supporre che poco si scostassero da quelli che erano allora gli insegnamenti accademici. Tra i suoi primi lavori noti, l'Autoritratto (tav. 2), dipinto verso il 1903, volutamente abbozzato e non concluso, è un'opera che mostra già una notevole qualità esecutiva e, se da un lato inevitabilmente risente della contemporanea pittura veneziana, come per la luce, ad esempio, che colpendo da destra, dà vita a bagliori limpidi e freschi simili a quelli che si scorgono nelle parti in sole di alcune opere di Guglielmo Ciardi, e che son forse il risultato delle ore di lezione sul paesaggio seguite all'Accademia, nel suo insieme respira un'atmosfera più moderna, di stampo secessionista nella direzione mitteleuropea, in questo momento forse più tedesca che austriaca. Vi si riscontrano soluzioni di un certo schematismo nel trattare le forme e un impianto compositivo che, nella rigida frontalità della figura, sembra già prepararsi ad accogliere stilemi d'ispirazione simbolista. Non è trascurata l'indagine psicologica, e tanto meno è trascurato il tentativo d'esprimere uno stato d'animo che va al di là delle apparenze, per alludere quasi ad un vago senso interiore di tormento. Sono suggerimenti figurativi filtrati con ogni probabilità dalla visione delle opere esposte alla Biennale che, proprio nel 1903, aveva presentato la Mostra Internazionale del Ritratto Moderno e due anni prima una mostra personale di 12 dipinti di Arnold Böcklin. D'impianto decisamente più simbolista, e databili all'incirca allo stesso momento, sono anche le due tele raffiguranti rispettivamente un Suonatore di Flauto (tav. 1) e una Figura in meditazione (tav. 3). La prima, spiccatamente simbolista nel soggetto, caratterizzato da un taglio compositivo impreziosito dal lembo orizzontale dello sfondo dorato, volutamente messo in contrasto cromatico con la parte scura inferiore, che copre gran parte della superficie facendo così risaltare, con grande valenza semantica, la solitaria e delicata figura del suonatore, è immersa in una cultura alquanto innovativa per la Venezia di quegli anni e pare essere una citazione piuttosto puntuale di un particolare dell'opera raffigurante un paesaggio marino con ninfa e Pan oggi conservata nella villa di Monaco di Franz von Stuck, artista che fu presente in più occasioni alle Biennali: nel 1907, partecipò alla mostra internazionale de' "L'Arte del sogno" (che tra i suoi curatori ebbe anche Galileo Chini) e, nel 1909, ebbe una personale di 31 dipinti e 4 sculture. L'altra opera, nella quale si percepisce una suggestione particolare di una dimensione esistenziale che prelude, per certi versi, alla ricerca onirica, fiabesca dei suoi successivi lavori, appare anch'essa apertamente e sintomaticamente ispirata alla cultura secessionista mitteleuropea. Per questa via, Zecchin preparò le basi sulle quali innalzò poi le sue cattedrali pittoriche: fece proprio un genere artistico dalle molteplici sfumature, nel quale si conciliava una sorta di evasione dalla realtà verso il mondo del simbolo con una pittura disposta ad accostarsi agli stilemi di un pacato e raffinato gusto orientaleggiante[14].

  Sin dagli esordi, egli si mostrò quindi piuttosto libero dalle pastoie e dai virtuosismi romantici del tardo Realismo Ottocentesco, accostandosi a quella che era in fondo la tendenza dominante di un certo tipo di cultura lagunare, quella, se si vuole, più internazionale e che le prime Biennali stesse portarono avanti. L'apertura europea, infatti, anche per precisi legami storici, intrapresa dalla città con le Esposizioni dei Giardini aveva seguito, come lo stesso Bartolomeo Bezzi aveva suggerito, più l'indirizzo della Germania e di Vienna che quello francese dell'Impressionismo e del postimpressionismo, seppure alla Biennale vi furono sovente presenze francesi (ma anche preraffaellite, o di gusto preraffaellita, e sicuramente molte aperture verso la stilizzazione lineare tipica dell'Art Nouveau). Artisti quali Cesare Laurenti, Ettore Tito o Mario De Maria, ma pure Teodoro Wolf Ferrari, Guido Cadorin o Felice Casorati, solo per citarne alcuni, avevano prestato particolari e precise attenzioni all'arte secessionista di stampo mitteleuropeo.

  La volontà di distaccarsi dal tradizionalismo ottocentesco, Zecchin la manifestò anche con la caricatura. Pur riallacciandosi ad una certa tradizione veneziana (Anton Maria Zanetti, Teipolo), la caricatura gli servì per liberarsi dal dover per forza, pur partendo dal reale, imitare il reale, dandogli la possibilità di spaziare, soprattutto formalmente, con più facilità verso le invenzioni della fantasia. E, a tal proposito, è interessante un accostamento con alcuni lavori simili che anche Arturo Martini, all'incirca nello stesso momento, andava realizzando per prendere le distanze dalla cultura ufficiale.

  In questi anni, o poco dopo, inoltre, Zecchin dà vita ad una serie di piccoli quadretti dalle soluzioni figurative più convenzionali, anch'essi però, talvolta, risolti con uno spirito creativo del tutto moderno, in tutto e per tutto immerso nella nuova cultura liberty. Affascinante a tal proposito, e simbolisticamente sfuggente, è la figura di Dama su divano (tav. 4), risolta nella positura in modo, se si vuole, boldiniano, o forse meglio alla maniera di Lino Selvatico, ma con fiammanti cromatismi e abbaglianti accensioni di luce da ricordare Moreau o Redon, mostrando già quella sensibilità coloristica che caratterizzò tante sue successive opere.

 

  Un incontro fondamentale per la sua arte, fu certo quello con i dipinti di Gustav Klimt alla Biennale del 1910. Prima però, alla Biennale del 1905, un'altro gruppo di opere affascinò Zecchin in modo tanto particolare e così profondamente da far sì che le successive influenze klimtiane fossero recepite con un'originalità tutta sua, soprattutto nella tessitura del colore: nelle sale olandesi furono esposti quattro dipinti e diversi disegni ed incisioni di Jan Toorop, pittore dal mistico esotismo che fu, come annota Vittorio Pica nella presentazione alla mostra di Zecchin del 1923 a Milano[15], una vera rivelazione. <<Jan Toorop, oriundo dell'isola di Giava nelle Indie Olandesi, aveva tutte le qualità per accendere la fantasia di Zecchin: era nato in Oriente e attraverso l'impressionismo fiammingo di Ensor e l'astrazione di Seurat aveva trovato la via al simbolismo letterario che si accosta alla poesia di Maeterlinck e di Verhaeren>>[16]. L'ondulata sinuosità della linea nei lavori di Jan Toorop, e in modo particolare di un'opera come Le tre spose, fu la vera tentazione che sedusse Zecchin. Finalmente, aveva trovato un linguaggio artistico che ben poteva conciliare l'attrazione del sogno orientale (che caratterizzò l'intera epoca) con il suo modo di vedere e sentire l'esotismo, ovvero attraverso la millenaria tradizione delle sua città e in modo particolare della sua isola. Le soluzioni suggerite dal pittore olandese, si prestavano ad una lettura che poteva essere accostata alle opere che sin da bambino avevano incantato e acceso la sua fantasia: le patere, le vetrate, i mosaici, tante volte ammirati nelle chiese di San Pietro e di San Donato a Murano, trovavano un loro senso nella sinuosità delle linee armoniche, dalle esasperate ondulazioni serpentine, delle composizioni dell'artista giavanese. Una linea che poteva contornare e coronare soluzioni cromatiche accese e che, ai suoi occhi, doveva mostrare assonanze ed incisività avvicinabili al disegno nelle opere dei Vivarini: pittori di Murano da egli sempre ammirati. Ancora, Toorop rappresentò agli occhi di Zecchin quel punto fondamentale di passaggio tra le influenze secessioniste, di cui s'è detto (comprese quelle dei padiglioni dell'Ungheria alla Biennale), e un universo dove il simbolo era inteso come mezzo di evasione in un’artificiosità diretta più verso una dimensione onirica ed immaginaria del mondo oggettivo, che verso una sensuale ed inquieta, sofferta fuga nella scoperta delle travagliate sensazioni emotive interiori.

  Zecchin, entrò così nell'atmosfera di un sogno mistico rimasto sino ad allora latente. Attuò nelle sue opere una progressiva stilizzazione della forma attraverso una linea capace di racchiudere colori dalle calde e vitree trasparenze, inventando composizioni che furono sì debitrici nei confronti di una cultura che giungeva dall'esterno, ma che egli seppe far propria, permeandola di un simbolismo intimo e spirituale, d'ispirazione mistica, romantica e quasi preraffaellita, e che seppe proporre e sviluppare in una città come Venezia, nella quale si continuava ad accettare ufficialmente solo una cultura figurativa di stampo ottocentesco.

  Il merito di Zecchin, anche quando subì l'influenza di Klimt, fu quello d'aver saputo uscire dalle pastoie di una cultura anacronistica oramai anche per la sua stessa città e cercare, per una via suggerita ma che seppe adattare al contesto artistico lagunare, d'entrare in una concezione artistica più moderna e, nel suo genere in questi primi anni, praticamente unica in città, che lo condusse con grande coscienza critica alle arti applicate.

  Nascono, allora, tutto un gruppo di opere sorprendenti per l'impianto compositivo, per la ricerca cromatica e per la stilizzazione figurativa, oramai pienamente liberty. Di esse, ci rimangono principalmente squisiti bozzetti, eseguiti con una pennellata decisa e frizzante, ricca di cromatismi sorretti da una schematizzazione formale delle figure e dell'ambiente che da noi non ha precedenti, e che pur tuttavia, con quell'aspetto vitreo e fiammante della materia pittorica, quasi da fucina muranese, si ricollegano per via diretta ai cromatismi della Venezia tardo-medievale e quattrocentesca. Le opere riprodotte alle tavole XXXXX, sono composizioni che affrontano una simbologia di contenuto apertamente mistica, incantata, già votata alla favola; realizzate con una raffinatezza ed un'eleganza sublime nel trattare soggetti che ripongono il loro fascino nel recupero, gestuale e cromatico, di una fantasia rituale primitiva e orientaleggiante, che sembra voler riportare alla stato di coscienza sacralità ataviche di una civiltà che giace latente nelle zone nere della nostra memoria. Le titolazioni stesse di molte opere eseguite in questi anni, come quelle presentate alle mostre di Ca' Pesaro (sebbene, non essendoci dei veri e propri cataloghi, di esse si sappia ben poco), sono alquanto sintomatiche a tal proposito: Visioni, Le vergini del fuoco, Impressione, Angelicus, Libellule, Le vergini degli alberi, Pavoni, Silenzio. Le prime quattro, furono quelle esposte alla mostra estiva di Ca' Pesaro del 1909, le altre, assieme ad un bozzetto, quelle esposte alla mostra autunnale.

 

  Se per i giovani artisti la Biennale rappresentava, come s'è detto, la ritardata cultura ufficiale alla quale si doveva reagire, le Esposizione dei Giardini restavano pur sempre, nonostante tutto, il luogo più ambito dove esporre, ma inevitabilmente chiuso alla maggior parte di loro. L'importanza di Ca' Pesaro sta nell'aver aperto loro le porte con esposizioni che ben presto iniziarono a contrastare, sempre più apertamente e sempre più polemicamente, fino alla scoppio della guerra, la chiusura artistica propugnata dalle Biennali. Grazie al lascito testamentario dell'accorta duchessa Felicita Bevilacqua La Masa, nel 1899 il Comune di Venezia veniva in possesso della poderosa mole longheniana di Palazzo Pesaro a patto, però, che, tra le altre condizioni, là si tenessero <<esposizioni permanenti di arte ed industrie veneziane. [...]specie per i giovani artisti, ai quali è spesso interdetto l'ingresso alle grandi mostre, per cui sconosciuti e sfiduciati non hanno i mezzi da farsi avanti e sono sovente costretti a cedere i loro lavori a rivenduglioli ed incettatori che sono i loro vampiri>>[17]. Nel 1907, il giovane ferrarese Nino Barbantini vinse il concorso per la direzione della Galleria Internazionale d'Arte Moderna, che prevedeva anche la funzione di segretario della "Fondazione Bevilacqua La Masa". E già nel 1908, riuscì ad allestire le prime due mostre: <<con una mossa abile e intelligente, Barbantini aveva fatto “invitare” anche artisti allora già molto noti come Guglielmo Ciardi, Pietro Fragiacomo, Cesare Laurenti, Alessandro Milesi e altri. [...]si preoccupava perciò di pubblicizzare le mostre>>[18]. A partire dalle mostre del 1909, Ca' Pesaro iniziò ad accogliere quella ventata di gioventù i cui rappresentanti, e tra loro v'era anche Vittorio Zecchin, furono davvero tra gli antesignani dell'arte italiana moderna.

  Il 1910, fu un anno estremamente importante. Importante per le mostre palatine perché, come ricorda direttamente Barbantini,<<i fasti di Ca' Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando... la staffetta della gioventù, anzi la gioventù in persona [bussò] alla nostra porta>>[19]; ed importante anche perché le sale di Ca' Pesaro ospitarono la personale "futurista" di Umberto Boccioni (la sua prima mostra in assoluto), con tutto il <<rumoroso battage pubblicitario organizzato da Marinetti>>[20] ed il clamore del lancio dei volantini contro la "Venezia passatista"[21]. Importante per la Biennale che, anticipata di un anno per evitare la concomitanza con l'esposizione internazionale di Roma del 1911, presentò tre interessanti mostre: la retrospettiva di Courbet, la personale di Renoir e l'individuale di Klimt[22], che furono uno spiraglio di novità e speranze[23] per i giovani artisti ed intellettuali dell'epoca[24] (la Biennale, però, mostrò una chiusura ancora forte nei confronti della nuova arte[25], particolarmente accentuata proprio perché quell'anno furono soppresse le sale regionali ed istituita la "Sala della gioventù"[26]).

  Il 1910 fu un anno importante anche per Vittorio Zecchin. Le opere presentate alla mostra primaverile di Ca' Pesaro, non tutte identificate con certezza, dovevano vivere ancora del seducente ed orientaleggiante fascino tooroppiano, come i su citati bozzetti. Tuttavia, anche dalla sola loro titolazione, Getzemani, I.N.R.I., Gli angeli che difendono il Paradiso Terrestre e Mattino, s'intuisce subito come la sua non fu una pedissequa ripresa di quegli stilemi figurativi, in quanto si sforzò di rielaborarli e reinserirli in un contesto tutto nostro: quello della mitologia cristiana. Il dipinto Getzemani (tav. 11), ad esempio, del quale oggi si è rintracciato solo uno studio per la figura del Cristo (tav. 12), mostra chiaramente questo sforzo, non solo a livello formale, ma anche a livello contenutistico. Egli inventò un'icnografia figurativa estremamente originale e d'effetto, che si prestava a tradurre un soggetto religioso letto in chiave estremamente intellettualistica e dal complesso misticismo simbolico-spirituale. E l'ardire compositivo di questa raffigurazione è sorprende per la forza icastica che riesce a trasmettere con la spettrale figura del Cristo, che domina la scena, e con quelle ascendenti "fiammelle" femminili che come fiori s'innalzano sulla sinistra, a contrastare il ritmo zigzagato di quelle dall'altro lato, risolte con una forte valenza di macabra simbologia, che tocca vertici di un espressionismo alla Ensor nello straziante urlo del teschio in basso a destra, quasi a voler sottolineare l'importanza "cristologica" della raffigurazione attraverso una forza icastica paragonabile alle stesse parole del Vangelo: <<Ma tutto è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti>>, <<Si adempiano dunque le Scritture!>>, <<Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre>>. Così facendo, una volta ancora, si ricollega alla tradizione artistica veneziana del passato, quella della sacralità medievale, quella della macabra simbologia del Carpaccio di San Giorgio degli Schiavoni.

 

  La visione delle opere di Gustav Klimt alla Biennale del 1910, segnò un momento fondamentale nello sviluppo artistico di Vittorio Zecchin. Come per le opere di Toorop, pure le opere di Klimt furono una rivelazione e allo stesso tempo una conferma e un incentivo a continuare una ricerca espressiva che aveva già manifestato il proprio indirizzo poetico. Klimt si presentava con tutto il fascino di un'estetica raffinata all'inverosimile, dove vivevano, in armonia assoluta, Oriente mistico e Occidente secessionista, dramma e gioia icastica, felicità d'esecuzione ed evasione allusiva in un universo di fantastiche invenzioni, tanto ricercate da trasformare la realtà da cui traevano spunto in sentita visione onirica saldamente legata al più profondo essere dell'introspezione umana. <<Nella pittura e nella decorazione Klimt sovrasta tutti. Era l''astro artificiale', come lo definiva Boccioni, contrario del suo successo, ma la qualità dell'artificio andava ai limiti della fantasia tra astrazione e decorazione pura. Zecchin non sente in Klimt l'atmosfera di decadentismo che circonda l'arte del pittore viennese, quella dissolvenza della forma, che porta un'immagine quasi sensitiva di languori trasognati, di profumi d'Oriente dal sapore dolcissimo e velenoso, di quell'estetismo che vari aspetti della moda fecero proprio. Zecchin è dotato d'un candore d'eccezione, non ha nessun aspetto di 'poète maudit'... L'artista coglie da Klimt e fa tutto suo il ritmo musicale della linea ad arabesco e l'incanto del colore, esaltato in bagliori vitrei e splendenti lontano da ogni immediato riferimento alla realtà contingente>>[27]. La lettura che Zecchin seppe fare delle opere di Klimt, e che gli pesò a lungo l'appellativo di "klimtiano" per le sue, fu quella di una stilizzazione estremamente accentuata ed affascinante che era ad un tempo astrazione e decorazione, e che ben presto sentì di poter trasportare nella arti applicate. Ed era, in fondo, quello che aveva fatto anche Klimt all'interno della Wiener Werkstätte! In questo senso, Zecchin sì, si avvicino a Klimt molto di più di altri artisti italiani, che furono klimtiani dopo la Biennale del 1910. Tuttavia, egli seppe cogliere da klimt quegli stimoli che lo portarono con decisioni alle arti applicate, vedendo chiaramente quel "decorativismo" come una traduzione linguistica del figurativo necessaria affinché certe forme potessero essere inserite nei diversi campi applicativi delle cosiddette arti minori.

  Klimt non fu un punto di partenza per un epigonismo decorativo fine a se stesso: fu il vertice a cui un certo tipo di arte poteva aspirare. Zecchin, attraverso le esperienze fatte, s'era lentamente avvicinato e aveva assimilato un linguaggio poetico dal sapore bizantineggiante che, in un certo senso, preludeva all'incontro con le opere di Klimt. Klimt fu una rivelazione, ma una rivelazione annunciata; s'inserì come l'inevitabile tappa che l'arte del nostro doveva affrontare per raggiungere una propria maturità figurativa; maturità che più volte dovette farlo meditare sul proprio lavoro con acuto senso critico. Dalle opere di Klimt, egli non assimilò quel senso di disfacimento ed esaltazione sensuale della malattia fin-de-siècle nell'età dell'oro dell'insicurezza di una Vienna che, al ritmo di Strauss, alzava i calici alla propria apocalypse joyeuse. Nemmeno Casorati, nelle influenze dell'artista austriaco, recepì e sviluppò le caratteristiche morbose che fecero dell'ignoto un universo anarchico da far paura, di cui la donna ne divenne la rappresentante indiscussa e Klimt la punta di diamante di quella stessa sensibilità rappresentativa. Il ritratto della Vienna a cavallo del secolo è il ritratto della donna ritratta, della femme fatale, della femme abominable, della figlia del tempo dell'insicurezza, della "donna = sensualità"[28], dell'"Enide" weiningeriana[29]; è il ritratto della città di Freud, della città dei suicidi, della città dello sfacelo di un impero: di tutto quanto a Venezia non esisteva. Non fu incapacità di Zecchin di comprendere l'indole più profonda delle opere di Klimt. Fu solo che Venezia non era Vienna. Egli colse di Klimt, traducendoli in un linguaggio tutto veneziano, quegli aspetti che più s'addicevano alla sua indole, che era ben più di quando dalle opere dell'artista viennese fu generalmente colto a Venezia nel 1910. Zecchin non fu un epigono klimtiano. Egli si servì di Klimt per giungere alle arti applicate in una Venezia che viveva una realtà tutta sua e che necessitava di nuova forza, capace di rigenerare l'arte in ogni sua manifestazione[30]. Sotto quest'ottica, Zecchin s'avvicinò molto più di altri alla generazione degli esteti dello Jung-Wein e di Hermann Bahr, agli artisti della secessione e delle architetture di Hoffmann e di Olbrich e, soprattutto, al progetto della Wiener Werkstätte.

 

  La produzione artistica di Zecchin dopo il 1910, appare spesso, almeno nelle opere più impegnate, intenta ad una ricerca di soluzioni dall'estrema eleganza e raffinatezza decorativa, dove il tema o il racconto, sovente riportato ad un bidimesionalismo degli spazi e dei volumi, fu usato come pretesto per sviluppare lavori che richiedevano una collocazione spaziale per trovare la loro più genuina giustificazione. Se guardiamo ad opere come il trittico della Salomè (tav. 15) o la Madonna e santi (tav. 14), ad esempio, togliendo loro quel legame con le arti applicate, allora sì, si rischia di trovarvi solo un elegante decorativismo pittorico fine a se stesso, un semplice epigonismo klimtiano. Ma, come fu per Le mille e una notte e soprattutto per molta sua produzione dallo scoppio della guerra in poi, se solo le pensiamo in relazione all'ambiente da decorare, magari reinterpretate in arazzi o in mosaici, si coglie allora un’importanza artistica maggiore, più moderna, più da designer che da solo pittore. E questa è una prima fondamentale considerazione. L'altra, è squisitamente artistica: se, ad esempio, Galileo Chini dà un'interpretazione toscana degli stimoli klimtiani, vale a dire nel senso della linea, cioè del disegno, Zecchin ne dà un'interpretazione tutta veneziana, cioè nel senso del colore. Tornando ad esaminare le opere alle tavole XXXXX, soprattutto nel trittico della Salomè, si coglie subito che l'originalità maggiore sta proprio nella “tramatura” del colore. Se le opere sono klimtiane nella composizione, sono estremamente e sorprendente veneziane nel colore. Ed è il colore che, in opere come queste, fa di lui un grande artista.

  Che l'interesse di Vittorio Zecchin già in questi anni fosse rivolto alle arti applicate, lo prova il catalogo della mostra di Ca' Pesaro del 1912 ed i suoi rapporti con il gruppo de' "L'Aratro", col cui principale fautore, il "secessionista" d'influenza monacense Teodoro Wolf Ferrari, il nostro iniziò un interessante sodalizio artistico. Così si legge nel catalogo: <<Un gruppo di artisti veneziani, persuasi dell'opportunità di ricondurre anche da noi tutte le manifestazioni dell'arte alla sua più genuina espressione, la decorazione, intendono sottomettersi a se stessi e la loro produzione ad una comune regola di armonia, pur restando fedeli ad una propria ispirazione. Le due sale organizzate al pianterreno di Palazzo Pesaro sono l'attuazione pratica di un primo tentativo in questo senso>>. La finalità era, dunque, rivolta alla rivalorizzazione delle arti minori. E fu nell'ambito di questi interessi e per lo stampo sempre più marcatamente secessionista preso da Ca' Pesaro, se anche Zecchin entrò in diretto contatto con altre realtà artistiche nazionali e straniere, tanto da fargli affermare in una lettera del novembre del 1912 all'amico Emilio Fuga: <<Varda, mi no go che speranze: intendi po' speranze che me possa riuscir i lavori che devo far per Roma - Vienna - Berlin - Monaco - Parigi; basta per carità: me vien le vertigini a mi e anca a ti. Ciò, co sto benedetto gruppo secessionista xe probabile far strada, data la forza e l'intraprendenza di Zanetti-Zilla. Ma... bisogna che i lavori vegna fora ben, e se... no? Patapunfete dalla cabianda>>. Da qui, le sue partecipazioni alle mostre della Secessione romana del 1913, del 1914 e del 1915 e a quella di Monaco del 1913, e sin da ora con un occhio di riguardo verso le arti decorative.

 

  Tra le opere più significative di questi anni, quella in questa sede proposta con il titolo di Perla orientale[31] (tav. 28), presenta un'invenzione compositiva d'un simbolismo di grande suggestione, dove la figura femminile che, come un prezioso idolo d'Oriente, emerge da un'atmosfera nebulosa, evanescente, pare dissolversi in una luce incantata, sapientemente ricamata dagli impercettibili vapori del fumo dell'incenso, decorato di mille bolle cerchiate, e da misurate gocce d'oro, anch'esse, come bolle di sapone, sospese nell'aria. Di grande eleganza e raffinatezza decorativa sono il tripode per l'incenso, i portacandele e le candele, elementi che, magistralmente impreziositi dall'impiego dell'oro, fanno da quinta di presentazione alla magia della "ri-velazione" e, contemporaneamente, ne regolano il ritmo. Un'atmosfera dall'analoga spiritualità, mistica e ricca di simbologie, si respira anche in lavori come Verso la luce (tav. 30)[32], Le tre principesse (tav. 32), il trittico delle Vergini del fuoco (tav. 31), o Convegno mistico (tav. 33); tutte opere nelle quali la componente klimtiana ha sicuramente un suo indubbio valore, ma che è reinterpretata e rielaborata con un'originalità compositiva e cromatica tutta di Zecchin. In Verso la luce, ad esempio, il decorativismo, magicamente immerso nel silenzio blu cobalto del cielo, è risolto con una riduzione bidimensionale dalla preziosità cromatica raffinata, ricca e squillante d’orror vacui nelle incastonature delle vesti dei Re Magi, pacata ed appena suggerita nel prato trapuntato e nella coda della cometa tutta ricamata d'oro. Di klimtiano non v'è null'altro se non il suggerimento dell'arabesco decorativo: l'atmosfera d'insieme, infatti, è molto più quella d'uno spiritualismo cristiano tutto, anche nel colore, veneziano; d'una venezianità rispettosa d'una simbologia tardo-medievale o di primo Rinascimento, come fu quella di alcune opere dei Vivarini, di Michele Giambono o delle, sebbene affollate, processioni del Carpaccio e di Gentile Bellini. Anche in opere d'ispirazione apparentemente più klimtiana, come Le vergini del fuoco, v'è un candore ed una purezza figurativa fatti di una valenza magica, ricca d'una forza icastica mistica e veneto-orientaleggiante, che nulla hanno a che vedere con le sensuali seduzioni di Klimt. La stessa fastosità decorativa del Convegno mistico, che già prelude alla complessa architettura cromatico-compositiva de’ Le mille e una notte, è risolta con un'immaginazione inventiva ispirata molto più ad una Venezia bizantino-orientaleggiante che alle rappresentazioni simboliche del decorativismo del geniale pittore austriaco. E così, dovette essere anche per la decorazione del Il giardino delle fate, tre pannelli dipinti per la sala che accoglieva le sue opere nell'importante e polemicamente "accesa" esposizione capesarina del 1913; lavoro memore, probabilmente, pure delle decorazioni eseguite da Galileo Chini per la Biennale.

  Di grande interesse, fu l'esperienza artistica a diretto contatto con le arti applicate vissuta al fianco di Teodoro Wolf Ferrari, che fu anche un suo primo vero ritorno all'universo artigianale dell'arte del vetro. I due artisti idearono una serie di murrine a vetro mosaico e di vetri, fatta realizzare dall'officina vetraria "Artisti Barovier" di Murano, con la quale si presentarono all'Esposizione d'arte decorativa di Monaco del 1913 e che, con ogni probabilità, fu presentata anche alla Biennale del 1914. Alcune opere di Zecchin realizzate in questo contesto, sono in assoluto tra quelle di maggior qualità artistica di tutta la sua attività. In modo particolare, la lastrina del Barbaro (tav. 93), conservata al Museo Vetraio di Murano, è un lavoro dal primitivismo bidimensionale sorprendente e dall'efficace espressività icastico-evocativa, realizzato attraverso una grande padronanza delle suggestioni che le trasparenze ed i cromatismi vitrei riescono a suscitare. In quest'opera, è palese il suo tentativo d'applicare stilemi pittorici moderni alle possibilità luministiche del materiale vitreo ed è un primo, qualitativo, esempio di come gli sforzi di stilizzazione e semplificazione delle forme da egli raggiunti in pittura, trovino un loro naturale inserimento nell'ambito delle arti applicate. Il decorativismo maturato sulle esperienze prima di Toorop e poi di Klimt, è così pienamente riscattato, tanto a livello cromatico quanto formale, e ricondotto, una volta ancora, e forse mai con tanta efficacia, alla tradizione veneto-bizantineggiante della sua città, specie quando, attraverso il vetro, il colore, e con il colore la luce, si fanno protagonisti assoluti dell'opera d'arte. La dogaressa o Salomè[33] (tav. 27), ne è un'altro esempio, ottenuto non più operando sulla materia vitrea da dentro, ma usando il vetro, una piccola lastrina in questo caso, come superficie pittorica. Una volta in più, il decorativismo raffinato ed esasperato fino all'orror vacui, trova una poesia cromatica unica per lo splendore della luce e del colore. <<Il lucido del vetro dà maggior fascino al superbo volto giovanile della dogaressa bella ed irreale come un idolo, circondata da uno straordinario trapunto decorativo di colori dallo stato puro come un antico mosaico bizantino, esaltati dalla linea elegante del pavone in primo piano e dalla sintesi del motivo dell'acqua e delle 'bricole' lagunari poste sullo sfondo>>[34].

 

  Fu proprio perché l'arte di Zecchin era un'arte dal marcato sapore decorativo ed apertamente allineata alle nuove mode liberty, quindi facilmente comprensibile e giustificabile nella sua modernità, che essa ebbe alle mostre un buon successo e che spinse il signor Indri, proprietario dell'Hotel Terminus, a commissionargli, verso il 1914, il ciclo pittorico de’ Le mille e una notte.

  Considerate tra i massimi capolavori del Liberty a Venezia, Le mille e una notte (tavv. 43-54), realizzate presumibilmente su di una superficie di circa trenta metri di lunghezza ed oggi suddivise in oltre una decina di tele, furono concepite per andare a decorare con gran fasto una sala da pranzo stretta e lunga dell'albergo, il cui edificio subì purtroppo nel corso del tempo varie ristrutturazioni che portarono alla dispersione del ciclo stesso. La fonte sulla quale l'opera è stata ideata, s’identifica con precisione da un frammento del ciclo conservato al Museo Internazionale d'Arte Moderna di Ca' Pesaro e che reca la seguente scritta incompleta: <<e Aladino disse al genio: adunami qua / le schiave bianche e polite siccome...>>. L'ispirazione, pertanto, re-inventata, giunse a Zecchin dalla lettura del racconto della lampada di Aladino tratto da' Le mille e una notte. Ed è fondato supporre, inoltre, che la lettura Zecchin l'abbia fatta sulla traduzione di alcune delle favole persiane pubblicata nel 1913, o poco prima, da Umberto Notari per l'Istituto Editoriale Italiano di Milano, nei nn.13 e 14 della collana "Biblioteca dei ragazzi". In queste edizioni, la parte grafica fu curata da Duilio Cambellotti, il quale illustrò anche tre volumi dei racconti di Sceherazad con tavole fuori testo a colori, considerate unanimemente dalla critica come il capolavoro di Cambellotti illustratore.

  Per quel che concerne lo snodarsi figurativo del corteo nuziale di Aladino verso la sua promessa sposa, non si conosce con sicurezza la successione esatta che tutti i pannelli dovevano avere sulle pareti della sala dell’albergo. Il pannello con la principessa Badr al-Budùr, era comunque il punto verso cui la processione convergeva e quindi, nella sala da pranzo stretta e lunga dell’albergo, doveva andare a decorare la parete di fondo. E’ da supporre, in ogni caso, che il ciclo non si svolgesse in maniera continuativa, poiché sicuramente aveva delle interruzioni spaziali in corrispondenza delle porte, delle finestre o delle eventuali vetrate. Queste interruzioni, servirono certo a Zecchin per scandire anche le pause spaziali all’interno della processione, che vede un maggior numero di personaggi sul lato alla sinistra della principessa; mentre sulla parete alla destra dovevano esserci un numero maggiore di aperture (porte, finestre o vetrate), poiché di quel lato si conoscono un minor numero di pannelli nei quali, tra l’altro, alquanto meno numerose sono le figure del corteo e dove probabilmente c’erano più pause compositive con paesaggi o altri elementi. Il pannello centrale stesso della principessa, con le offerenti a sinistra e il solo paesaggio sulla destra, porterebbe a confermare questa ipotesi.

  Le mille e una notte di Zecchin, rappresentano il sogno orientale, decadente, filtrato dalla Venezia d'inizio secolo che, pur sulla base del testo persiano, è in grado di rievocare in chiave moderna gli antichi splendori cromatici della città importati da Bisanzio e dall'Oriente. Tutto il ciclo si svolge sulla teoria isocefala della processione di schiave "tutte giovani e di eccezionale bellezza" che, cariche di preziosi doni ed alternate ritmicamente dall'inserimento delle figure nere dei guardiani, muscolosi ed imponenti come telamoni egizi, vanno a rendere omaggio alla principessa Badr al-Budùr, figlia del sultano, che Aladino seppe conquistare e riuscì ad avere in sposa grazie alle immense ricchezze profuse dal genio della lampada. Straordinaria la figura della principessa Badr al-Budùr (tav. 51), fulcro verso il quale converge l'intera composizione, colta, nella sua elegante immobilità ieratica, maestosamente seduta su di un trono dorato ed immersa in un'invenzione paesaggistica stupefacente, tanto a livello formale e cromatico quanto a livello contenutistico, proprio per la capacità che Zecchin ha avuto di saper trasmetterci quella sensazione d'incantato stupore e di mistica sacralità, che sembra essere quasi stata scovata in un angolo dimenticato della nostra memoria e riportata allo stato cosciente attraverso il racconto fantastico di una poesia figurativa da fiaba, come quella che sognavamo quand'eravamo bambini. Tutto è un sogno, o meglio, tutto è una visione magica, simbolica, incantata, orientale, da "mille e una notte": il vibrante orror vacui cromatico del paesaggio, la molle e ad un tempo regale positura delle tigri, il tripode sulla destra, le ancelle inginocchiate sulla sinistra con le braccia protese ad offrire alla principessa i vassoi colmi di gemme e pietre preziose. Con la stessa ricchezza, lo stesso sfarzo, la stessa maestosità inventiva e cromatica, si snoda il corteo nuziale negli altri pannelli, dove vi è un'ancora maggiore profusione di forme e di colori, in un ritmo ancora più serrato e con spazi ancora più compressi dall'affollarsi di personaggi tutti colti, con occhi egiziani, sullo sfondo dello stesso paesaggio incantato, in nobili positure e in regali atteggiamenti nelle loro ricchissime vesti incastonate d'oro, di pietre preziose e di ogni sorta di decoro, fin sul grande pannello con gli unici offerenti maschili (tav. 48), tra i quali si vuole indovinare Aladino stesso, con turbante e scettro, anch'egli avvolto in <<vesti tanto preziose... [come] nessun re ne... [ha] mai avuto di simili nel suo guardaroba>>. Con un'eleganza ed una raffinatezza inaudita, davanti alla processione che rende omaggio alla bella principessa Badr al-Budùr si ha la sensazione di assistere ad un rituale sacro che appartiene alla notte dei tempi, che l'artista ha saputo evocare ed al quale ha saputo dar forma e colore. In esso, vi è un sapore anche di primitività, un qualcosa di barbaresco, che è lo stesso di certi brani di D'Annunzio o, più ancora, della Salambò di Flaubert.

  Il ciclo de’ Le mille e una notte, è uno straordinario capolavoro concepito, pensato e risolto come opera decorativa, nella quale tutto è un pretesto per decorare al punto tale che la decorazione pare essere fine a se stessa, e, come tale, trova la sua finalità primaria nell'adornare, con sfarzo ricco e sontuoso, la sala da pranzo dell'albergo. La stessa evasione nella fiaba, sembra quasi farsi da parte davanti al piacere di disegnare, di inventare e, soprattutto, di colorare. Quest'opera segna il culmine di tutto quanto Zecchin era andato maturando fino a questo momento. Le influenze di Toorop e di Klimt trovarono ne’ Le mille e una notte il loro vertice, che si fece il non plus ultra dopo il quale l'artista, per non cadere in un manierismo di se stesso, pur mantenendo le caratteristiche stilistiche sviluppate, volse la sua attenzione altrove. Non fu un caso se, dopo questa esperienza, forse vissuta anche come una sorta di felice "crisi" artistica che lo immerse in una profonda autocritica, egli si dedicò sempre più alle arti applicate. Le mille e una notte rappresentano un'ultima fuga in un sogno allora ancora possibile, perché allora ancora ci si poteva distaccare dalla realtà, ma che fu presto spazzato via dalla guerra.

  Uniche nel loro genere a Venezia, sono la viva testimonianza della capacità coloristiche di Vittorio Zecchin: <<Egli ama la violenza del colore; la sua genialità consiste nell'armonizzare tutte le vivacità della tavolozza più accesa>>[35]. Chi, ne’ Le mille e una notte, ma in genere in tutta la pittura di Zecchin, volesse trovarvi l'abilità tecnica nell'uso del pennello, la capacità di sofisticati virtuosismi di tocco, la tradizionale perizia degli insegnamenti accademici, o solo la qualità figurativa del particolare, che pur vi sono, resterebbe piuttosto deluso, perché l'arte tecnica di Zecchin sta altrove, così come altrove sta la sua poesia. Se ci si concentra, tralasciando tutto il resto, sull'armonica fusione di tinte e sulla loro tessitura, si scopre una vera sinfonia, una vera cattedrale, una vera architettura cromatica, dove più ancora della stilizzazione delle forme, l'artista attua una stilizzazione del colore. E' il colore che rende innovativo e originale l'intero ciclo, ed è attraverso il colore che Zecchin attuò in quegli anni a Venezia il più significativo e geniale recupero della secolare e gloriosa tradizione artistica della sua isola e della sua città: quella che conduce direttamente ai luccichii delle fornaci del vetro e alle tinte accese dei Vivarini, quella che si riallaccia alle vetrate ai mosaici alle patere ai pavimenti medievali della Venezia bizantina ed orientaleggiante.

 

  Spinti dal clamore interventista celebrato dal superuomo-tribuno Gabriele D'Annunzio, in un'Italia sempre più convinta al “bel gesto” e a vedere nella guerra la  <<sola igiene del mondo>>, tanti furono i giovani che intrapresero un’avventura dalla quale per molti non vi fu ritorno, e chi tornò, tornò profondamente cambiato. Nella seconda metà del 1915, anche gli amici capesarini, più o meno convinti, furono chiamati alle armi. Vittorio Zecchin, perché claudicante, fu uno dei pochissimi che rimase a Venezia o, meglio, isolato a Murano. Egli non visse la guerra in prima persona; la visse indirettamente, tra stenti di ogni genere nella costrizione a rimanere con tutti i suoi sogni rilegato su un'isola sempre più deserta e inoperosa, popolata solo da donne, vecchi e bambini. Tuttavia, questo non bloccò la sua genialità e, spinto dalla lettura di riviste inglesi, dov'era esaltata nei popoli nordici l'arte del ricamo su grossi canovacci, Zecchin decise di far suo un vecchio convento nei pressi di San Donato a Murano e, richiamando le giovani donne dell'isola, fondare un vero e proprio laboratorio per arazzi[36]. Questo momento segna l'inizio della sua profonda e totale dedizione alle arti applicate. Egli stesso si mise a ricamare e lo fece con tanto amore ed inventiva da ideare un punto che potesse imitare la pennellata sulla tela. Considerò, con moderna convinzione, l'arte dell'arazzo (come ogni altro genere di arte applicata) alla pari di ogni altra manifestazione figurativa e, in questa piena convinzione, promosse il rilancio dei più svariati settori artigianali veneziani e veneti. E, nel suo laboratorio d'arazzi, come ricorda Alfredo Rota, avvenne l’incontro con D'Annunzio: <<La guerra... infuria spaventosa: Gabriele D'Annunzio, fra un volo e l'altro, si spinge a Murano dove celebra, al rezzo di quei miti orti salmastri, degli atti di vita. Così conosce Zecchin che gli parla in veneziano, gli dice i suoi propositi e gli mostra il primo arazzo. D'Annunzio lo ascolta ammirato e compra il bel saggio. Nasce così dalle parole di Zecchin la raffigurazione dell'Arte Paesana che il poeta celebra nello Statuto di Fiume[...] Una sera[...] Zecchin narra a D'Annunzio la Leggenda della Valle dei sette morti[[37]], che il poeta metterà poi - traducendola dal veneziano - nella Leda senza cigno. Il libro recherà, in compendio, questa dedica “- Al grande artiere Zecchin da Murano, che mangiò la polenta nella Valle dei sette morti”>>[38].

 

  La guerra, intanto, aveva cambiato tutto. L'entusiasmo iniziale fu ben presto soppiantato dalla fredda logica di una realtà ben diversa da quella che si pensava. L'evento bellico pose fine all'Ottocento, spintosi ormai per quasi due decenni nel nuovo secolo, spense il mito estetico dannunziano e lasciò tra il popolo smarrimento e nuovi gravi problemi. L'Italia, delusa dalla "vittoria mutilata", dovette aprir gli occhi su una nazione socialmente e culturalmente diversa da quella che si credeva essere.

  Nel giro di meno di due anni, Venezia, la Biennale e Ca' Pesaro, con le loro esposizioni, si trovarono ad essere prima il volto e subito dopo la maschera dell'Italia artistica del dopoguerra.

  All'interno del gruppo capesarino, nell'organizzazione della mostra del 1919, tanto attivamente gestita da Barbantini, l'”U.G.A.”, l'Unione Giovani Artisti, sorta su iniziativa di Teodoro Wolf Ferrari, aveva creato dissidi. Zecchin stesso partecipò all'iniziativa ma, come Gino Rossi, non accettandone in tutto le idee. La mostra di Ca' Pesaro, comunque, si rivelò tra le più belle e riuscite di tutta la storia della Fondazione. A Vittorio Zecchin, membro della giuria d'accettazione, fu dedicata un'intera sala, dove espose, in una mostra personale, arazzi e vetri, che andarono quasi a ruba e che testimoniarono gli sforzi artistici fatti dal muranese durante l'evento bellico.

  La mostra capesarina del '19, aveva evidenziato però, negli artisti stessi, una volontà diversa da quella che dominava prima della guerra. Ca' Pesaro reclamava un pieno riconoscimento a tutti i livelli: gli artisti, non più giovanissimi ed inesperti, avevano oramai tutti delineato il loro percorso figurativo e l'istituzione serviva loro ancora come punto d'esposizione e di lavoro, ma non rappresentava più la loro unica ed indispensabile possibilità. Ognuno aveva maturato una propria fisionomia artistica che poteva continuare autonomamente. Le polemiche con la Biennale avevano in un certo modo perso di senso e dovevano, come fu, volgere velocemente all'epilogo: la realtà nel dopoguerra era cambiata e, come conseguenza, doveva cambiare ogni cosa. L'esigenza di romper con il tradizionalismo di stampo ottocentesco venne meno: la guerra stessa aveva spazzato via tutto quanto di ottocentesco fino a qualche anno prima era ancora forte e vivo. A Venezia non ci fu, tolte le persone più accorte, una precisa coscienza delle mutate e nuove esigenze culturali. L'isola geografico-lagunare della città fu toccata solo indirettamente dall'evento bellico, e per taluni rimase la convinzione che le cose potessero continuare come prima. Alla base di quanto successe nel 1920 e dopo, per qualche anno ancora, ci fu un ultimo, disperato tentativo di riesumare una cultura ormai morta, quanto mai anacronistica e fuori luogo. E la Biennale di quell'anno, nonostante gli sforzi del nuovo segretario generale, ne fu un esempio.

  Nino Barbantini aveva fatto del suo meglio per organizzare l'esposizione palatina del 1920. A dimostrazione dell'importanza della mostra, erano stati invitati anche molti artisti che non gravitavano nell'orbita di Ca' Pesaro[39]. Una decisione comunale, però, cambiò la giuria d'accettazione della Fondazione[40], la quale fu spinta a adottare alla lettera, non senza voluti fraintendimenti, quanto dettato dal testamento della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa. Ci fu una sorta di Serrata del Maggior Consiglio: con lo stesso criticato metodo della Biennale, furono accettati quasi tutti gli artisti che si erano presentati (senza attuare quella discriminazione qualitativa che aveva fatto tanto interessanti le mostre palatine), ed esclusi i <<non veneziani>>. La reazione fu immediata e le conseguenze furono che dall'anno successivo tra gli artisti di Ca' Pesaro vi fu una specie di vera diaspora. Zecchin stesso, ancora giovane ma non più giovanissimo (aveva superato i quarant'anni e quell'anno s'era anche sposato), pur mantenendo sempre i rapporti con le istituzioni artistiche cittadine, volgeva i propri interessi oramai quasi esclusivamente alle arti applicate.

 

  Per qualche anno ancora dopo Le mille e una notte, Zecchin realizzò opere pittoriche dal marcato sapore decorativo, sempre immerse in quella sua poesia fatta d'incantate suggestioni. Le Tre principesse (tav. 56), la Principessa nel paesaggio (tav. 55), Vescovi (tav. 59), Cattedrale (tav. 61), sono tutte opere che respirano quell'atmosfera di magia decorativa e di favola, e le prime due potrebbero idealmente ben accompagnare il corteo nuziale di Badr al-Budùr. In esse, tuttavia, vi si sente una stilizzazione compositiva formalmente e coloristicamente pensata già per essere reinterpretata nell'ambito delle arti applicate: per essere tradotta in arazzo, ad esempio. Altre opere, nelle quali la sinuosità liberty mostra di avviarsi con decisione verso la nuova moda dell'Art Déco, in sintonia con quel diffuso Ritorno all'ordine che caratterizzò tutte le arti nel primo dopoguerra, hanno una composizione più semplice, libera, almeno in parte, da quell'orror vacui decorativo visto fino ad ora: La lucciola (tav. 57) e Fede (tav. 58), ad esempio, presentano entrambe due esili figure femminili che, quasi come libellule o fiammelle, assumo ricercate ed eleganti positure atte ad accentuare, assieme al contrasto cromatico delle vesti con lo sfondo scuro, il fascino mistico d'un rituale d'antica devozione, o d'iniziazione a qualche culto esoterico, che pare celebrato adesso, tanto sembrano alla moda d'allora gli abiti indossati e le capigliature. Di un fascino analogo, mistico e esoterico, e sempre incantato come in una visione fiabesca, sono tutta una serie di splendidi paesaggi (tavv. 62-70) dalle raffinatissime soluzioni compositive che, nel loro gusto di ascendenza klimtiana, si presentano come piccole “cattedrali” che trovano, ancora una volta, le loro note poeticamente più alte nella sinfonia della loro preziosa architettura del colore. Di questi ultimi due gruppi d'opere, tele già databili verso il 1920 come Cammina..., cammina... (tav. 87) o Principessa nel bosco (tav. 85), paiono esserne un calibrato punto d'incontro. E la profusione di un decorativismo nuovamente ricco di orror vacui si riscontra in opere anch'esse eseguite nel primissimo dopoguerra, nelle quali rimane vivo il ricordo dei sogni incantati, tutti permeati d'un orientalismo fastoso e ridondante. Soprattutto in quei lavori destinati, come Le mille e una notte, a andare a addobbare sfarzosamente intere sale. E, di questi cicli decorativi, Zecchin dovette probabilmente eseguirne più d'uno, se egli stesso, in una lettera a Nino Barbantini del 6 agosto 1923, ci fa sapere che <<me piasaria (questo saria il mio più vivo desiderio) presentarme con una serie de tavole, dove voria far veder che go gran vogia da impiturar. Insomma voria presentarme sotto la veste del decorator>>. E' con questo spirito che nascono, allora, altri cicli decorativi come quello di cui il grande pannello sagomato sull'arco di una porta (tavv. 72a, 72b) ci rimane oggi come unica testimonianza, caratterizzato da un continuo ripetersi di fitti motivi decorativi ritmicamente cadenzati da ieratiche figure femminili; come quello, tutt'ora in loco (è fino ad oggi l'unico di Zecchin giuntoci nella sua integrità), realizzato per un villino in stile neo-gotico (tavv. 73, 74), sfarzosa sinfonia cromatica tutta giocata su dolci sinuosità coloristiche rette da una sorprendente architettura compositiva profusa nell'oro di fantastici motivi veneziani di navi a vela; o, ancora, come quello in affresco dipinto verso il 1922, assieme ad un grande sipario (si vedano anche la scheda n. 278 e relativa tavola), per il teatro di Murano[41].

  Di grande valenza decorativa, sono anche tutta una serie di opere a soggetto femminile (tavv. 75-77), dove le donne, avvolte alla maniera orientale in voluminosi scialli o ricchi manti incastonati di ogni preziosità, ci fissano come matrone misteriose o enigmatiche e seducenti sfingi. Il loro elegante e raffinato decorativismo, retto da una ricercata stilizzazione di forme e colore, così come si vede in Salomè[42] (tav. 78), in Procellarie (tav. 80), in Re Magi (tav. 82), ne' Le tre fate (tav. 84), in Gru ed aironi (tav. 81), o nelle più tardive, realistiche e cromaticamente accese tele con La partenza (tav. 88) e Le Veneziane (tav. 89), è il principale legame con l'universo della arti applicate: infatti, non sorprende ritrovare temi analoghi realizzati in arazzi, in mosaici, in vetrate o con altra tecnica. Sono motivi che Zecchin sperimentò in pittura per poi servirsene altrove. Significativi a tal proposito sono anche i disegni degli anni Venti e Trenta, dove il rigore del designer trasformò il segno grafico nello scheletro entro il quale prese forma un razionalismo figurativo moderno e di ampio respiro europeo, che dette i suoi più alti risultati nell'arte vetraria. In modo analogo, la sua pittura fu sempre più finalizzata alle arti decorative. Rare eccezioni in questo senso, sono tutto un gruppo di nature morte (tav. 91) eseguite nei suoi ultimi anni di vita, sintomatiche raffigurazioni di un realismo magico tanto ricercato ed esasperato, da far sì che gli oggetti stessi s'innalzino a simboli inquietanti, troppo "tranquilli" in quei giorni che precedevano un'altra immane catastrofe; catastrofe che a Zecchin tolse definitivamente tutto quello che un tempo <<gera solo... pensieri [che] correva lontan>>, per rinchiuderlo in un <<povero palazzo>> dai <<balconi / scavai come gran oci / vodi, / senza fondo... per el dolore grando, / senza fin / che te consuma>>.

 

Marco Mondi

 


[1] G. Perocco, Artisti del primo Novecento italiano, Torino 1965, p. 11.

[2] M. Mondi, Per un catalogo dell'opera di Vittorio Zecchin, tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Venezia, Ca' Foscari, a.a. 1991/1992, vol. I, p. 211. Vittorio Zecchin, tra le altre cose, scrisse anche numerose poesie, alcuni racconti e alcune massime in dialetto veneziano (cfr. Ibidem, vol. I, pp. 205-272). Scrisse, inoltre, un’opera dal titolo alquanto interessante e significativo, Il romanzo del vetro, un dattiloscritto di 257 fogli nei quali è narrata la storia del vetro e le sue varie tecniche di lavorazione.

[3] G. D'Annunzio, Il fuoco, Torino, Mondadori, 1963 (1951).

[4] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. I, p. 210.

[5] Su Vittorio Zecchin ed il vetro, oltre a quanto detto da Marino Barovier nel capitolo sui Vetri di Vittorio Zecchin, cfr. anche Ibidem, vol. I, pp. 8-162, vol. II, pp. 179-582, vol. III, pp. 11-212, 398-412, vol. V, vol. VI, pp. 2-120, vol. VII, vol. IX.

[6] Sulla storia del vetro di Murano tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo, oltre a quanto detto da Marino Barovier nel capitolo sui Vetri di Vittorio Zecchin, si veda: R. Barovier Mentasti, A. Dorigato, A. Gasparetto, T. Toninato, Mille anni di arte del vetro a Venezia, Venezia 1982; R. Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982; M. Barovier, Il “Liberty” a Murano, in Il Liberty in Italia, cat. a cura di F. Benzi, Padova, Palazzo Zabarella, 18 novembre 2001 – 3 marzo 2002, Milano 2001.

[7] L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, cat. a cura di V. Pica, Galleria Pesaro, Milano 1923, p. 9.

[8] Dall'anno, cioè, dell'istituzione della Biennale di Venezia.

[9] Augusto Sezanne, nell'ambito della sua collaborazione con la ditta bolognese Aemilia Ars ebbe occasione di realizzare anche vetri, alcuni dei quali furono presentati all'Esposizione internazionale di arti decorative di Torino del 1902.

[10] P. Rizzi, E. Di Martino, Storia della Biennale 1895 - 1982, Milano 1982, p. 20.

[11] Alla Biennale del 1910, Fradeletto fece togliere dal salone spagnolo un’opera di Picasso perché la sua modernità poteva scandalizzare il pubblico (cfr. G. Romanelli, Biennale 1895: nascita, infanzia e prime imprese di una creatura di genio, in Venezia e la Biennale – I percorsi del gusto, cat. della mostra, Venezia, 1995, p. 21).

[12] G. Perocco, op.cit.

[13] G. Gozzano, Totò Merùmeni, da I colloqui, 1911.

[14] Non si dimentichi, inoltre, che la Biennale del 1897 aveva presentato la "Mostra d'arte antica giapponese".

[15] L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., p. 11.

[16] Vittorio Zecchin, cat. a cura di G. Perocco, Venezia, Palazzo Pesaro, aprile-maggio 1981, Milano 1981, p. 5.

[17] E. Di Martino, L'Opera Bevilacqua La Masa, Venezia 1984, p. 19.

[18] Ibidem, p. 20.

[19] N. Barbantini, Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi, in Scritti d'Arte, Verona 1953.

[20] M. Mimita Lamberti, La stagione di Ca' Pesaro e le Biennali, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, cat. mostra, Milano 1987, p. 50.

[21] E fu in quegli anni che <<nacque anche quel “centro” artistico di Burano>> (S. Branzi, Ca' Pesaro - Prima Voce del l'Arte Moderna Italiana, Venezia 1959, p. 4).

[22] <<La Biennale del 1910, tutta per inviti, andava preparata in gran fretta che permise di accettare a scatola chiusa una personale di Renoir e una retrospettiva di Courbet (presentata da Ojetti), l'individuale di Klimt, ma anche una serie meno felice di sale accaparrate dai protagonisti accreditati delle tradizioni locali, Brass Fragiacomo, Sartorelli, Scattola>> (M. Mimita Lamberti, op. cit., p. 48).

[23] Quelle mostre aprirono <<uno spiraglio di speranze che anche Soffici dovette ammettere, a denti stretti, nel giudizio nitido e severo che egli dette del panorama dell'esposizione>> (G. Perocco, op. cit.).

[24] Vale la pena ricordare anche che alla Biennale del 1910 furono presentati alcuni disegni dell'inglese Aubrey Beardslay, artista che, come ricorda Vittorio Pica (L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., pp. 13-14), fu ammirato da Zecchin. A tal proposito si vedano le tavv. 18 e 79.

[25] Vedi nota 11.

[26] <<L'organizzazione della "Sala della gioventù" doveva essere o apparirgli [a Barbantini] come un'infida “concorrenza” di Fradeletto>> (F. Scotton, Un'estetica della gioventù: Barbantini e Palazzo Pesaro, in Venezia - Gli anni di Ca' Pesaro 1908 - 1920, cat. mostra, Milano 1987, p. 89).

[27] Vittorio Zecchin, op. cit., p. 6.

[28] K. Kraus, Il vaso di Pandora, in F. Wedekind, Lulu, Milano 1972, p. 23.

[29] <<”Enide” è un termine introdotto da Weininger per significare quel momento in cui non è distinguibile la sensazione dal sentimento, cioè una rappresentazione senza contorni, oscura, indefinibile, priva di differenziazioni>> (E. Di Stefano, Il complesso di Salomè, Palermo 1985, p. 28). <<L'uomo ha gli stessi contenuti in forma articolata come la donna, ma quando questa pensa più o meno in enidi, quello ha già rappresentazioni chiare e distinte[...] Per la donna pensare e sentire sono la stessa cosa, mentre l'uomo può sempre distinguere[...] L'uomo vive cosciente, la donna no>> (O. Weininger, Sesso e Carattere, Milano 1945, pp. 99, 168).

[30] Scrive Vittorio Pica: <<Non è di pittori, buoni mediocri o cattivi, che manchiamo ai nostri giorni in Italia - l'ho scritto e lo ripeto con profonda convinzione - ma bensì di accorti intelligenti instancabili cultori delle industrie artistiche e quando se ne trova qualcuno[...] lo si deve incoraggiare ed aiutare come più e come meglio si può>> (L'Arte Decorativa Moderna Vittorio Zecchin, op. cit., pp. 28 - 29).

[31] Per la titolazione di quest'opera, si veda la relativa scheda.

[32] Per la titolazione di quest'opera, si veda la relativa scheda.

[33] Come giustamente ha fatto osservare la dottoressa Carla Sonego, per le tipologie stilistiche delle decorazioni, non è da escludere che l'opera possa essere stata eseguita qualche anno più tardi, forse verso il 1918, elaborata sull'idea originaria del 1913. Un articolo sulla "Voce di Murano" del 2 marzo 1914, tuttavia, parla di un'opera che è certamente da mettere in relazione con questa. Chi scrive, preferisce mantenere la datazione data a suo tempo dal prof. Perocco.

[34] Vittorio Zecchin, op. cit., p. 6.

[35] A. Rota, Un taumaturgo del colore: Zecchin da Murano, dattiloscritto datato del 28 giugno 1941, p. 2.

[36] Cfr. Ibidem., p. 3.

[37] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. I, p. 257.

[38] A. Rota, op. cit., pp. 3-5.

42 - Alla mostra della “Società delle Belle Arti di Firenze” della primavera del 1928, Zecchin espose uno splendido vaso in vetro decorato con lo stesso soggetto della Salomè raffigurata in quest’opera.

[39] Cfr. E. Di Martino, op. cit., p. 43.

[40] Cfr. N. Barbantini, La prima mostra di Ca' Pesaro, in op. cit., p. 267.

[41] Cfr. M. Mondi, op. cit., vol. II, p. 130, scheda 111, vol. IV, tav. 111.

[42] Alla mostra della “Società delle Belle Arti di Firenze” della primavera del 1928, Zecchin espose uno splendido vaso in vetro decorato con lo stesso soggetto della Salomè raffigurata in quest’opera (vedi tav. 115).

 

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