LA DECORAZIONE IN AFFRESCO

DEL COSIDDETTO "STUDIOLO"

DI VICOLO DEI VETRI IN CASTELFRANCO

di Marco Mondi

  

            Nel 1991 la palazzina Vicolo dei Vetri in Castelfranco nel cui pianterreno, nella parte anteriore, è situato il locale che si suol denominare oggi “studiolo” (foto 001 ), versava in uno stato di conservazione alquanto precario, motivo per cui l'allora proprietario decise di provvedere al suo restauro. Nelle operazioni preliminari all'intervento di ristrutturazione dell'immobile, nella stanza suddetta, per caso fortuito, sotto uno spesso strato di calce e diverse mani d'intonaco a tempera emersero alcune tracce di un affresco antico. L’architetto Giuseppe Pietrobon, che fu incaricato dall’allora proprietario delle operazione di restauro e di ristrutturazione edile dell’intero stabile, ha preziosamente precisato a chi scrive che furono rinvenute delle prime pitture a motivo floreale dipinte a tempera all’incirca dove oggi corre l’attuale fregio; pitture di fattura modesta e di epoca probabilmente settecentesca (o, forse, anche più tarda), che furono poi rimosse perché sotto ad esse s’intravidero delle pitture ben più antiche, eseguite ad affresco e di qualità decisamente superiore. L'allora proprietario, nell'emozione di quest’ultimo ritrovamento, contattò ben presto un bravo pittore concittadino per sentirne il parere. Quest'ultimo fu poi anche incaricato di procedere, a bisturi e strumenti meccanici, con la massima attenzione e professionalità che lo caratterizzava e lo caratterizza, a rimuovere gli strati di pittura a calce e a tempera per fare emergere nella sua completezza l'antico ciclo in affresco là celato. Gradualmente, ne emerse la consistenza e si scoprì che si trattava di un fregio che correva con continuità lungo tutto il sottotetto del locale, con un'altezza di circa cm 75 per una lunghezza di circa m 20 (foto 002 , 003 , 004 , 005 , 006 , 007 , 008 , 009 ). Assieme a questo fregio, nel quale vi sono raffigurati, entro un cornicione superiore e uno inferiore (forse più tardo), un ripetersi di teste di putto alate con ai lati racemi a voluta con foglie d'acanto, alle cui estremità superiori sta un volatile che beccola, ritmate dalla presenza di tondi modanati nei quali si alternano con regolarità stemmi nobiliari di famiglie cittadine o legate a Castelfranco e scene figurate di sapore mitologico-classicheggiante (foto 010 ), sono state rinvenute altre decorazioni pittoriche (foto 011 ): oltre a quelle a raffigurazioni floreali eseguite a tempera appena menzionate, di cui oggi purtroppo non rimane traccia perché rimosse per dar luce, appunto, all’antico fregio, nelle pareti verso nord e verso sud, sopra al fregio stesso, negli spazi murati tra una trave e l'altra del soffitto, vi sono dipinti dei rettangoli monocromi di color rosato con al centro un fiore (foto 012 ); nella parete verso ovest, una decorazione che inquadra la cappa dei resti di un antico caminetto, sopra la quale sta un raccordo a vela suddiviso in tre riquadri dove, in quello centrale, maggiore, vi è dipinta una figura femminile allegorica mentre, nei due laterali, minori, s'incrociano due ramoscelli simbolici (foto 013 ); altre decorazioni pittoriche si trovano nella parete verso nord, a contornare quella che un tempo doveva essere una porta e una finestra (foto 014 ); nella parte laterale destra sempre della parete verso nord (a partire da subito dopo la finestra), continuando per circa m 3 anche sulla parte laterale sinistra della parete verso est, vi sono brani di una decorazione policroma a finta tappezzeria verticale che scendono da sotto il fregio, con irregolarità, per una superficie che va da alcuni decimetri fino a circa cm 70-80 (foto 015 ); su tutte e quattro le pareti, infine, sotto al fregio, scorrono con irregolarità, da pochi centimetri ad alcuni decimetri, tracce rosate di antico intonaco (tranne nelle parti decorate a finta tappezzeria – foto 016 ).

            Nella fototeca della biblioteca comunale di Castelfranco si conservano due nuclei di fotografie, alcune delle quali scattate proprio dal suddetto pittore concittadino, che testimoniano, il primo (consistente in circa una quarantina di scatti), lo stato di conservazione in cui lo “studiolo” e il suo ciclo decorativo si presentavano nei momenti preliminari alla ristrutturazione dell'intero edifico, il secondo (consistente in oltre una cinquantina di scatti), che testimonia una fase successiva, a lavori di restauro giù iniziati e con il suddetto fregio cinquecentesco visibile quasi nella sua interezza. Dal primo nucleo di quelle foto, emerge che lo stato della stanza versava davvero in un condizioni assai precarie (foto 017 ). Gli affreschi più antichi sono stati parzialmente messi a nudo (foto 018 ) e, su alcune parti, minime, di uno degli strati sovrastanti d’intonaco, pare d’intravedere tracce di quella pittura a decorazione floreale in seguito rimossa (foto 019 ), che li copriva (a sua volta coperta da altri strati d’intonaco): davvero troppo poco, però, per formulare alcun genere di giudizio o di datazione su quelle pitture, forse settecentesche. Tuttavia, i brani in affresco del fregio cinquecentesco, si presentavano tutto sommato in un buono stato di conservazione, come provano anche le foto del secondo nucleo della biblioteca di Castelfranco (foto 020 ). Uno scatto di queste ultime, ancora, inquadrando il soffitto della stanza privo di solaio e solo con le travi, mostra, in maniera però ben poco comprensibile, parte della parete di nord della stanza sopra lo “studiolo”, dove pare di individuare altre decorazioni pittoriche (foto 021 ). Di queste decorazioni ne ha ricordo anche il nostro pittore concittadino, che afferma si trattasse di una pittura, probabilmente non molto antica (forse anche otto-novecentesca), che andava a decorare la cappa di un caminetto che un tempo là si trovava. In altre due fotografie di quest'ultimo nucleo, inoltre, che inquadrano un particolare della facciata nord, all'incirca sopra lo spazio tra l'attuale porta e l'attuale finestra di destra (guardando dall'interno), pare d'intravedere dei possibili affreschi monocromi grigiastri forse raffiguranti panneggi o forse parte di quelle pitture a tempera di cui ci fa memoria l’architetto Pietrobon (foto 022 ). L’architetto Pietrobon, infine, ha gentilmente messo a disposizione anche lui delle immagini fotografiche, scattate sempre durante la fase di ristrutturazione edilizia dello stabile, dove si vedono, assieme ad alcune vedute della facciata esterna, altre panoramiche della stanza dello “studiolo”.

Di grande interesse in merito a una possibile ricostruzione storica e a una possibile prima indagine tecnico-iconografica del ciclo decorativo in affresco dello “studiolo” di Vicolo dei Vetri, è il testo redatto Luigi Squizzato nel 2010 (L. SQUIZZATO, Documenti inediti del XV e XVI sec. – Lo studiolo notarile, in www.luigisquizzato.it/lo_studiolo_notarile.htm, 2010), nel quale lo studioso dà un resoconto alquanto particolareggiato per un tentativo di identificazione del locale in un originario edificio adibito ad attività notarile e, di conseguenza, tenta un’esegesi del significato delle sue pitture. La relazione dello Squizzato si basa sul rinvenimento di un documento del notaio Dionisio Saxacher, datato 24 dicembre 1506 (ASBas. Notarile Castelfranco b. 548, cc 77r, v. Not. Saxacher Dionisio il giovane), nel quale l’allora podestà di Castelfranco, Augustino Moro, concedeva ai notai castellani Pietro Dotto e Bernardino Zaghi («[…]ser Petro Dotto et ser Bernardino de Zaghis[…]», altrove […]ser Petri Doto et ser Bernardini de Zagis[…]»), dopo averne constatato il vantaggio pubblico e la mancanza d’arrecar danni sia ai notai concorrenti sia ai suoi stessi successori nella carica di podestà («[…]in opinione cum eius munificentia non redente que huiusmodi et ad damnum alicuius persone neque ad incomoditatem aliquam magnificorum dominorum seccessorum suorum[…]»), la possibilità di costruire un locale adiacente al lato nord-est dell’allora palazzo pretorio cittadino («[…]et viso quondam loco in curia pretorii per dictos notarios ostenso sue magnificentie post hostium ipsius curie a dextras versus domun heredium quondam donna Cassandre aromatarie[…]»), utile, tra l’altro, anche a riqualificare un’area che era diventata alquanto malsana («[…]ubi sunt stecca equorum et quotidie homines ventrem exonerant ac mingunt adeo quamdiu effertus est quasi publica latrina[…]»), per poter esercitarvi, appunto, attività notarile. Il documento del notaio Dionisio Saxacher, tuttavia, precisa che la concessione alla costruzione ex-novo del locale riguardava uno spazio dalle dimensioni all’incirca di metà rispetto a quelle attuali del vano («[…]pedum sexdecim per longitudinem[…] pedum sex cum dimidio per latitudinem[…] et pedum septem quarti unius per altitudinem[…]»), per potervi poi collocare due “scabella” per l’esercizio dell’attività («[…]ubi possint costruire pro quanto capiunt duo scabella ad comode exercendum officium tabellionatus[…]»); il permesso concedeva la costruzione delle mura del vano, con l’apertura di finestre sul lato esterno, e la copertura dello stesso con coppi («[…]dicti notarii possint et valeant fabbricare circumcirca de muro suis expensis absque condictione alicuius persone et cuppis coprire et hostium ac fenestras facere extra tamen dictam curiam super muro ipsius respicientes meridiem ac omnia alia et singola necessaria[…]»). Interessa, infine, evidenziare come tra i testimoni firmatari dell’atto vi siano Tommaso Costanzo del magnifico cavalier Tuzio e Bernardino de Castellis del signor Filippo («Teste Dominus Tomas de Constantio magnifici equitis domini Tutii, dominus Bernardinus de Castellis domini Philippi[…]»).

Se tale documento dovesse effettivamente riferirsi allo “studiolo” di Vicolo dei Vetri, la data del 1506 sarebbe una condicio sine qua non per la datazione dei suoi affreschi, togliendo, in più, ogni loro azzardata attribuzione, come qualcuno ha supposto, a Giorgione, di per sé già stilisticamente e qualitativamente assai fantasiosa. Quest’ipotesi, tuttavia, forse veritiera e sicuramente alquanto suggestiva, non convince completamente per la mancanza, almeno nelle conoscenze di chi scrive, di altra documentazione positiva a tal riguardo, che avalli e precisi con certezza l’identificazione del luogo, nonché per altre valutazioni che pur devono essere tenute in considerazione. Poiché davvero ben poco o quasi nulla si conosce dell’aspetto e dell’esatto sviluppo degli spazi non solo dell’antico palazzo pretorio, orientato diversamente dall’attuale Municipio (completamente ripensato alla fine del XIX secolo - cfr. G. CECCHETTO, Castelfranco Veneto, l’evoluzione della forma urbana e territoriale nei secoli XIX e XX, Cittadella, 1999, pp. 120-125; si veda anche la mappa datata 1789, oggi conservata in collezione privata - foto 022a ), e del quale oggi non resta che l’Oratorio delle Grazie (cfr. G. BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. I, p. 144 e G. CECCHETTO, La podesteria di Castelfranco nelle mappe e nei disegni dei secoli XV-XVIII, Cittadella, 1994, pp. 69-70), ma soprattutto della collocazione urbanistica degli edifici immediatamente adiacenti ad esso, o nelle sue vicinanze, nonché dei loro proprietari, ci si deve muovere solo per ipotesi. In una mappa del 1668 (cfr. G. CECCHETTO, Ibidem, 1994, fig. 77), s’intravedono sommariamente descritti alcuni edifici esistenti allora dentro le mura (foto 023 ): tra essi si può individuare l’antico palazzo pretorio dove, nel suo prolungamento su Vicolo dei Vetri, pare vi sia un edificio a sé stante, però topograficamente non corrispondente all’area dove oggi sorge lo “studiolo”, che appare invece totalmente spoglia da altre costruzioni (perché, evidentemente, non si era sentita in quell’occasione la necessità di annotarle e che sono facilmente individuabili nelle mappe napoleoniche del 1809-1810 -copia del 1812- e del 1812 - cfr. G. CECCHETTO, Ibidem, 1994, figg. 80 e 81 – foto 024 , 025 ). A tal proposito, anche la veduta a volo d'uccello del Coronelli (post 1693) ben poco aiuta, pur dandoci una delle prime raffigurazioni che illustrano nella sua globalità l'impianto urbanistico della città, ma solo nelle sue direttrici principali (foto 025a ). Lo stesso atto del notaio Saxacher, s’è appena visto, consentiva la costruzione di un vano di dimensione all’incirca di metà rispetto a quelle dello “studiolo”, e prevedeva l’edificazione delle quattro mura con copertura a coppi. Sostanzialmente a sé stante, questo locale, pertanto, doveva nascere in origine più piccolo e, se si trattasse realmente di quello dello “studiolo”, vi dovette essere un successivo permesso che ne consentisse l’ampliamento delle dimensioni sino a circa il doppio (permesso concesso probabilmente negli immediati anni successivi), perché il fregio in affresco con le teste di putto, i racemi vegetali e i tondi, che si dovrebbe datare a poco dopo la realizzazione del vano nella sua attuale grandezza, nella sua coerente continuità non mostra alcun intervento che ne giustifichi la realizzazione in due o più momenti diversi. Un piccolo edificio sostanzialmente a sé stante, quindi, che dovette essere stato costruito di dimensioni doppie rispetto a quelle concesse dal documento del 1506 e che dovette negli anni e nei secoli successivi essere stato ampliato fino a giungere all’attuale mole, che ingloba, pressoché inalterata, l’originaria struttura parietale dello “studiolo”. Un locale la cui costruzione fu chiesta da due notai, privati, per l’esercizio della loro attività; due notai che, secondo quanto riporta Nadal Melchiori nei suoi scritti su Castelfranco (e che, in questo caso, la sua testimonianza deve essere considerata attendibile per il fatto che sostanzialmente trascrive testi di documenti originali antichi), a quell’epoca dovevano essere anche abbastanza giovani (in ogni caso, «che abbiano finita l’età d’anni venti» - B. SCAPINELLI, Istoria di Castelfranco, s.d., Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, E-1 / MS 201, s. n. p.; N. MELCHIORI, Repertorio di cose appartenenti a Castel Franco nostra Patria, 1715-18, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, ms. 166 N-145, 12 521 R.I., p. 142), se risultano poi essere nominati per diversi anni, e almeno fino agli anni Trenta del Cinquecento, tra i “Conservadori, Massari, e Nodari” che hanno governato il Santo Monte di Pietà (N. MELCHIORI, Catalogo historico cronologico, cioè Copiosa raccolta che contiene L’origine di Castelfranco… -Memorie di Castelfranco-, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, 01 MS 158, pp. 309-310; ma si cfr. anche N. MELCHIORI, Catalogo Historico Cronologico cioè Copiosissima Raccolta che contiene La serie dei nomi…, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, P6 MS 161, p. 59, dove Bernardino Zaghi risulta notaio del Santo Monte sin già nel 1494, mentre Pietro Dotto già nel 1496). Un locale però che, se fosse quello dello “studiolo” (come porterebbe a pensare, a questo punto, anche la presenza nel fregio dei diversi stemmi gentilizi di famiglie che tra i loro componenti avevano avuto notai e persone che ricoprirono importanti cariche pubbliche), dovette presto divenire d’uso sostanzialmente collettivo per la categoria notarile cittadina, in quanto verrebbe logico pensare, vista la sua collocazione a ridosso dell'antico palazzo pretorio, che sia stato presto trasformato nel cosiddetto “Officio dei Nodari”, riguardo al quale sempre il Melchiori così riporta: «L'Officio dei Nodari, dove si conservano le pubbliche scritture in materia di lite civili, è contiguo al detto palazzo, e fu fabbricato in questo sito intorno all'anno 1530, mentre per avanti era sotto la scala del palazzo medesimo, dove appunto sino al dì d'oggi si vede il botteghino, ch'essi nodari si servivano, et alle volte scrivevano anche sotto la loggia, dove pure si tenivano le pubbliche udienze, ma ne' tempi più antichi no v'è memoria, dove questi havessero proprio luogo» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 195). Il Nadal Melchiori (che questa volta, però, potrebbe anche non essere precisamente attendibile), ne farebbe allora risalire l’edificazione «intorno all'anno 1530», che tuttavia non andrebbe in contraddizione con l'atto del 1506. Questa ipotesi, però, perderebbe di consistenza andando a consultare la planimetria del palazzo pretorio delineata dall’ingegnere Giovanni Battista Princivalli nel 1834 (l’unica fonte fino ad oggi rinvenuta, almeno per chi scrive, che dia un’idea reale della pianta di quest’edificio, rispecchiante, si suppone, anche le sue antiche funzioni), la quale colloca l’“Officio dei Nodari” al di là dell’Oratorio delle Grazie, sull’attuale Via Francesco Maria Preti (cfr. G. CECCHETTO, Ibidem, 1999, pp. 122-123, fig. 49 – foto 026 ). E quella collocazione si suppone fosse tale anche all’epoca del Melchiori, visto che egli, seguendo un suo consueto ordine descrittivo riscontrabile in più manoscritti, che segue topograficamente i siti, ne parla subito prima d’inoltrarsi a descrivere edifici ed elementi che si avvicinano sempre di più alla torre dell’orologio. In ogni caso, al di là di questo, quello che più stupisce in relazione al Melchiori è che non faccia alcun cenno, nei suoi testi, che lo “studiolo” sia o non sia diventato l’“Officio dei Nodari”, degli affreschi in oggetto; quando, a leggere quelle annotazioni, ci si rende conto con quanta puntigliosa minuzia egli descrivesse non solo ogni brano pittorico che all’epoca si potesse vedere ma anche iscrizioni, scritte e talvolta particolari curiosi di vario genere. Ci si chiede, allora, perché non parli di questo ciclo d’affreschi, tanto più che anche in epoca recente hanno avuto una troppo facile attribuzione a Giorgione giovanile (cfr. GIULIANO MARTIN, Giorgione negli affreschi di Castelfranco, Milano 1993, pp. 143-156), e, tra il Sei e Settecento, Nadal Melchiori compreso, più autori elencavano a Castelfranco, con le attribuzione del tempo, diverse altre opere date al maestro; e gli affreschi dello “studiolo”, come vedremo, in effetti risentono di suggestioni giorgionesche e, come tali, avrebbero potuto ben essere considerati, nel Settecento, di mano giorgionesca. In conclusione, si può affermare che uno studioso come il Melchiori, imbevuto di un clima già proto-illuminista, che descrisse tutto ciò che poté vedere in Castelfranco, non avrebbe omesso la descrizione anche di questo ciclo. Se non ne parla, allora, si può supporre che, o quel locale non fosse a lui accessibile o conosciuto (il che sembrerebbe davvero improbabile), o quegli affreschi all’epoca fossero già stati occultati da intonaco. Nella prima ipotesi, allora, che potrebbe però pure legarsi alla seconda, lo “studiolo” non era l’“Officio dei Nodari” del quale, come visto, egli ne parla; nella seconda, se lo era (ma la citata planimetria del Princivalli lo negherebbe), gli affreschi erano già nascosti da intonaco. Tanto più che, quando parla del pittore concittadino Giovanni Battista Novello, così precisa: «Essendo in età di 25 anni fece per l’Offizio dei S. S: Nodari un Quadro rappresentante la Beata Vergine col Bambino Gesù, San Nicolò Vescovo, e Santa Caterina, nella qual Pittura Gio: Batta dimostrò una pratica grande, et una rissoluta maniera»; e altrove: «In questo Officio evi un quadro lavorato in olio rappresentante la Beata Vergine col Bambino Gesù nelle braccia, S. Nicolò Vescovo protettore di Nodari, et Santa Caterina Vergine e Martire, di mano di Gio. Battista Novello nostro cittadino, come anco si vede la sua descrizione che dice: Novellus p: MDCIII» (NADAL MELCHIORI, Notizie di Pittori e altri scritti, edizione a cura di G. BORDIGNON FAVERO, Venezia-Roma 1968, p. 79, 134). Come per il Melchiori, pure in altri testi, tra quelli consultati da chi scrive, di autori successivi, non si fa alcuna menzione degli affreschi dello “studiolo” (B. Scapinelli sec. XVIII, D.M. Federici 1803 ca. e 1803, L. Crico 1822 e 1833, Andretta-Montini 1858, A. Barea 1858, L. Puppati 1850, G.B.A. Semenzi 1864, A. Caccianiga 1872, P. Battiston 1935?).

Tornando per il momento alla differenza di dimensioni dell'attuale “studiolo” rispetto a quelle concesse dall'atto notarle del 1506, e anticipando velocemente considerazioni sugli affreschi che si approfondiranno con più attenzione più avanti, è utile sottolineare quanto segue, partendo da quanto riporta Luigi Squizzato nel testo su citato: «La modica porzione, nell’angolo del cortile posteriore del palazzo podestarile, confinante con la casa degli eredi di Cassandra (figlia di Pietro Barberio e vedova di Antonio Baroni “aromatario”) nella misura di sedici piedi di lunghezza (circa cinque metri e mezzo), corrisponde all’attuale vano (acquisito in seguito dal Comune e ora adibito a ufficio scolastico). Per l'altra misura, invece, di sei piedi e mezzo per la larghezza (circa due metri e trenta nell’atto) non c'è coincidenza, tuttavia tale misura è rilevabile nella mappa catastale austriaca di Castelfranco, un po’ più a sud, nell’angolo intermedio che si forma tra le proprietà comunali e private. Evidentemente lo spazio mancante di altrettanti due metri e mezzo, verso mattina, coincideva con l'allora “quasi pubblica latrina” (attualmente la parete ad est lasciata con mattoni a vista, rispetto alle altre, presenta una notevole presenza d’umidità di risalita). L’altezza concessa era di sette piedi e un quarto (circa due metri e mezzo, com’è tuttora): doveva contenere sostanzialmente due “scabella”. Ambiente, quindi molto contenuto, con la sola prerogativa di servizio al ricevimento delle persone e della stillazione delle minute degli atti. La porta e le finestre, come stabilito, si dovevano aprire e tuttora si aprono solo sulla parete che dà sulla strada (ora Vicolo dei Vetri) e tuttora s’intravedono contornate nelle modanature della decorazione, anche se leggermente modificate» (L. SQUIZZATO, Ibidem, 2010). Le misure, quindi, del vano cui si riferisce il documento del Saxacher dovevano essere circa di circa m 5,50 di lunghezza per circa m 2,30 di larghezza, mentre l'altezza sembrerebbe coincidere con l'attuale altezza dello “studiolo”. Come detto, lo “studiolo” attuale risulta nelle dimensioni circa il doppio. Considerando, allora, come suppone lo Squizzato, che la parete verso nord, quella con porta e finestra, le cui misure sostanzialmente coincidono con quelle dell'atto del 1506, sia la parete originaria di quella prima costruzione, lo “studiolo”, qualora fosse questo locale, fu ingrandito nelle pareti di est e di ovest. Questo potrebbe trovare una conferma oggettiva proprio in alcuni affreschi, ma non nel fregio del sottotetto: sotto quest'ultimo, infatti, all'incirca nell'ultimo quarto a est della parete nord e per circa m 3 nella parte nord della parete di est (vale a dire, o poco più, per una misura all’incirca corrispondente a quella riportata, per la larghezza delle pareti minori, nell’atto del notaio Saxacher), si conserva quanto è rimasto di un'antica decorazione a finta tappezzeria composta da fasce policrome verticali intervallate da linee nere ritmate da regolari puntinature biancastre (foto 015 ). Questa decorazione a finta tappezzeria, che stilisticamente riporta a tipologie tre-quattrocentesche, sembrerebbe precedere cronologicamente la sovrastante decorazione a fregio continuo. Si potrebbe, cioè, ipotizzare che la decorazione a finta tappezzeria potesse essere stata la prima a decorare l'originaria stanza concessa ai notai Pietro Dotto e Bernardino Zaghi, più piccola di circa metà rispetto ad un successivo ampliamento; ampliamento che potrebbe anche risalire, come riporta il Melchiori, al 1530 circa (ma sulla questione dell’“Officio dei Nodari” s’è già discusso), dopo il quale dovrebbe collocarsi, allora, la realizzazione del fregio con teste alate di putti, racemi d’acanto e tondi. E, in effetti, stilisticamente, la decorazione a finta tappezzeria si collocherebbe in un gusto estetico più antico rispetto a quello del fregio; conclusione che sembra confermata anche dall'analisi in loco degli affreschi, seguendo anche il succedersi temporale dell'intera realizzazione sulla base dell'intonaco di supporto. Ciononostante, bisogna considerare anche la possibilità che tale decorazione a finta tappezzeria possa davvero risalire a prima del XVI secolo, anticipando pertanto il momento dell’edificazione di quel locale e conseguentemente escludendo anche che possa trattarsi di quello menzionato nel 1506 dall’atto del Saxacher. In quest’ultima possibilità, il ciclo in affresco del fregio si potrebbe tornare a datare attorno al 1500, o poco dopo, come stilisticamente parrebbe.

Anticipando ancora una volta, perché utile nel contesto di quanto adesso si sta indagando, quello che si cercherà di meglio approfondire più avanti, oltre alle menzionate pitture ricordate dall’architetto Pietrobon, vi sono anche le altre due decorazioni pittoriche ancora esistenti nello “studiolo” di Vicolo dei Vetri che potrebbero aiutare a ipotizzare quando possa essere stato occultato il fregio, perché, ad un certo momento, occultato lo fu: vale a dire la figura della donna realizzata sul raccordo della vela posto sopra la cappa del caminetto e la decorazione pittorica relativa allo stesso antico caminetto, entrambe successive alla realizzazione del fregio (foto 013 ). Più che le pitture nei riquadri del raccordo della vela, quello che qui interessa è la decorazione che inquadra la cappa del caminetto la quale, invadendo la porzione del fregio di quella parte di parete (in modo simile a quanto avviene con la sovrastante figura femminile) si deve, per forza di cose, ritenere successiva. E successiva forse non di poco, in quanto sembra potersi datare ad uno o forse anche a due secoli dopo. Se così effettivamente fosse, questa potrebbe essere una testimonianza di un intervento di risistemazione del locale, fatto magari anche nei primi anni del Settecento, durante il quale gli affreschi antecedenti potrebbero essere stati occultati da intonaco e ciò, allora, spiegherebbe il motivo del perché, essendo nascosti, Nadal Melchiori non ne abbia fatto cenno. Le due fasce modanate orizzontali, però, che richiudono il fregio per tutta la sua lunghezza, andando a coprire, pur per poco, la parte superiore ed inferiore del fregio si devono considerare successive alla realizzazione dello stesso e potrebbero essere contemporanee, però dipinte dopo il fregio, o risalire anche al tempo delle decorazioni del caminetto (come forse allo stesso momento potrebbero risalire anche quelle che riquadravano l'apertura della porta e della finestra più antiche – foto 014 ), e ciò, allora, se non se ne trovasse una spiegazione, andrebbe in contraddizione con l'occultamento del fregio. Ma di ciò, ne parleremo oltre. Rimangono, in più, le decorazioni floreali a tempera completamente rimosse nel restauro dei primi anni Novanta per dar completa luce al fregio cinquecentesco: queste sarebbero potute risalire all’epoca della realizzazione delle decorazioni del caminetto, avallando la tesi che in quell’occasione la stanza dello “studiolo” fosse stata completamente ridipinta, o quasi.

La palazzina, infine, che ingloba la stanza dello “studiolo”, si presenta oggi in aspetto ristrutturato che ne rende difficile la datazione, mancando all’esterno e nelle stanze al pianterreno elementi che possano con certezza aiutare a stabilirne una presunta data antica di edificazione (e chi scrive, non ha avuto la possibilità di vistare i piani interni superiori). Ciononostante, dall’esterno, sotto una veste che sembra prevalentemente tardo ottocentesca, la palazzina pare riportare un’impronta ben più antica, e forse anche quattrocentesca, in una linea urbanistica perfettamente giustificabile con le altre antiche palazzine adiacenti che si sviluppano alla sua sinistra, cioè verso est (ancora più di oggi, questa continuità edilizia si riscontra nelle foto degli esterni fornite dall’architetto Pietrobon, scattate prima della ristrutturazione iniziata nel 1991 – foto 027 ). Il pianterreno, infatti, si sente castigato un po’ troppo verso il basso, come se in antichità (e in realtà così era) la pavimentazione stradale scorresse ad un livello inferiore rispetto all’attuale. Porta e finestre del pianterreno, nelle loro collocazioni in altezza, sembrerebbero sostituire antiche aperture che probabilmente un tempo avevano maggior respiro, almeno per la porta. Anche le finestre dei piani superiori (quelle del primo piano sono state rimpicciolite rispetto a quelle che si vedono dalle foto messe a disposizione dall’arch. Pietrobon – foto 028 ) non parrebbero solo riadattate ad un gusto ottocentesco da originarie strutture tardo cinquecentesche o seicentesche o settecentesche, bensì riprese da una edificazione più antica, che ancora una volta sembrerebbe quattrocentesca, o perlomeno d’un primo Cinquecento che porta però con sé un sapore architettonico ancora legato al secolo XV. In più, lo spessore dei muri esterni del piano sotto al tetto, è di un'entità troppo consistente per non pensare quei muri assai antichi (e questo lo si nota particolarmente nella facciata interna della palazzina). L’architetto Pietrobon, che ne ha curato la ristrutturazione edilizia, ha confermato a chi scrive che alcun elemento, nel corso dei lavori di restauro, è emerso per far supporre che la stanza dello “studiolo” fosse stata in origine un’entità a sé stante, successivamente inglobata nel resto della palazzina, per la quale precisa anche la difficoltà di dare una datazione certa, considerando le profonde modifiche subite nel corso dei secoli. Tuttavia, precisa che la travatura del soffitto dello “studiolo” ancora attualmente esistente, dovrebbe con ogni probabilità risalire all’epoca del fregio cinquecentesco poiché, se fosse stata sostituita con la posa in opera di nuove travature, certamente si sarebbero danneggiati gli affreschi del fregio subito sottostante, cosa di cui non si trova riscontro (foto 029 ). Tecnicamente parlando, poi, pare inoltre improbabile che una travatura originaria pensata per sopportare solo il peso di una copertura a coppi, come precisa l’atto del notaio Saxacher, possa poi essere utilizzata per sopportare il peso degli altri due piani sovrastanti. La travatura attuale, infatti, pare certo un po’ troppo “robusta” perché in origine dovesse reggere una semplice copertura a coppi, la quale, a buon senso, avrebbe dovuto essere non con una travatura generalmente atta a sostenere una sovrastante pavimentazione bensì a capriate. Detto tutto questo, bisogna pure constatare che la palazzina oggi si presenta in “abiti” alquanto modesti: una veste che parrebbe d’edilizia popolare e, come tale, non consona ad avere al suo interno decorazioni pittoriche antiche d’indubbio pregio non solo stilistico ma anche tematico, con in più, tra l’altro, tutta una serie di stemmi di casate di alcune tra le più importante famiglie castellane e legate a Castelfranco dell’epoca. Forse, in origine, la palazzina era d’un aspetto ben più nobile di quanto non appaia oggi e forse, quello oggetto di questo studio, non era nemmeno l’unico ciclo in affresco che essa conservava. O forse, in un incalzare di tempi piuttosto veloci, un iniziale e decoroso piccolo edificio destinato ad un’attività di un certo rilievo, fu effettivamente inglobato in un nuova palazzina dalle modeste sembianze, portando così ad avvallare la tesi dello Squizzato, trovando magari anche dei punti di contatto con quanto dice (o non dice) Nadal Melchiori, che a noi adesso sfuggono (vale a dire, ad esempio, un primo piccolo edificio innalzato subito dopo il 1506, pochi lustri dopo ampliato alle dimensioni attuali, magari anche con l’aggiunta di altri vani e di altri piani, assieme all’esecuzione pittorica del fregio – ma è un’ipotesi che, ad oggi, non trova alcun riscontro oggettivo). Infine, un’ulteriore possibilità può essere supposta considerando gli anni di cui stiamo parlando, vale a dire quelli degli inizi del Cinquecento, gli anni della guerra della Lega di Cambrai (1508-1516), quando le milizie nemiche occuparono e «[…]saccheggiarono il Castello, e distrussero molti edifizï[…]» (B. SCAPINELLI, Ibidem, E-1 / MS 201, s. n. p.): può essere che dopo queste distruzioni, si procedette a risistemare le costruzioni danneggiate magari, alcune, ristrutturandole o edificandole ex-novo. Come dopo ogni guerra disastrosa si riscontra una campagna di restauri edilizi, ricostruzioni o nuove costruzioni, ciò dovette avvenire anche a Castelfranco dopo la guerra della Lega di Cambrai e, forse, anche l’edificazione dell’“Officio dei Nodari” cui parla Nadal Melchiori riportando la data 1530, può aver avuto luogo proprio grazie a questa campagna di ricostruzioni postbelliche. 

A questo punto della nostra ricerca, è doveroso parlare di un fatto increscioso, che ha compromesso in parte la lettura qualitativa degli affreschi del fregio. Giuliano Martin nel suo testo su Giorgione, edito a Milano nel 1993, pubblica gli affreschi dello “studiolo” di Vicolo dei Vetri già restaurati e sostanzialmente come li possiamo vedere oggi (cfr. G. MARTIN. Ibidem, 1993, pp. 145-153). Il loro restauro, pertanto, è stato fatto durante e dopo la ristrutturazione dell'edificio che li contiene, realizzata tra il 1991-1992 e la data di pubblicazione del suddetto libro, il 1993, quindi prima che il Comune di Castelfranco ne venisse in possesso con l'atto d'acquisto redatto nel 1995 (rogito notarile del 25 dicembre 1995). Il pittore nostro concittadino cui si è fatto riferimento più sopra, dopo aver contribuito, con attenzione e professionalità, alla rimozione degli strati di intonaco che li ricoprivano, fu allontanato da questo incarico ed il lavoro di recupero fu proseguito da altra mano. Sempre il Martin, in nota al capitolo dedicato allo “studiolo”, riporta una relazione tecnica sullo stato di conservazione degli affreschi e un progetto per il loro restauro, redatta dal laboratorio per il restauro di Villorba gestito dai professori Giancarlo David e Roberto Fioretti. Di questa relazione è utile citare quanto segue: «[la pittura del fregio è] […]dipinta con la tecnica ad affresco su intonaco lisciato riconducibile presumibilmente alla metà del secolo XVI[…] Il motivo ornamentale delle fascia è comunque finemente dipinto a grappoli con racemi e tralci, ritmicamente intervallato da tondi a finto bassorilievo: questi recano stemmi di casato, figure simboliche, strumenti musicali, che pur nelle ridotte dimensioni si mostrano felicemente risolti con pochi ed agili tocchi di pennello, testimoniando il taglio di una mano sicura. L'opera, che si presentava ricoperta da uno spesso stato di calce e numerose mani di tempera che l'hanno tenuta negli anni nascosta, è ora stata riportata alla luce grazie all'uso di strumenti meccanici. Questo intervento preliminare ha permesso di verificare che l'approccio al recupero di un affresco, seppur mancante di alcune parti, ha restituito lo stesso in discreto stato di conservazione consentendo una lettura quasi integrale dei motivi ornamentali ed una buona percezione cromatica dell'insieme. Sono comunque necessari ed urgenti alcuni fondamentali interventi di restauro sia conservativo che estetico per garantire la conservazione di questa espressione storico-artistica e arginare il degrado in corso. La superficie pittorica si presenta tuttora ricoperta da una leggera ma vasta scialbatura di calce, dato che il primo intervento a bisturi non poteva essere esaustivo e completamente efficace [foto 030 ]. L'intonaco presenta distacchi profondi in alcune zone, che causano l'instabilità dello stesso. Si è comunque proceduto all'immediato, seppur provvisorio, ancoraggio dei pesi pericolanti tramite una prima stuccatura, tenendo conto anche della contemporaneità dell'intervento di restauro edile e quindi delle inevitabili vibrazioni a cui è soggetta la struttura muraria [foto 031 ]. La pellicola pittorica si presenta invece in discrete condizioni non facendo rilevare particolari sfogliamenti, ma evidenziando tuttalpiù in alcuni punti l'abrasione del colore. Le operazioni di restauro procederanno secondo fasi prestabilite. Per prima cosa si provvederà alla asportazione delle scialbature di calce che andrà rimossa a percussione con strumenti meccanici: si effettuerà quindi la pulitura con solventi lievemente basici. Successivamente si darà corso al consolidamento dell'intonaco attraverso microiniezioni di resina acrilica in emulsione Primal AC33, addizionata con acqua in diluizione al 50%. Per gli stacchi più profondi si interverrà sempre con resina acrilica addizionata a cariche inerti. Seguiranno le stuccature a livello delle lacune e delle fessurazioni, con malta a base di carbonato di calcio e sabbia fine, mescolata a resina acrilica Primal AC33 diluita in acqua al 30%. Le stuccature stesse saranno poi reintegrate a tratteggio con colori ad acquarello, in presenza di abrasioni si interverrà con la stesura di velature sottotono sempre ad acquarello. Infine l'affresco verrà fissato con resina acrilica Paraloid B72 diluita al 3% in tricloroetano dato a spruzzo» (G. MARTIN. Ibidem, 1993, n. 1, p. 155).

Sulla base di questa relazione, si può dedurre quanto segue. Innanzi tutto, che il primo nucleo di fotografie conservato presso la biblioteca comunale cittadina, com'era intuibile dalle foto stesse, risale a poco dopo il rinvenimento degli affreschi, quando essi non erano ancora stati del tutto liberati dagli strati d'intonaco sebbene, però, già se ne potesse leggere in modo piuttosto soddisfacente una loro buona parte. Il secondo nucleo fotografico della biblioteca, invece, ad una fase successiva, quando i lavori di ristrutturazione edilizia dell'intero edificio erano già in corso, e mostra delle immagini della stanza e degli affreschi dello “studiolo”, dove si vede la prima ripulita per il grosso fin quasi alla struttura portante e i secondi già liberati in toto dalle ridipinture d'intonaco, stuccati sommariamente per prevenire loro danni dai lavori edili in corso ma ancora parzialmente velati dalle scialbature di calce. Quest'ultimo nucleo di foto, pertanto, è stato scattato dopo il primo intervento di consolidamento cui fa riferimento la suddetta relazione ma prima del loro vero e proprio restauro. Se questo primo intervento di consolidamento deve essere stato eseguito dal laboratorio di Villorba, poiché viene detto come fatto nella relazione, è difficile pensare che lo stesso laboratorio abbia poi continuato il restauro previsto, considerando che il risultato finale del lavoro non può essere stato opera di professionisti del settore. Chi scrive, purtroppo, non ha potuto avere a disposizione della documentazione positiva a riguardo di tutti questi interventi, che si suppone siano, come dovrebbe essere stato, stati sottoposti alla supervisione della Sovrintendenza alle Belle Arti territorialmente competente (la quale dovrebbe conservare tutte le pratiche legalmente necessarie); pertanto, quanto qui enunciato, si basa solo su logiche supposizioni. Comunque sia, il dato oggettivo è rappresentato dagli affreschi stessi nello stato di conservazione in cui appaiono oggi messo a confronto con quello che appare dai due nuclei fotografici citati. Sia nel primo che nel secondo nucleo di foto, alcuni brani degli affreschi dello “studiolo” appaiono piuttosto ben leggibili e mostrano, senza ombra di dubbio, uno stato di conservazione decisamente migliore di quanto non sia quello attuale (foto 032 , 033 , 034 , 035 , 036 , 037 , 038 , 039 , 040 , 041 ). Per quel che riguarda il fregio, soprattutto, su tutta la sua superficie s'intuisce una resa cromatica alquanto più viva e plastica rispetto all'attuale; gli stessi restauratori, infatti, nella loro relazione non mancano di sottolineare che essi si conservano «in discreto stato di conservazione» e mostrano «una buona percezione cromatica dell'insieme». I brani mancanti che si riscontrano nelle fotografie, sembrano essere quelli oggi esistenti e il danno, pertanto, deve essere imputato a delle operazioni di pulitura dalle scialbature di calce troppo aggressive. Come in ogni intervento di restauro pittorico, la fase più delicata e pericolosa per l'opera è quella della pulitura: ogni successiva ridipintura di reintegro, anche dovesse coprire parti estese dell'originale, è prevalentemente una questione estetica, poiché tutto quanto dipinto sopra può essere rimosso riportando le superfici allo stato precedente, com'è successo per gli strati d'intonaco che coprivano i nostri affreschi (anzi, verrebbe da dire, che per anni hanno protetto i nostri affreschi). La pulitura, invece, che precede ovviamente ogni reintegro pittorico, è una fase del restauro da affrontare con la massima cautela e prudenza, con l'ausilio anche di continue e adeguate analisi e rilevazioni, in quanto, sia che si proceda con strumenti meccanici sia che si proceda con appositi solventi, si agisce direttamente sulla pellicola pittorica originale, rischiando, se si sbaglia, di comprometterla per sempre. Questo è quanto successo agli affreschi dello “studiolo”, che sono stati irrimediabilmente rovinati, almeno da quanto si può giudicare mettendoli oggi a confronto con le fotografie scattate prima della loro pulitura finale. La pulitura ha per gran parte svilito e appiattito non solo il loro cromatismo, che da tonalità calde e marronastre (nonostante le fotografie possano di loro scaldarne le tinte) oggi hanno assunto una predominante fredda e tendente al grigiastro, ma pure la loro stessa resa plastica e la loro tridimensionalità spaziale nelle raffigurazioni, fino a farli apparire oggi di ben altra qualità pittorica, anzi, talvolta addirittura di una qualità quasi scurrile, per non dire quasi banale. In più, sia per quel che riguarda le parti con putti alati e racemi con foglie d'acanto sia per quanto concerne i tondi, soprattutto nelle loro raffigurazioni mitologico-classicheggianti, scialbati e abrasi al punto d'aver cancellato alcuni loro particolari e d'aver reso la pennellata piatta, trasformandoli in una sorta di disegno colorato che ne conserva essenzialmente la struttura iconografica, ma privata di tutte quelle velature che ne davano pregio e vita pittorica. Iconograficamente, infatti, sono ancora ben leggibili ma stilisticamente e qualitativamente assai meno.

Precisato, com'era doveroso, questo aspetto alquanto spiacevole e deplorevole, e dopo aver tentato di capire le possibilità di sviluppo nel tempo dell'intero edificio che ingloba lo “studiolo”, proviamo ora ad improntare un possibile sviluppo nel tempo delle decorazioni pittoriche in esso conservate. A livello iconografico, verrebbe da pensare che le pitture più antiche siano quelle che decorano parte delle pareti nord ed est con i sopravvissuti brani policromi a finta tappezzeria verticale che scendono da sotto il fregio (foto 042 ), la cui tipologia si riscontra prevalentemente tra il Tre e Quattrocento (cfr. le riproduzioni ad acquerello di Memi Botter in M. BOTTER, Affreschi decorativi di antiche case trevigiane, Dosson di Treviso, 1979, tavv. 64-65, 68, pp. 156, 158, 162 – foto 043 , 044 , 045 ), sebbene vi siano, ma con gusto però già più classicheggiante, testi anche cinquecenteschi (si vedano, ad esempio, gli affreschi a finta tappezzeria dell'interno di Porta Santi Quaranta a Treviso in FONDAZIONE BENETTON STUDI RICERCHE, Treviso urbs picta. Facciate affrescate della città dal XIII al XXI secolo: conoscenza e futuro di un bene comune, a cura di ROSSELLA RISCICA e CHIARA VOLTAREL, Antiga Edizioni, Treviso 2017, p. 159, fig. 29). Questi affreschi, nella loro parte superiore, sono coperti dalla fasciatura orizzontale nera della modanatura inferiore del fregio, che però è postuma rispetto al fregio e quindi copre la linea di sutura tra le due pitture, non permettendo di capire quale delle due preceda l’altra o se, invece, siano contemporanee (foto 046 ). E si vuol precisare, in questo contesto, che chi scrive, non ha avuto la possibilità di servirsi di analisi tecniche, chimiche o di rilevazioni scientifiche oggettive o di altro genere che lo potessero coadiuvare in questa ricerca; pertanto, le supposizioni a cui si è giunti, si basano esclusivamente su un’analisi visivo-estetica e storico-artistica dei manufatti. Qualora, come potrebbe sembrare, le decorazioni a finta tappezzeria fossero effettivamente il primo intervento pittorico del locale, quindi le più antiche, queste potrebbero risalire, come abbiamo visto più sopra, o a un edificio antecedente al 1506 e nel Cinquecento risistemato, o, avvallando la tesi dello Squizzato, potrebbero essere quelle che per prime andarono a decorare il piccolo vano cui fa menzione l’atto del notaio Saxacher. A tal proposito, bisogna in realtà constatare che i brani superstiti di queste decorazioni, che, come si è detto, nella parte di nord si estendono per circa tre metri a partire da sinistra (all’incirca, o poco più, per la lunghezza delle pareti minori del locale la cui costruzione fu concessa nel 1506), sembra si concludano a destra regolarmente, come se effettivamente là avessero un tempo trovato il loro limite, magari in corrispondenza di una parete trasversale (foto 047 ). Pure la ritmica alternanza dei colori delle fasce verticali, porterebbe a pensare così, poiché, a due a due, i colori si snodano ripetendosi regolari, in un ciclo completo: due fasce giallastre, due azzurrino biancastre, due verdoline e, a conclusione, due rosso rosate, ripetendosi in questo esatto ordine per altre tre volte (foto 048 ). Pensarli contemporanei agli affreschi del fregio sovrastante, però, striderebbe e parrebbe una forzatura proprio insita stilisticamente nella loro stessa contemporaneità, anche se nel momento della loro esecuzione la stanza avesse avuto le dimensioni attuali: per tipologia, infatti, questo genere di decorazioni di matrice tre-quattrocentesca fu ben presto soppianta da un gusto cinquecentesco che preferiva pitture figurate, come lo sono quelle del fregio, che qui si vogliono datare ad un momento successivo. Questo fregio che, come detto, corre con continuità lungo tutto il sottotetto (cm 75 circa di altezza per m 20 circa di lunghezza), con raffigurazioni che alternano teste di putto alate con ai lati volute vegetali a tondi modanati contenenti, alternativamente, stemmi nobiliari e scene figurate, devono ritenersi, pur se in alcuni casi con ricordi ancora tardo quattrocenteschi (come vedremo), eseguiti entro i primi decenni del Cinquecento (foto 049 ). Chi scrive, fatica a darli alla metà di quel secolo, come supposto dai restauratori Giancarlo David e Roberto Fioretti nella loro relazione, essendo a quell’epoca, anche in provincia, maturati stilemi più articolati, non ancora, talvolta almeno, pienamente manieristi certo, ma di sicuro con un gusto definibile già proto-manierista. Questo fregio dovette in origine svilupparsi con continuità lineare su tutte e quattro le pareti, sebbene oggi presenti significative interruzioni in corrispondenza di un’antica finestra e di un’antica porta a nord (foto 014 ) e, a ovest, per l’inserzione della decorazione della cappa del caminetto e di quella che raccorda la vela che contiene la figura allegorica (foto 013 ); mentre importanti lacune interrompono il fregio come segue: una lacuna di circa cm 50 si trova all’estremità sinistra della parete nord (foto 050 ); per una dimensione leggermente minore una prima lacuna poco prima della metà della parete est, che ha causato la perdita di una testa putto, e altre due più estese all’estremità destra, che hanno causato rispettivamente la perdita di uno stemma e di un’altra testa di putto (foto 051 ); lacune minori all’inizio della terza fascia del fregio nella parete sud, che si conclude, però, con una lacuna abbastanza estesa all’estremità destra, con la relativa perdita di buona parte di un’altra testa di putto (foto 052 ); e, nell’ultima parete, lacune meno rilevanti (foto 053 ). Databili su per giù agli stessi anni del fregio, potrebbero invece essere le decorazioni pittoriche realizzate negli spazi murati tra una trave e l'altra del soffitto delle pareti nord e sud, sopra al fregio stesso, dove vi sono dipinti dei rettangoli monocromi rosati con al centro un fiore (foto 012 ). Agli anni del fregio, ancora, potrebbero risalire anche quei pochi lacerti di antico intonaco che scendono con tonalità rosate di sotto la sua modanatura orizzontale inferiore, irregolarmente e per alcuni centimetri, sulle pareti dove non vi è la finta tappezzeria (foto 016 ). Come lo si vede oggi, il fregio, eseguito ad affresco, dovette essere stato fin dall’origine incorniciato orizzontalmente, sopra e sotto, da fasce modanate continue; quelle che attualmente lo racchiudono, però, devono ritenersi fatte dopo, poiché: primo, tagliano, seppur in minima parte, la figurazione del fregio stesso, in modo particolarmente evidente nei tondi (foto 054 , 055 ) ma spesso chiaramente riscontrabile anche nell’estremità superiore di alcune ali delle teste di putto e nell’estremità di alcune delle code dei volatili che beccolano (foto 056 ); secondo, perché probabilmente eseguite a tempera, non mostrando alcuna interruzione dovuta alla giornate di lavoro che richiede la tecnica dell’affresco e tradendo, pertanto, l’impressione che la loro pellicola pittorica sia posta sopra l’intonaco, a secco, e non sia, invece, parte dell’intonaco. Ciò, però, non toglie la possibilità che possano anch’esse essere contemporanee al fregio che racchiudono, pur se dipinte dopo, a secco. Per la realizzazione del fregio, infatti, se quello che lo accoglieva non era il primo intonaco (cioè quello di tutte le superfici delle pareti), ci dovette essere stata la necessità di rifarlo, per dipingervi, appunto, “a fresco”. Qualora effettivamente il fregio fosse stato dipinto dopo una prima intonacatura del vano, magari quella che recava in affresco la decorazione verticale a finta tappezzeria, per la sua realizzazione sarebbe stato necessario “grattare” in quella zona il vecchio intonaco per poterlo riporre e, a fresco, dipingere la nuova decorazione del fregio. Questo avrebbe certamente comportato la presenza di una linea di sutura tra vecchio e nuovo intonaco che avrebbe potuto essere non così precisa e quindi dare adito ad uno spiacevole risultato estetico: da qui, la necessità di dipingere a secco, cioè a tempera, una fasciatura orizzontale, sopra e sotto, che ne nascondesse le imperfezioni nella linea di contratto tra la nuova e la vecchia superficie; e da qui forse anche la necessità di invadere, coprendola, seppur per pochissimo, la pittura del fregio. Certamente successivi al fregio, invece, sono i brani dipinti sul raccordo a vela della parete ovest, raffiguranti una figura femminile allegorica e dei ramoscelli simbolici (foto 013 ): successivi, perché vanno ad interrompere, sovrapponendosi, la continuità del fregio, ma successivi non poi di molto, visto che la figura si presenta con una “secchezza” incisiva che pare richiamarsi ancora a stilemi mantegneschi, seppure si possa sentire un realismo idealizzante da “stregoneria” letto in chiave giorgionesca come lo poteva “scimmiottare”, ad esempio, Pietro Vecchia nel Seicento, ovviamente senza la sua spumeggiante qualità. Le ultime decorazioni pittoriche, infine, eseguite sicuramente dopo la realizzazione del fregio e probabilmente per ultime, sembrano essere quelle che andavano ad abbellire un antico caminetto nella parete ovest: di queste, rimane gran parte della quadratura della cappa, pur mutila significamene di una buona area della sua superficie che includeva anche un tondo, forse figurato o forse con uno stemma, e poche altre riquadrature che si abbassano al caminetto (foto 057 ). A riguardare queste pitture, mettendole a confronto, per materia e per stile, a quelle sicuramente antecedenti, si ha l’impressione possano risalire ad un’epoca decisamente più tarda, forse di fine Seicento o addirittura di primo Settecento. Sempre, per possibili analogie materiche e di tratto, forse allo stesso periodo potrebbero essere databili pure le riquadrature che andavano a delimitare, nella parte di nord, un’antica finestra e un’antica porta (foto 014 - e non si esclude che all’incirca allo stesso momento possano risalire anche i rifacimenti delle modanature orizzontali sopra e sotto il fregio, sebbene questi possano pure essere testimonianza di una risistemazione della stanza fatta prima). Infine, le decorazioni floreali a tempera rimosse per dar luce al fregio, delle quali però nulla più rimane, è possibile possano essere state realizzate contemporaneamente a queste ultime pitture.

Riassumendo velocemente quanto fin qui detto, la successione temporale delle pitture dello “studiolo” potrebbe essere la seguente: una prima, la decorazione a finta tappezzeria verticale, eseguita forse per l’originaria struttura del locale menzionato nell’atto del 1506, o, se più antica, per un locale che era parte di una struttura antecedente al 1506 e che nulla avrebbe a che vedere col vano concesso dall’atto del notaio Saxacher; una seconda, quella del fregio con le teste di putto alate, le volute d’acanto e i tondi con stemmi e scene figurate (assieme forse ai riquadri rosati tra trave e trave e ai pochi centimetri di intonaco superstiti sotto al fregio stesso), che contraddice le dimensioni del vano menzionato nell’atto del 1506, anche se verosimilmente databile proprio attorno a quegli anni; una terza, eseguita poco dopo il fregio, ma pressoché contemporanea, rappresentata dalle fasciature modanate orizzontali, a secco, sopra e sotto il fregio, per nascondere la linea di contatto tra le due superfici d’intonaco; una quarta, quella della figura allegorica posta sul raccordo a vela della parete ovest, con i suoi riquadri a sinistra e a destra, databile, se proprio non si vuol entrare nel XVII secolo, ad un Cinquecento inoltrato; e una quinta, infine, composta dai riquadri dell’antico caminetto e, forse, da quelli che contornavano un’antica finestra e un’antica porta (assieme, forse, alla decorazione floreale purtroppo totalmente rimossa), presumibilmente databile tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, testimonianza, ipotetica, dell’occultamento del fregio e motivo per cui Nadal Melchiori non ne parla. Da lì, tutti gli altri rimaneggiamenti fino a giungere allo stato attuale del locale, comprese le intonacature precedenti al rinvenimento, nel 1991, delle decorazioni oggetto di questo studio; decorazioni probabilmente rimaste allora nascoste per circa tre secoli.

Si consideri che ognuno dei suddetti possibili interventi dovette aver avuto luogo per sue precise ragioni, che oggi sfuggono.

Di tutti questi interventi decorativi, però, due solo hanno rilevanza storico artistica: il fregio e la figura allegorica; gli altri, ci aiutano solo a meglio comprendere gli sviluppi nel tempo, o i rimaneggiamenti, di questi due.

Sia uno che l’altro, come prima cosa, mostrano delle incoerenze, diciamo così, a livello compositivo o, almeno, di giusta collocazione ambientale. Consideriamo per prime, per semplicità, quelle che riguardano la figura allegorica femminile che va a decorare un raccordo a vela che non è al centro di quella parete (foto 009 ) ma che pur ha ai suoi lati due travature lignee, trasversali rispetto a tutte le altre del soffitto (questa travatura trasversale intacca, seppur per pochissimo, la parte modanata superiore del fregio). Ciò porterebbe a pensare che la pittura sia andata a decorare un elemento architettonico che ad un certo momento si è avuto la necessità di dover realizzare per motivi di utilità strutturale e solo successivamente dipinto per utilità estetico-rappresentativa. Il suo apparente legame col sottostante caminetto è puramente casuale, altrimenti non si potrebbe giustificare la loro netta asimmetria. Ora consideriamo le incoerenze a livello compositivo nello sviluppo continuo della fascia del fregio, che in origine sembrerebbe essersi snodata, senza alcuna interruzione, su tutte e quattro le pareti. Come detto più volte, questo raffigura un alternarsi di due motivi decorativi principali: i tondi, che a loro volta alternano al loro interno, con regolarità, uno stemma a una scena figurata, e un motivo rigorosamente simmetrico di testa di putto alato con ai lati racemi d’acanto che si arrotolano a spirale (foto 049 ). Tutta questa regolarità di simmetrie e regolari alternanze compositive, che respirano certo di un ambiente già umanistico-rinascimentale, tradiscono una netta non corrispondenza simmetrica delle raffigurazioni tra parete e parete. Infatti, al contrario di come verrebbe logico aspettarsi, le raffigurazioni del fregio nelle due pareti maggiori, una davanti all’altra, e quelle delle due pareti minori, una davanti all’altra, non sono per nulla speculari, anzi, mostrano un procedere dello sviluppo tematico del tutto incurante delle interruzioni e del conseguente sfasamento imposto dalla fine di una parete e dall’inizio dell’altra, come se si fosse calcolato uno modulo ripetitivo dalle misure sbagliate rispetto alle dimensioni delle superfici che si dovevano andare a decorare (foto 058 ). La collocazione dei tondi e dell’intero motivo delle teste di putto alate all’interno della parte del fregio della parete sud è, infatti, specularmente del tutto sfasata rispetto a quella degli stessi temi dell’anteposta parete nord; lo stesso per i motivi della parete est rispetto a quelli della parete ovest. Addirittura, si arriva nell’angolo di sud-ovest a costringere una testa di putto sulle due pareti (foto 059 ). Poiché facilmente prevedibile, non si vuol credere ad un errore così grossolano di calcolo (a meno che, a tal riguardo, non vi sia una motivazione ben precisa richiesta dal committente, ma quale?); si deve allora ammettere il persistere, in questo nostro ambiente provinciale tra Quattro e Cinquecento, già nutrito di fresco umanesimo e di rinascimento in via di sviluppo, di una mentalità ancora di ascendenza medievale; una mentalità per cui queste apparenti discordanze scaturite dal moto di un fluire continuo tanto nella vita quanto nell’arte (e, oggi per noi, anche piacevolmente percorribile a livello urbanistico in quei centri storici medievali che ancora ne portano l’impronta), trovavano una loro giustificazione filosofica e religiosa, economica sociale e difensiva, che ne rappresenta, talvolta, pure una delle principali qualità estetiche. Nessuna delle quattro pareti, inoltre, inquadra simmetricamente la raffigurazione del fregio, come se esso avesse avuto inizio non dall’estremità di una delle pareti, bensì da un punto intermedio di una di esse, per poi continuare incurante di ogni proporzione e simmetria sulle altre: l’unica sequenza di logica successione ritmica, pare poter essere individuata nella parte destra della parete di nord, che pare iniziare dalla parte destra della decorazione che andava a riquadrare la sagoma di quella che dovette essere stata un’antica porta (foto 060 ). In quella zona, effettivamente, il tondo con lo stemma dei Costanzo è perfettamente centrato all’estendersi completo laterale dei due brani con le teste di putto alate e i racemi. Forse là, allora, esisteva sin dall’origine proprio una porta. Sulla stessa parete, anche il brano del fregio che corre a destra del riquadro di quella che doveva essere un’antica finestra e a sinistra di quello della porta appena vista, con al centro lo stemma dei Gradenigo, è ben inquadrato simmetricamente, nonostante entrambe le teste di putto ai lati siano, nello stesso punto, interrotte (foto 061 ). A contraddire queste zone di simmetria, però, vi è l’interrompersi della ritmica alternanza di tondi con stemmi e con scene figurate: se tra lo stemma dei Gradenigo e quello dei Costanzo c’è il giusto spazio per un tondo con una scena figurata (collocabile poco più a destra del centro di quella che dovette essere l’antica porta), sulla parte sinistra della parete, tra il tondo con la scena figurata e lo stemma dei Gradenigo, lo spazio non è più sufficiente per potervi collocare un altro tondo il quale, se vi fosse stato, non avrebbe più potuto continuare l’alternarsi ritmico di scena-stemma-scena-stemma, ma avrebbe dovuto accogliere o un altro stemma o un’altra scena, ponendo una continuità o, a sinistra, con la prima scena della parete o, a destra, con lo stemma dei Gradenigo (foto 050 ). Un’altra discordanza a tal riguardo è nella parte del fregio della parete ovest, dove lo stemma dei Moro a sinistra e lo stemma degli Emo (?) a destra continuano sì la ritmica alternanza di stemmi e scene figurate delle due pareti maggiori, ma costringono a far succedere una dopo l’altra, al centro, in continuità, due scene figurate (foto 053 ).

Tutto questo è un bel problema; e cosa significa?

Escludendo anche qui che si tratti di un grossolano, banale errore di calcolo, una prima spiegazione, semplice, tuttavia fondata, potrebbe essere quella appena detta per le altre incoerenze riscontrate, vale a dire il persistere di un atteggiamento di stampo ancora medievale che non dà, a tali soluzioni, quell’importanza d’armonia compositiva per la quale il nostro occhio, oggi, le sente stridenti. Un’altra, potrebbe esser dovuta alle esigenze del committente (o dei committenti), i quali imposero di adattare soluzioni compositamente poco armoniche a vantaggio di una maggiore efficacia rappresentativa della decorazione, finalizzata alle funzioni che in quel luogo si esplicavano. In questo caso, allora, bisogna considerare anche la possibilità che gli stemmi possano essere stati ridipinti e cambiati nel tempo. Se, a tal riguardo, andiamo ad esaminare lo stemma all’estremità destra della parete col caminetto, che dovrebbe forse essere quello degli Emo, soprattutto guardando la relativa foto conservata in biblioteca, che lo raffigura prima del restauro, sotto l’attuale campo, che parrebbe realizzato “a secco”, sembra di poter individuare con una certa chiarezza una metà campo inferiore sopra la quale sta una non ben definita figurazione (forse una mezza aquila vista frontalmente con le ali aperte – foto 062 ). Potrebbe allora essere che lo stemma degli Emo sia stato ridipinto. Anche altri stemmi sembrano dipinti “a secco”, come quello dei Costanzo, ad esempio, sotto al quale, nelle lacune, pare di veder altra pittura (foto 063 ). Al di là delle recenti ridipinture di restauro, se la materia pittorica originale dello stemma dei Gradenigo sembra coerente con quella del resto del fregio, continuando in senso orario in questa disamina della pellicola pittorica delle armi, quella dello stemma successivo, non ancora individuato da chi scrive, anche perché incompleto, sembra in alcune parti del suo semipartito troncato di sinistra eseguita “a secco”, mentre nel partito destro, andato perso, vi sono strani residui grigio-verdastri (foto 064 ). Coerente nella sua materia pittorica con quella del fregio, pare essere il successivo stemma dei Dotto, così come pure quello dei Marta-Brusaporco, nonostante le estese recenti ridipinture. Infine quello dei Moro, all’inizio della parete ovest, che sembra esso pure, in più parti, eseguito “a secco” (foto 065 ). Bisogna precisare però, che il fatto che alcuni brani di un affresco siano eseguiti a secco non significa per forza che debbano essere successivi: infatti, accedeva sovente che alcune zone di un affresco fossero finite a secco. Tuttavia, se non si ripreparava l’intonaco per dipingervi nuovamente a fresco (o a “mezzo fresco”), tutti i rimaneggiamenti successivi fatti su un affresco dovevano ovviamente essere fatti a secco. Nel nostro contesto, in più, bisogna considerare la possibilità che alcuni stemmi siano stati dipinti anche in epoche successive. E, poiché chi scrive non dispone di analisi e indagini tecniche oggettive, non può neppure escludere una possibilità estrema, che tra l’altro risolverebbe il problema di alcune incoerenze compositive d’insieme a tal riguardo: vale a dire che, in origine, tutti i tondi del fregio, o quasi tutti, contenessero scene figurate, successivamente sostituite da stemmi gentilizi. Supposizione questa, tra l’altro, già avanzata dallo Squizzato (cfr. L. SQUIZZATO, Ibidem, 2010).

Nonostante tutte queste considerazioni, oggi ci troviamo di fronte ad un fregio antico, cinquecentesco, nel quale si alternano tondi con scene figurare a tondi con stemmi nobiliari. È logico pensare, allora, che un siffatto lavoro avesse avuto un tempo un suo ben preciso significato simbolico-rappresentativo, legato al luogo stesso per cui fu pensato e realizzato. È normale porsi, di conseguenza, una semplice domanda: a cosa era destinata quella stanza che oggi si suol chiamare “studiolo”? Che nascesse davvero come uno studiolo di un qualche umanista residente a Castelfranco tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, anche qualora si provasse oggettivamente quel caso che abbiamo detto estremo, vale a dire che tutti i tondi del fregio avessero in origine al loro interno una scenetta figurata, pare assai improbabile. Pare assai improbabile per la collocazione della stanza stessa: il primo vano d’accesso di una palazzina, in una posizione d’ingresso, subito a ridosso di una strada, quindi poco consona ad essere adibita a luogo di raccolta, di meditazione e di studio. Considerando l’oggettiva presenza di stemmi di famiglie che tra i loro componenti hanno avuto dei notai, verrebbe lecita la tentazione di avallare la tesi dello Squizzato, ovvero che si trattasse effettivamente di uno spazio adibito ad attività notarile. Ma sul vano la cui costruzione fu concessa con l’atto del notaio Saxacher nel 1506 e l’attuale “studiolo” si è già detto quanto basta e, per avallare quella tesi, bisognerebbe credere, tra i molti altri risvolti, al fatto che un’altra concessione fosse stata fatta ai notai Pietro Dotto e Bernardino Zaghi, permettendo loro di costruire un vano dalle dimensioni maggiori, in grado di sostenere poi sopra di sé il peso di un’intera palazzina. Se il fregio, allora, fosse stato commissionato dai due suddetti notai, i loro stemmi sarebbero stati i primi ad apparire nella decorazione. In realtà, il fregio della famiglia Dotto c’è, il primo, da sinistra, nella parete sud (foto 066 ), e per quello dei “de Zaghis” vi è una lacuna che avrebbe dovuto contenere uno stemma, tra l’altro, proprio in successione a quello della famiglia del collega (foto 067 ); senza considerare la possibilità che, nel tempo, alcuni vecchi stemmi possano essere stati sostituiti da nuovi, rimpiazzando quello dei “de Zaghis” a favore di un altro. La loro attuale collocazione, però, pur ammettendo quella non curanza di ascendenza medievalista, non sarebbe la più ideale a quello scopo. Dopo questi due primi notai, gli altri stemmi testimonierebbero un susseguirsi continuo, almeno fino ad un certo punto, di nuovi notai, portando a pensare lo “studiolo”, alla fine, trasformatosi in quell’“Officio dei Nodari” che in più documenti, nell’orbita dell’antico palazzo pretorio, risulta collocato altrove. Troppe ipotesi che non trovano avallo da dati oggettivi o documentazioni positive. Nell’impossibilità di avere la disponibilità di analisi tecniche e indagini certe sul fregio e sul vano che lo accoglie, quello di cui noi disponiamo oggi, oggettivamente, è solo e proprio lo “studiolo” stesso, il suo fregio e le altre sue decorazioni. Il vano è collocato al pian terreno, su una via secondaria ma a ridosso, o quasi, dell’antico palazzo pretorio. Oggi è parte integrante di una piccola palazzina che ha l’aspetto di un’edilizia popolare, sebbene il suo fregio riveli una qualità pittorica e uno sviluppo tematico di una certa levatura. Per molto tempo, forse per secoli, il fregio fu occultato, quasi per una sorta di damnatio memoriae per ciò che aveva significato quel luogo, e dimenticato. Fino ad oggi, per chi scrive, non sono stati rinvenuti documenti o altre testimonianze certe su quel luogo e su quel fregio. Abbiamo lo “studiolo” e abbiamo il fregio, e il fregio è quello che più ci parla dello “studiolo” stesso. Pensare, come qualcuno ha supposto, che lo “studiolo” sia stato un luogo di conventicole o di riunioni segrete tenute da componenti di alcune tra le più importanti famiglie di Castelfranco o alla città legate, è alquanto improbabile: gli stemmi stessi ne sarebbero la prova prima. Chi, infatti, si riunirebbe segretamente in un luogo per discutere chissà quali cose riservate, magari esoteriche o magari illegali, e poi farebbe dipingere il proprio nome, cioè lo stemma della propria famiglia, ben in vista all’interno di quello stesso luogo di riunione? Sarebbe davvero strano. La presenza degli stemmi ci dice che certamente lo “studiolo” un tempo fu un luogo non privato, probabilmente accessibile al pubblico, forse anche luogo di riunioni ma riunioni lecite che dovettero trattare d’interessi comuni. Forse, come qualcun altro ha supposto, sede di un tribunale per cause minori (visto che altrove, fuori città, si tenevano quelle di più rilevanza o di maggior gravità), che ad un certo momento fu smesso ed il fregio stesso occultato quale testimonianza di un qualcosa che adesso era altrove e che diventava imbarazzante, inopportuno o sconveniente tenerne in vista una traccia così esplicita. Collocato a ridosso del palazzo pretorio, facilmente fruibile perché al pian terreno e a ridosso di una strada, lo “studiolo”, nel suo fregio, accolse i “nomi” di chi là dentro vi svolse funzioni pubbliche o, comunque, di pubblica utilità. Ad un certo momento, quel luogo pubblico, o adibito a funzioni di pubblica utilità, fu chiuso o ne fu cambiato l’uso: da ciò la necessità di occultarne anche una delle sue insegne principali, il fregio (e questo, anche se fosse, ad un certo momento, stato acquisito e adibito a vita privata). Anche la figura femminile allegorica, pur se dipinta successivamente al fregio, parrebbe avallare quest’ultima ipotesi (foto 068 ), mostrando la volontà di rafforzare sull’antico fruitore di quel luogo quel senso di rispetto, di discrezione e fors’anche di timore, che gli si voleva incutere. Altre supposizioni hanno suggerito che lo “studiolo” potesse essere stata la sede di una confraternita, di una società o di un’accademia; ipotesi, anche queste, però, che sembrerebbero difficili da dimostrare.

L’interpretazione della tematica narrata dal fregio è difficile. È difficile, perché di difficili interpretazioni sono le parti figurate dei tondi, quelle a cui è stata demandata la narrazione del significato simbolico-rappresentativo del ciclo decorativo: troppo ermetiche, sintetiche e prive di espliciti attributi. Tanto più difficile se quel caso estremo, per cui gli stemmi andarono a sostituire parti figurate, fosse davvero successo: ci troveremmo, infatti, a leggere un testo monco. Ciononostante, quello su cui si può lavorare sembra mostrare una sua logica di successione, con un punto di partenza e un punto d’arrivo della narrazione figurata, e farci intendere una possibile prima lettura, con risvolti anche di etica morale. Il fregio, l’abbiamo visto, si snoda alternando brani essenzialmente decorativi a brani sicuramente rappresentativi. Al ripetersi di teste di putto alate con ai lati racemi a voluta con foglie d'acanto, alle cui estremità superiori sta un volatile che beccola, spetta principalmente una funzione decorativa; seppur vi si possa anche qui trovare degli accorgimenti figurativi che possono avere una loro precisa funzione didascalica all’interno dell’intero ciclo (foto 069 ). Il tema del putto alato circondato da spirali di racemi è una figurazione piuttosto tipica dell’epoca, che trova ispirazione dalle decorazioni scultoree di epoca classica, romana soprattutto, e che nello spirito del recupero classicistico della cultura umanistica quattro-cinquecentesca si riscontra tutto sommato abbastanza di frequente, e vi appare in incisione nello stesso Polifilo (cfr. FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, ed. Adelphi, Milano, 1998, tomo I, p. 97, fig. a p. 97). La testa di putto alata è riconducibile alla figura dell’amorino alato del mondo classico, mentre nell’iconografia cristiana si ricollega all’immagine del cherubino, che tradizionalmente lo vuole con la faccia da fanciullo attorno alla quale si spiegano otto ali. Vi si può quindi individuare un’allusione all’amore terreno e all’amore spirituale. Anche ai girali d’acanto, in antichità, era associato un forte valore simbolico, allusivo ad un ritorno all’età dell’oro e al culto di Apollo. Lo Squizzato, in queste pitture decorative, vi riscontra una precisa simbologia: «Ai margini in alto dei girali, coppie di uccelli sono colti nell’atto di cibarsi di tali bacche: appartenenti alla specie dei corvidi, forse ghiandaie, riconoscibili dall’accentuata cerchiatura dell’occhio, note per la loro fedeltà, per la monogamia, per il prodigarsi nella cura filiale, per la difesa del territorio nonché per la spiccata memoria visiva nel riconoscere i nascondigli delle ghiande o altre bacche nei luoghi in cui le avevano celate durante la buona stagione» (L. SQUIZZATO, Ibidem, 2010). Per quel che riguarda i putti alati, sempre lo Squizzato, fa notare che essi hanno «[…]gli occhi e bocche chiusi e stranamente privi di orecchi» (L. SQUIZZATO, Ibidem, 2010). A tal riguardo, però, nelle fotografie conservate nella nostra biblioteca e riguardanti queste raffigurazioni (che le mostrano prima della pulitura troppo aggressiva), più ancora che dalla visione dal vero, sembra che i putti non abbiano gli occhi chiusi bensì abbassati (foto 070 ) e, cosa interessante e curiosa, mostrino di direzionare lo sguardo in un punto ben preciso, che pare individuarsi proprio con la porta d’ingresso. A corroborare questa ipotesi, vi sono anche le ombre che danno valore chiaroscurale e plastico all’intero fregio, tondi compresi. Anche queste, infatti, per la maggior parte, sembrano seguire i raggi di una luce proveniente anch’essa dalla porta (foto 071 ). Non in tutte le pareti vi è però questa coerenza: se nella parete nord, la porta fa da vera fonte sia per la luce e le ombre che si proiettano nelle decorazioni sia per gli sguardi dei putti, e così per le pareti est e ovest, per la parete sud sembra che la fonte sia nella direzione dell’attuale sagoma del caminetto (foto 010 ).

Per noi, oggi, i colori han perso gran parte del loro valore simbolico e li guardiamo prevalentemente per le loro qualità decorative e di riempimento, spesso nell’ottica della mimesi della realtà che ci circonda. In antichità, e nel Medioevo soprattutto, ma anche nel rinascimento, essi avevano un grande valenza simbolica, per nulla trascurabile (cfr. M. BRUSATIN, Storia dei colori, Torino, 1983). Non è da escludere la possibilità che pure nel fregio dello “studiolo” i colori abbiano una loro rilevanza simbolica, da mettere in relazione con le parti figurate. Sebbene oggi appaia prevalere una tonalità grigio-biancastra dell’insieme, che di primo acchito ci dà quasi l’impressione di un monocromo, il fregio dello “studiolo” si caratterizzava in origine anche per una sua vivacità cromatica, giocata tutta dallo sfondo continuo rossastro sul quale risaltano per contrasto le campiture azzurro-bluastre che fanno da sfondo alle volute e ai putti alati e il bianco-bruni che, nelle parti figurate, vogliono imitare il marmo (foto 038 ). Al rosso si può generalmente attribuire una valenza positiva, che rimanda al valore dell’amore terreno e spirituale, e una negativa, quale colore legato alla violenza e all’aggressività, all’ira e allo spargimento di sangue; l’azzurro è da sempre collegato al cielo e alla spiritualità celeste; mentre la prassi tecnica di usare il bianchi ed i bruno-grigiastri nel tentativo di imitare la scultura e i bassorilievi marmorei, si pone quasi sempre nell’intento di un richiamo storico, mitologico-classicheggiante. Nella tematica narrata dal fregio, con ogni probabilità l’uso di queste scelte cromatiche non è stata casuale.

Spetta comunque prevalentemente alle scenette figurate dei tondi il ruolo di rappresentare una tematica narrativa la cui ideazione, è logico supporre, sia stata tracciata dalla committenza; al pittore che poi l’ha materialmente eseguita spetta probabilmente l’invenzione delle singole composizioni, nel rispetto delle richieste della committenza. Al di là degli stemmi gentilizi, dei quali ci occuperemo più avanti, la collocazione del locale che accoglie il fregio, come più su detto (al piano terra e subito aperto sulla strada, nonché adiacente all’antico palazzo pretorio), fa pensare che in esso si svolgessero funzioni pubbliche o di utilità pubblica. Il ciclo in affresco, pertanto, doveva soddisfate come tematica un tale scopo. Quale sia l’esatta datazione del fregio non si sa. Solo la sua analisi stilistica ci permette di datarlo sensatamente a cavallo tra i secoli XV e XVI, sebbene sia plausibile ritenerlo opera già cinquecentesca, entro i primi decenni del secolo, difficilmente oltre. Nei soggetti raffigurati nelle scenette che adesso andremo a vedere, considerando la sua probabile funzione comunque sia di pubblica utilità, non pare azzardato ipotizzare possano esservi dei riferimenti o dei richiami, più o meno direttamente allusivi, oltre che ad un preciso monito moralistico rivolto a chi vi aveva accesso, anche alla situazione storica che il nostro territorio in quegli anni stava passando o aveva appena passato. «1507. In questo tempo Castelfranco cade sotto il Dominio di Massimiliano Imperatore, e Re dei Romani. Castelfranco ricuperato dalla Serenissima Republica» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 8). «[…]e dicesi, che [Massimiliano] per alcuni Mesi dimorasse nel palazzo della Publica Rappresentanza» (B. SCAPINELLI, Ibidem, E-1 / MS 201, s. n. p.). «1509. Castelfranco ripreso dall’armi Imperiali. Leonardo Felicer Capitanio per Massimiliano Imperatore» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 8). «[…] fù a Dionigi Naldo da Brisighella valoroso, e fedel Capitanio, che a tutta la Fanteria era proposto dato il carico di far la recuperazione di Castelfranco, che da cento Soldati Spagnoli era guardato. Il quale non portando minor odio a quella Nazione di quello, che egli portasse d’affezzione alla Veneziana Republica con grand’ardire preparatosi a questa impresa, il giorno dietro con molta gente dati più assalti al Castello non fece alcun profitto, essendosi quelli di dentro valorosamente difesi. Ma finalmente per la fede de’ Cittadini ottenutolo, spogliati li Soldati Spagnoli, ed uno per volta licenziati, furono nell’uscir dal Castello sopra il Ponte fatti passar per le picche, e trafitti nelle fosse gettati. […]Siccome l’antepenultimo giorno di quel Mese ottennero ancora Castelfranco, e rubbato il Monte di Pietà saccheggiarono il Castello, e distrussero molti edifizï, che in quel Territorio, nell’Asolano, e nelle Ville del Montello erano sopravanzati. Ma Castelfranco fù di nuovo valorosamente d’Antonio dal Tempio Trevigiano ricuperato con l’ajuto de molti uomini, che nella Pieve di Quero, egli mìse insieme, al quale fù perciò dal Senato concessa la Nobiltà Trevigiana, franchigìa d’ogni imposizione, ed onesta provisione, la quale però egli non volle, sino che la Republica non ricuperò lo Stato, e così si mantenne sino al giorno d’oggi sotto il glorioso e paterno governo della Veneta Republica. Tanto s’ha rilevato dall’Istoria Trivigiana di Giovanni Bonifaccio» (B. SCAPINELLI, Ibidem, E-1 / MS 201, s. n. p.). E ancora il Melchiori: «Alvise intagliador con sua industria oprò che Castelfranco non fosse saccheggiato et incendiato da Tedeschi» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 373). Erano gli anni della guerra della Lega di Cambrai (1508-1516), lega con la quale tutti i principali stati europei dell’epoca si coalizzarono contro lo Stato veneziano nel tentativo non solo di fermarne l’espansione in terraferma bensì pure di distruggerlo completamente per poi spartirsi le sue immense ricchezze. Come ricordato dagli storici appena citati, anche Castelfranco fu teatro di scontri sanguinosi, occupazioni, saccheggi e distruzioni. Se il fregio fosse stato eseguito prima di questo tragico evento, in esso se ne potrebbe leggere un sintomo del clima di turbamenti che lo precedettero; se, come è più probabile, fosse stato eseguito dopo, le sue pitture potrebbero anche essere intese come un monito contro siffatti eventi catastrofi, le cui funeste conseguenze pesavano su tutti. Pensarlo eseguito durante quegli anni di guerra, pare assai difficile. E allusioni a tal riguardo, nelle scene raffigurate nei tondi paiono proprio non mancare.

Abbiamo appena detto che, sulle raffigurazioni dei tondi, pur anche se in origine potessero essere stati più numerosi di quanti non siano oggi, si può ipotizzare lo svolgimento di una tematica dai risvolti anche etico-morali, incentrata sulla vita in tempi di pace e in tempi di guerra, individuando un suo possibile inizio e una sua possibile fine, in una logica successione figurata (foto 072 , 049 ). Questa partenza, porrebbe avere inizio dalla parete ovest, l’unica, tra l’altro, che mostra due tondi figurati contigui e centrali, perfettamente collocati a livello compositivo nella fascia di quel lato (foto 053 ). A sinistra e a destra dell’attuale sagoma della cappa del caminetto, vi sono raffigurati rispettivamente una donna nuda stante, vista frontalmente e che poggia su quel che pare un globo o, meglio, una sfera, mentre tiene tra le mani un lembo di stoffa che s’inarca a vela (foto 34 , 035 ), e un raggruppamento di strumenti musicali posti alla rinfusa (foto 036 , 037 ). La figura femminile è stata individuata da Adriano Mariuz come la rappresentazione allegorica della dea Fortuna (cfr. A. MARIUZ, Giorgione pittore di affreschi, in Da Bellini a Veronese. Temi di Arte Veneta, a cura di GENNARO TOSCANO e FRANCESCO VALCANOVER, Venezia, 2004, p. 304). Tra le diverse tipologie iconografiche della Fortuna, infatti, vi è anche quella di una fanciulla nuda che sta in piedi sopra una sfera e viene sospinta da una vela che tiene con le mani (Giordano Berti). Il tondo subito alla destra di quello con la Fortuna, verso il quale spira il vento che inarca la vela della dea, racchiude un insieme di strumenti musicali a corda e a fiato, forse un’allegoria della Musica ma che allude certo a momenti di gioia, serenità e spensieratezza. Il messaggio che pare di cogliere potrebbe essere, quindi, quello per cui se si ha la fortuna di vivere in pace la nostra vita sarà fiorente, piacevole e piena di armonia. Da questo primo monito, le raffigurazioni che continuano nelle due pareti maggiori (foto 050 , 052 ), andando da ovest verso est, raffigurano una, quella della parete nord, un carro trionfale condotto da un vecchio e trainato da due cavalli (l’unico tondo raffigurato della parete – foto 073 , 074 ), l’altra, quella della parete sud, un curioso satiro che porta sulle spalle una cesta colma forse di pani o forse di pesci e che va verso un’altra cesta, a terra e ben più grande, anch’essa colpa di pani o di pesci (foto 075 , 076 ). Il carro col vecchio potrebbe essere interpretato come un’allusione allegorica del Tempo, mentre il satiro una sorta di allusione allegorica dell’Abbondanza o della Prosperità. La personificazione del Tempo viene generalmente rappresentata con la figura di un anziano dalla lunga barba, con in mano una clessidra o una falce. Qui, il vecchio barbuto e di profilo pare tenere in mano un arnese oblungo; ad avallare la possibilità che si tratti dell’allegoria del Tempo, sembrerebbe aiutare anche la decorazione a clipeo posta sul fianco del carro dove, sebbene poco leggibile a causa dello stato di conservazione, si potrebbe identificare uno dei suoi attributi, l’uroboro, un serpente che si morde la coda formando un cerchio senza inizio né fine, entro il quale vi è dipinto un soggetto, però, non ben decifrabile. Il carro stesso si presenta come un’allusione allo scorrere del tempo. Questo tondo, assieme a quello corrispondente sulla parete di fronte, imprime un moto direzionale all’intero ciclo. La direzione di marcia di entrambe queste due ultime raffigurazioni parte dalla Fortuna e dalla “Musica” e va verso est, forse a voler dire che, da queste ultime, finché la buona sorte non ci abbandona, si va verso il benessere e una vita lunga, che pur possono, però, fuggir via velocemente. come un carro trainato da cavalli. A metà circa della parete sud, si colloca l’aggraziata raffigurazione di un elegante giovane falconiere, appoggiato a un muretto o forse a un tavolo, col suo falco al braccio (foto 077 , 078 ). Nell’altra parete maggiore, purtroppo, non vi è un’immagine corrispondente (foto 050 ). Il falconiere è una raffigurazione che pare ben confermare questa ipotesi di lettura del ciclo in affresco, poiché si pone effettivamente come un punto intermedio e di svolta, con suggerimenti simbolici allusivi contemporaneamente al bene e al male. Il falconiere, infatti, rimanda per tradizione medievale al modello di vita cortese, galante e aristocratico e, sebbene la falconeria fosse l’unica attività venatoria a cui potessero partecipare anche le donne, rimane comunque un’occupazione cruenta. Il falco, poi, è un caratteristico attributo dell’amor cortese e spesso nelle raffigurazioni compare come distintivo di status sociale e di nobiltà seppur, però, sia spesso inteso con valori ambivalenti: da un lato, come quelli di libertà, sobrietà, giovinezza, speranza o pacifica concordia, dall’altro rivestendosi talvolta di valenze negative quali l’immagine di temperamento sanguigno e anche quella dei vizi, l’orgoglio soprattutto. L’ambivalenza del significato simbolico di questo tondo, troverebbe conferma anche a livello compositivo: la raffigurazione, infatti, mostra il giovane falconiere visto di fronte, a braccia sostanzialmente aperte in una positura che pare proprio faccia da punto di trapasso tra due diverse realtà. La sua posizione di apparente stasi tradisce ben presto un ritmo leggermente tortile e dalla ponderazione instabile poiché, appoggiando tutto il peso del corpo sulla gamba sinistra per genuflettere l’altra e per bilanciare il braccio sollevato che tiene il falchetto, aggrappato al solido guanto e accecato dal cappuccio in pelle (che sarà tolto solo al momento della caccia), ha necessità di stendere l’altro braccio sul piano d’appoggio. Questa positura, nonostante lo sguardo dritto davanti a sé, ma rivolto in basso, verso chi guarda, obbliga il giovane falconiere a reclinare la testa e, nell’insieme, la figura dà cenno di un lieve moto nella direzione opposta alla Fortuna e alla “Musica”, verso gli altri tondi allegorici. La scenetta successiva, posta al limite estremo della parete sud, e che come la precedente non ha un suo corrispettivo sulla parete opposta, mostra già, in questo ipotetico itinerario tematico, un netto cambiamento di significato. Essa, infatti, raggruppa due armature, un elmetto, armi e altri apparati e congegni bellici che, sebbene non indossati o ancora impiegati, già son sufficienti ad introdurre in clima di guerra, distruzione e dolore (foto 032 , 033 ). Si coglie in essa, tuttavia, un intento di buon auspicio o una eco positiva in quanto questi trofei d’armi o di guerra, vale a dire le armi e le spoglie del nemico vinto che il vincitore portava in patria a testimonianza dei propri successi sui campi di battaglia, per antica simbologia, assunsero figurativamente la valenza di un’allusione allegorica alla Vittoria. Infine, nell’ultima parte del fregio, nella parete est (foto 051 ), le ultime due raffigurazioni, una figura femminile stante ignuda che ci gira le spalle (foto 079 , 080 ) e un guerriero a cavallo armato di lancia (foto 081 , 082 ). È evidente l’epilogo della narrazione, dove la figura femminile nuda di spalle fa eco, con un richiamo diretto, a quella della Fortuna posta giusta di fronte, ribaltandone però le sorti. Si tratta forse di una strana immagine della Discordia o forse, più probabilmente, potrebbe essere la Fortuna stessa che, scesa dalla sfera e “ammainata” la vela, ci volta le spalle. Qualcuno ha proposto possa trattarsi dell’allegoria della Fama, ma pare improbabile. Da essa parte a galoppo il cavaliere verso un destino ignoto. L’ultimo monito della narrazione, anche qualora si volesse vedere nel cavaliere al galoppo una vaga allusione al San Giorgio che va a liberare la principessa (e ogni cavaliere ha la sua principessa da liberare), non è certo un monito positivo, in quanto potrebbe pure leggersi come un’allusione allegorica all’arte della Guerra, e verrebbe anche da pensare che quella mancanza di corrispondenze simmetriche delle raffigurazioni tra parete e parete, di cui si è detto, siano quasi volute: se nella parete dell’inizio del fregio vi è simmetria e armonia, queste, nelle restanti pareti, vanno via via perdendosi e ciò, dando sempre più spazio ad un caos compositivo, acuisce la forza della narrazione.

Da sottolineare, infine, la mancanza di ogni esplicito riferimento a soggetti religiosi, che non può ritenersi casuale. Come appena detto, infatti, solo l’ultimo tondo figurato, quello col soldato a cavallo, può, ma in modo alquanto aleatorio, vagamente alludere all’immagine di San Giorgio, vale a dire all’immagine di uno dei simboli religiosi della lotta del bene contro il male, anzi, della vittoria del bene sul male. Le stesse teste di putto alate, che si ripetono uguali, tra tondo e tondo, riconducibili alla figura dell’amorino alato del mondo classico, possono essere lette anche come un’allusione all’iconografia cristiana del cherubino. Nonostante ciò, in tutte le decorazioni in affresco dello “Studiolo”, nulla può essere palesemente e chiaramente definito religioso. E se, quindi, come chi scrive propende, l’utilizzo di questa “aula” era effettivamente destinato a Tribunale per cause minori, sembrerebbe insolito che non vi fosse alcuna immagine religiosa e, anche, che non vi fosse alcuna immagine direttamente riferita all’autorità giudiziaria come, appunto, un’allegoria della Giustizia. Tuttavia, non si può escludere che non vi fossero, solo che, invece di essere realizzate in pittura, immagini religiose o miratamente allegoriche potevano benissimo essere state realizzate come sculture, opportunamente collocate là dove servivano.

Nel fregio si alternano con regolarità alle scene figurate gli stemmi gentilizi di alcune importanti famiglie di Castelfranco o a Castelfranco legate (foto 083 ): alle estremità opposte della fascia della parete ovest (foto 053 ), a sinistra, l’arma dei Moro (foto 084 , 065 ), a destra, quella forse degli Emo (foto 062 , 085 ); sulla fascia della parete nord, (foto 050 ) partendo da sinistra, l’arma dei Gradenigo (foto 086 , 087 ) e poi quella dei Costanzo (foto 063 , 088 ); sulla fascia della parete est, a sinistra l’arma di una famiglia (foto 089 , 064 ) da chi scrive non identificata (il partito di sinistra troncato, sopra interziato in banda grigiastra, con cinque tondi rossi, su fondo bianco, sotto interziato da tre bande rossastre su fondo bianco -forse Emo?-; nonostante vi siano rimaste tracce di colore grigio-verdastro, il partito di destra è andato stranamente completamente perso, come fosse stato volutamente cancellato), a destra un’estesa lacuna (foto 067 ) dove certamente dovette esservi un tondo probabilmente con uno stemma (che verrebbe da pensare potrebbe essere stato quello degli Almerigo-de Castellis?); sulla fascia della parete nord, da sinistra, prima l’arma dei Dotto (foto 090 , 066 ) e infine quella Marta-Brusaporco (foto 091 , 092 ). Si è visto come vi sia la possibilità che tutti questi stemmi gentilizi possano essere stati realizzati in un secondo momento rispetto al fregio: la realizzazione “a secco” di alcuni essi ne rafforzerebbe la supposizione; in altri però, s’è detto, come quello dei Gradenigo, dei Dotto e dei Marta-Brusaporco, la materia pittorica sembra coerente con quella del fregio, almeno in alcune parti. Interessante è notare la loro collocazione all’interno dello svilupparsi del fregio: nella parte che abbiamo detto potrebbe essere quella che inizia la narrazione figurata, ai lati esterni dei tondi della Fortuna e degli strumenti musicali, vi sono gli stemmi gentilizi dei Moro e forse degli Emo, due importanti famiglie veneziane che avevano possedimenti nel nostro territorio; e lo stemma dei Gradenigo, altra importante famiglia veneziana, è la prima arma della parte del fregio nella parete nord. Tra i membri di tutte e tre queste famiglie, vi sono stati rettori che hanno governato la nostra città per conto della Serenissima e, allora, forse non è casuale che i loro stemmi abbiano trovato quella collocazione, mentre tutte le altre armi gentilizie oggi ancora presenti (e forse anche quella non individuata) appartengono ad alcune tra le famiglie cittadine allora più notabili e si trovano sulle fasce del fregio delle altre due pareti. Rimane l’arma della famiglia Costanzo, posta dopo lo stemma dei Gradenigo in quella parete; una famiglia che non era veneziana ma che, fedele alla regina di Cipro Caterina Cornaro, fu di grande utilità alla politica “da mar” della Repubblica; una famiglia inoltre che, per i legami con Castelfranco, si potrebbe quasi considerare castellana di adozione e che certamente fu, all’epoca, tra le più importanti del nostro territorio. Per maggiori informazioni su queste famiglie, si veda quanto riportato in appendice.

Per quel che riguarda l’altra impostante rappresentazione che si trova dipinta sul raccordo a vela posto sopra la cappa del caminetto, sulla parete ovest, la figura femminile allegorica con ai lati i ramoscelli simbolici (foto 068 ), questa, per le considerazioni su fatte, dovrebbe datarsi ad un momento successivo rispetto al fregio, come anche stilisticamente parrebbe. Sul suo significato, in relazione alla presunta destinazione del locale a studio per i notai Pietro Dotto e Bernardino Zaghi, Luigi Squizzato scrive: «Nell’insieme la simbologia, quasi certamente, allude alla figura notarile: figura “super partes” depositaria a fedele garanzia nel tempo degli atti stipulati tra vivi e delle loro ultime volontà. I putti alati con occhi e bocche chiusi e senza orecchi, come pure la donna anziana, inserita nel raccordo a vela della cappa sopra i resti di un camino, nello stesso atteggiamento e con un orecchio in mano, sottintendono con specifica funzione visiva alla deterrenza per quanti: testimoni, chiamati alla responsabilità della presenza o della corresponsione nella firma di atti notarili, in particolare testamentari, avevano l’obbligo di non rivelare quanto visto, udito o sottoscritto “quam non habeant pandere aut manifestare volontatem suam”, fino all’ufficiale pubblicazione dell’atto». Al di là della destinazione a studio notarile del locale, con alcune necessarie precisazioni, l’interpretazione data dallo Squizzato è, ci pare, da avallare. Si tratta di un’immagine certamente inquietante e dal significato esplicito se davvero, come parrebbe, tiene, nella mano destra alzata il suo stesso orecchio. Come meglio sembra di intuire nelle foto conservate in biblioteca, questa figura allegorica è priva dell’orecchio destro, ma non di quello sinistro e, come abbiamo visto per le teste alate dei putti, anche questa, più che avere gli occhi chiusi, sembrerebbe avere lo sguardo rivolto verso il basso, rivolto, cioè, verso chi entrava in quel locale (foto 093 , 094 ). E, sicuramente, i due ramoscelli che s’incrociano ai suoi lati, dovevano rafforzarne il significato per una lettura allegorica che al tempo dovette essere certamente più comprensibile di quanto non possa esserlo per noi oggi. Questi ramoscelli, sembrerebbero essere ramoscelli di ulivo e, se così fosse, ciò rafforzerebbe un’interpretazione allegorica che potrebbe essere riconducibile in qualche modo alla Giustizia: il ramoscello d’ulivo, infatti, è spesso associato alla Vittoria che, nel nostro caso, potrebbe alludere al trionfo della legge sull’ingiustizia. L’orecchio mozzato, poi, era speso utilizzato come allusione della Calunnia (seppure l’icnografia della Calunnia sia ben diversa dalla nostra), ovvero come una sorta di attributo per coloro che usavano la calunnia per screditare la fama altrui. Ed è interessante notare che Vincenzo Catari nei suoi scritti, disquisendo della Calunnia di Apelle, lancia anche un preciso monito ai giudici e a tutti coloro che sono chiamati a giudicare perché non condannino gli accusati per le sole parole degli accusatori, senza sentirli e senza averne prove certe: «Così definisce Luciano la Calumnia già dipinta da Apelle, onde ne raccoglie poi che quella non è altro che una falsa accusazione creduta dal giudice di chi non sia presente à dire il fatto suo» (VINCENZO CATARI, Le imagini colla sposizione degli dei degli antichi, Venezia, 1556, p. 141). Il mozzare l’orecchio, ancora, come il mozzare la lingua, ecc., era una precisa punizione inflitta anche da noi in antichità, e pure nel Quattrocento e nel Cinquecento, per ben specifici reati. Si vuole insistere su quello che sembra un preciso legame di questa figura con l’attività di chi amministrava la giustizia, perché chi scrive è della convinzione che lo “studiolo”, in origine, fosse adibito proprio ad una sorta di tribunale minore. E lo stesso fregio appena visto, anche con tutte le sue armi gentilizie, anzi, soprattutto con le sue armi gentilizie, sembrerebbe ben più adatto ad andare a decorare un siffatto luogo piuttosto che uno studio notarile o, meno ancora, un ambiente privato, fosse anche, questo, stato una confraternita, una società o un’accademia.

Per tentare una lettura stilistica delle pitture dello “studiolo”, conviene prima premettere una veloce analisi delle tecniche e delle modalità impiegate per la loro realizzazione. Il fregio, la figura allegorica della donna e la decorazione a finta tappezzeria sono pitture realizzate sostanzialmente ad affresco, pur in alcuni punti con rifiniture a secco (foto 058 ). Ciò significa che, con questa tecnica, il pigmento pittorico diventa parte dell’intonaco stesso su cui è dipinto e, perché questo avvenga, bisogna che l’intonaco sia ancora fresco quando lo si dipinge cosicché, asciugandosi, per il processo cosiddetto di carbonatazione, l’intonaco assorbe la pittura garantendone una durata ben maggiore rispetto alla tecnica “a secco”, dove il pigmento pittorico rimane in superficie ed è per questo ben più vulnerabile. L’intonaco, quindi, dove vi sono le pitture è stato steso in uno o più strati sulla muratura. L’ultimo strato d’intonaco ancora fresco, tradizionalmente detto intonachino, è quello su cui si dipinge. Oltre ad una gamma di colori ristretta, un altro importante vincolo che pone l’affresco è la necessità di dipingere piuttosto velocemente, prima cioè che l’intonaco si asciughi oltre certi limiti. Questo imponeva la suddivisione della superficie murale da dipingere in zone ben delimitate, le cosiddette giornate di lavoro, da dipingere prima che l’intonaco asciugasse. Poiché, un po’ come per l’acquerello, l’affresco lascia ben poco spazio alle correzioni, considerando anche la necessità della sua veloce esecuzione, il pittore doveva servirsi di un metodo efficace per poter trasportare sull’intonaco il disegno preparatorio studiato in precedenza. Se andiamo ad osservare le pitture del fregio dello “studiolo”, possiamo notare che, per alcune sue parti (i tondi con le scene figurare e gli stemmi), è stato utilizzato un compasso per tracciare ad incisione, sull’intonaco ancora fresco, i bordi a cerchio delle cornici (e al centro di alcuni tondi, è ancora individuabile il puntamento del compasso – foto 095 , 096 , 097 ). È possibile che prima di questo, il pittore (o la maestranza) abbia tracciato le linee orizzontali dei cornicioni modanati superiori e inferiori con l’uso del cosiddetto battifilo, vale a dire un filo teso tra due chiodi e sporcato di una terra, generalmente rossastra, che si tendeva e si faceva frustare con un colpo secco sul muro, ottenendo così una riga perfettamente dritta. Per le parti figurate del fregio e per la figura femminile allegorica non sembra siano stati utilizzati disegni preparatori a sinopia e, non trovando solchi, nemmeno tradotti a graffito, bensì parrebbe essere stata impiegata la tecnica dello spolvero: il disegno preparatorio era riportato in scala su un cartone il quale veniva poi bucherellato seguendo la traccia dei contorni principali della figurazione; posato sulla parete, attraverso la tamponatura con terra o polvere di carbone, il disegno era trasferito sull’intonaco. In questo modo dovrebbero essere state realizzate le tracce base di tutte le figurazioni. È interessanti evidenziare come, per le parti decorative con le teste di putto alate e i girali d’acanto, sia sempre stato utilizzato un unico cartone di spolvero per ogni compartimento tra tondo e tondo, essendo tutte queste figurazioni, per le linee di base, esattamente identiche (foto 098 ). Si può quindi supporre che, stesi dagli aiutanti di bottega gli strati d’intonaco sulla zona stabilita per ogni giornata di lavoro (i cui limiti naturali, per il fregio, dovettero essere i tondi figurati e quelli degli stemmi), e forse anche preparata la base rossastra con l’uso dell’intonaco “a marmorino” rifinito per la sua lucentezza forse con sapone o olio, siano stati riportati con lo spolvero le parti decorative tra tondo e tondo; fatto questo, forse ancora agli aiutanti di bottega spetta l’aver dipinto ad affresco le parti base delle teste di putto alate e dei racemi a loro laterali, per poi essere rifinite con una sorta di “ultima mano” dal maestro di bottega, considerando che alcune parti hanno una forza espressiva di qualità assolutamente non mediocre, che solo un pittore capace ed esperto poteva rendere con tanta abilità (foto 099 , 100 ). Alcune parti poi, di lumeggiature a biacca e di ombre, sembrerebbero stese “a secco” o, per lo meno, “a mezzo fresco”, come pure gli sfondi con velature azzurrastre tra le volute (foto 101 , 102 ). Se per la realizzazione della figura femminile allegorica, considerate le sue dimensioni, si può supporre un’esecuzione complessiva in un unico momento (o in due o tre giornate di lavoro, le parti decorative e poi la figura), per il fregio vien da pensare che le pitture dei tondi siano state eseguite, direttamente dal maestro, in un secondo momento rispetto alle zone decorative dei putti e dei racemi, dopo aver trasportato, anche qui probabilmente con la tecnica dello spolvero, il disegno preparatorio sulla superficie da dipingere.

Il fregio dello “studiolo” si può sicuramente considerare opera di una maestranza veneta attiva nel nostro territorio a cavallo tra i secoli XV e XVI. Si deve essere trattato probabilmente di una bottega che faceva capo a un pittore dotato certamente di buone qualità esecutive, capace di cogliere alcune sfaccettature e alcuni stilemi compositivi, stilistici ed esecutivi tra i più innovativi del suo tempo, al punto da poter essere collocato, pur con alcune riserve che vedremo, tra gli artisti operanti nell’orbita delle influenze giorgionesche, come ha fatto Enrico Maria Dal Pozzolo nella sua recente monografia sul grande maestro del Cinquecento (cfr. E.M. DAL POZZOLO, Giorgione, Milano, 2009, p. 180, fig. 144). Il rinvenimento di documentazioni positive sulle attività pittoriche svolte da queste maestranze a Castelfranco e nel nostro territorio (e non solo per queste), purtroppo è stato assai compromesso dalla già citata guerra della Lega di Cambrai, perché «[…]quello fu il tempo, nel quale il fuoco ridusse in cenere le Scritture del Publico Archivio» (B. SCAPINELLI, Ibidem, E-1 / MS 201, s. n. p.) e di altre raccolte documentarie, e fu «[…]rubbato il Monte di Pietà [e le armi Imperiali] saccheggiarono il Castello, e distrussero molti edifizï[…]» (B. SCAPINELLI, Ibidem, E-1 / MS 201, s. n. p.). Ciononostante, i numerosi affreschi di facciata e d’interni risalenti a quest’epoca giunti sino a noi, non solo a Castelfranco ma praticamente in tulle le località del Veneto, e si pensi solo a Treviso, attestano l’esistenza di numerose maestranze, a capo delle quali sovente vi erano abili artisti di rinnovata fama, che erano chiamate di città in citta, di località in località o di villa in villa a soddisfare i desideri di una clientela spesso assai esigente nella domanda di qualità esecutiva e di scelta icnografica dei soggetti. Tra gli esempi più illustri e studiati a tal riguardo, da noi, vi è il celebre Fregio delle Arti liberali e meccaniche di Casa Marta Pellizzari (ora Casa Giorgione), una parte del quale è ancora oggi quasi unanimemente data alla mano di Giorgione (foto 103 , fonte dell’immagine: https://commons. wikimedia.org/wiki/Category:Liberal_and_Mechanical_Arts_by_Giorgione?uselang=it#/media/File:Giorgione-Fries1_FoNo.jpg, e foto 104 , fonte dell’immagine: http://www.biblos.it/category_products /view/15/115), sebbene il suo rovinoso stato di conservazione nel corso dei secoli sia stato la causa di pesanti interventi di restauro con ridipinture molto estese, che ne hanno compromesso la qualità, rendendo assai difficile la lettura qualitativa al punto, talvolta, da far dubitare sulla stessa attribuzione al grande maestro (foto 105 , 106 ): si consideri, ad esempio, che il restauro, e le relative estese ridipinture, realizzato da Giuseppe Gallo Lorenzi nella prima metà del XIX secolo ha ormai quasi duecento anni e presenta patina e screpolature che in talune zone rendono quelle ridipinture difficili da distinguersi dalla materia pittorica originale (foto 107 ). Il fregio dello “studiolo”, per le sue parti figurate nei tondi, poco dopo il suo rinvenimento, è stato erroneamente attribuito a Giorgione giovane (cfr. G. MARTIN. Ibidem, 1993, pp. 145-153) e questo anche perché i brani in affresco superstiti del maestro giunti sino a noi, come quello di Casa Marta Pellizzari, si conservano in uno stato di assai problematica interpretazione stilistica (foto 108 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org /wikipedia/commons/0/02/Giorgione_-_Nu_f%C3%A9minin1.jpg). Abbiamo detto di come pure il restauro subito dal fregio dello “studiolo” ne abbia compromesso la qualità e quindi la lettura, pertanto, a tal proposito, di grande aiuto ci sono le immagini fotografiche scattate durante e subito dopo il suo ritrovamento, anche sulla base delle quali si fonda una buona parte dei giudizi qui espressi (foto 032 , 033 , foto 34 , 035 , 036 , 037 ). Chi scrive non è riuscito a trovare in Castelfranco e nel suo territorio pitture in affresco che possano essere sensatamente avvicinate alla stessa maestranza che ha operato nello “studiolo”, seppure vi siano assonanze e derivazioni da una cultura figurativa comune ad altri pittori che da noi hanno lavorato all’incirca negli stessi anni. Il pittore dello “studiolo” deve con ogni probabilità esser stato a conoscenza del Fregio delle Arti liberali e meccaniche di Casa Marta Pellizzari e degli stilemi dell’arte giorgionesca (si pensi, ad esempio, anche al David attribuito a Giorgione del Duomo di Montagnana – foto 109 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia. org/wikipedia/commons/9/97/David-Giorgione.jpg - o ad alcuni degli affreschi più giorgioneschi del Barco di Caterina Cornaro ad Altivole – foto 110 , fonte dell’immagine: https://bibliotecaltivole.it/arte-e-territorio/il-barco), visti i diversi concreti richiami tematici a quell’ambiente culturale. Come certe altre influenze stilistiche, graficamente plastiche e scultoree, sono di sicura ascendenza mantegnesca, sulla scia, ma aggiornata, degli affreschi di facciata di Casa Bovolini Pinarello (foto 111 ), sempre in città, con le sue due monumentali Fatiche d’Ercole (foto 112 , 113 ), dove l’Ercole soffoca Anteo è di diretta derivazione da un’incisioni tratta da un’opera del Mantegna (foto 114 , fonte dell’immagine: aste.catawiki.it/kavels/18413461-da-andrea-mantegna-1431-1506-ercole-soffoca-anteo). L’affresco che in Castelfranco più sembra avvicinarsi stilisticamente ad alcuni brani figurati del fregio, pare essere quello della Conversazione di Maria con i santi Antonio Abate e Girolamo (foto 115 , fonte dell’immagine; http://www.luigisquizzato.it/novello.htm), datato 1496, già Banca Popolare di Castelfranco Veneto, scoperto nel 1962 nel vano di un’adiacenza di Palazzo Soranzo Novello (cfr. Opere della Collezione della Banca Popolare di Castelfranco Veneto, catalogo a cura di M. MONDI, Castelfranco Veneto, Galleria del Teatro Accademico, 24 aprile - 9 maggio 1999, Vedelago - TV, 1999, pp. 20-21, fig. n. 1). La collocazione originaria di questo affresco, come immagine devozionale, era sotto ai portici della bastia nuova, quindi visibile alla popolazione. Il Bordignon Favero fa coincidere la data della sua esecuzione con l'anno della prima organica ristrutturazione del palazzo, voluta dai Soranzo, allora proprietari dell'edificio (G. BORDIGNON FAVERO, I palazzi Soranzo Novello e Spinelli Guidozzi in Castelfranco Veneto, Cittadella, 1981, pp. 29-40, fig. n. 42). Si tratta di un'opera di estremo interesse per la storia della pittura cittadina di fine Quattrocento, il cui autore, oggi ancora sconosciuto, si mostra pittore di una discreta qualità, influenzato dalla contemporanea pittura padovana e da quella di ascendenza belliniana. Il Bordignon Favero tentò di identificarlo in Girolamo da Treviso il Vecchio (cfr. G. BORDIGNON FAVERO, Una sacra conversazione attribuita a Girolamo da Treviso il Vecchio, in "Bollettino del Museo Civico di Padova", nn. 1-2, Padova, 1968); mentre lo Squizzato afferma che «L’opera potrebbe essere attribuita al pittore Giacomo Martello da Ferrara, operante e abitante in quel tempo a Castelfranco. Infatti, la raffinata resa pittorica e compositiva[…], rileva una formazione dell’artista riferibile alla scuola dei frescanti ferraresi» (L. SQUIZZATO, I palazzi dei Novello, in http://www.luigisquizzato.it/novello.htm, 2010). In merito ai pittori attivi a Castelfranco all’epoca del fregio dello “studiolo”, sempre lo Squizzato riporta: il fregio, «Accostabile per gli ornati ai fregi di casa Costanzo, ma di mano diversa, potrebbe essere opera di un pittore abitante od operante a Castelfranco, forse di provenienza veneziana. Non mancano di certo gli artisti in quel periodo. Oltre ad Andrea da Murano e il nipote Giovanni, scultore in legno come il padre Gerolamo, operano come pittori (con casa a due passi dallo studiolo, sempre nel quartiere di Montebelluna): Alouisius e Antonius, figli del magister Francesco pictor del fu Bartolomeo notaio di Scurelle, distretto di Feltre (ora provincia di Trento), abitante a Castelfranco già a inizio della seconda metà del quattrocento “…et magistrum Franciscum pictorem quondam ser Bartholamey notarii de Scurelis de Feltro habitarorem Castrifranchi…”. Nell’anno 1506 è presente anche un certo  “magister Cristoforus pictor”, che compare come testimone nel palazzo pretorio in un atto sempre di Augustino Moro, in cui però, non compare né il patronimico né la cittadinanza» (L. SQUIZZATO, Documenti inediti[…], Ibidem, 2010). Seppur Nadal Melchiori non possa ritenersi una fonte attendibile per le attribuzioni (ma ogni attribuzione non corretta porta in sé una parte di verità, perché indice di alcune caratteristiche stilistiche di quella pittura), è interessante comunque evidenziare, oltre a quelli già citati, l’elevato numero di affreschi a cavallo tra Quattro e Cinquecento che descrive in città: nel Palazzo Pretorio «[…]si vede[…] una Beata Vergine, San Giovanni Battista, et un Santo Vescovo dipinti in fresco di maniera assai antica, ch’io giudico di Giovanni Bellino Veneto» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 192); «Nella prima Cappella detta di San Giorgio[… - quella dei Costanzo, dove nell’antica chiesa era collocata la Pala] dipinta a fresco, nel mezzo della quale apparisce il Redentore in atto di benedire, et simboleggiati in quattro altri tondi li Evangelisti, con arabeschi al d’intorno ad uso di que’ tempi, che dicesi il tutto essere di mano dello stesso Giorgione» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 222); «Un’altra casa nel castello di ragione della famiglia Cesconi di Trevigi e dipinta in fresco con l’arma del signore della medesima di quel tempo, alcuni arabeschi a chiaroscuro rossi e verdi, et un aquila, dicesi di essere delle primizie del nostro Giorgione. In Borgo d’Asolo alla casa contigua al ponte, di ragione della famiglia Stievani v’è un imagine di nostra Signora dipinta in fresco delle prime opere del nostro Giorgione» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 240); «La loggia di questa Chiesa [quella antica della Pieve] dipinta in fresco con varii Santi, et arabeschi all’antica, dicesi esser di mano di Giovan Bellino Veneto, che fu maestro di Giorgione» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, pp. 252-253); «La facciata della casa di ragione della famiglia Dolfina patrizia Veneta è tutta dipinta in fresco con freggi e figure di chiaroscuro di maniera antica, et assai buona, ma molto danneggiata dal tempo» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 262); «Nella facciata verso Monte [dell’antico Ospedale di San Giacomo] evvi un’antica pittura in fresco sopra il muro, che malamente si vede per ragion della sua vecchiezza[…]» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 271); «Nell’altra camera pur terrena verso mattina [del Santo Monte di Pietà] evvi un’altra imagine della Pietà di maniera ignota, e più antica» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 302). Al di là delle attribuzioni, è interessante notare come le uniche opere che dovrebbero aver avuto l’impronta giorgionesca sono quelle dallo storico pensate come lavori giovanili dell’artista. Solo nell’antica “Chiesetta dell’Oratorio, sive Hospitale della Madonna” di “San Martin de Lovari”, il Melchiori fa diretto cenno ad una pittura “quasi” giorgionesca, quindi senza darla al maestro: «Sopra la piazza sopra il muro di questa Chiesa la B: Vergine, che riceve sotto il manto alcuni fratelli, dipinta in fresco con maniera quasi Giorgionesca» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, p. 467). Purtroppo, di molte di queste opere non vi è rimasta testimonianza ed è pertanto impossibile stabilire in cosa consistesse il loro giorgionismo. Tuttavia, dalle parole dello storico si può dedurre che, negli affreschi su citati, vi sia stata presente una forte componente belliniana che era, tra l’altro, anche facilmente riconducibile alla allora supposta formazione del maestro di Castelfranco. Dalle opere sopravvissute, come quelle della parte nobile della facciata di Casa Bovolini Pinarello (per le quali già il Melchiori parlava di Giorgione) o come la Conversazione di Maria con i santi datata 1496, si può individuare l’altra forte componente stilistica che andava a caratterizzare le maestranze a quell’epoca attive da noi, vale a dire quella mantegnesca. Infatti la derivazione mantegnesca del grafismo plastico di quest’ultimo affresco, mediata dall’addolcita grazia belliniana, traspare anche nelle pitture delle parti figurate del fregio dello “studiolo”, sebbene già aggiornata da modi giorgioneschi. Gran parte di quel plasticismo volumetrico, però, e molti particolari stessi, assieme ad una tonalità dominate di colore più calda che serviva ad arrotondare le figure dando loro profondità spaziale e rilievo chiaroscurale, maggior morbidezza alle forme e più accesa vibrazione luministica, sono andati persi dopo il restauro dei primi anni Novanta del secolo scorso, sebbene si possano ancora indovinare dalla lettura delle foto scattate prima di quell’intervento (foto 032 , 033 , foto 34 , 036 , 073 , 075 , 077 , 079 , 081 ): oggi rimane un grafismo descrittivo piatto e duro, quasi ingenuo, che, accentuato talvolta dalle ridipinture, ha reso quelle figurazioni di una qualità che va poco più su di una semplice pittura decorativa (foto 037 ). Infatti, gli storici dell’arte che hanno avuto modo di vederlo solo dopo il restauro e senza l’aiuto delle fotografie antecedenti, hanno generalmente liquidato questo fregio come opera elementare e di mano mediocre. In realtà, si tratta di una personalità di tutto rispetto che, pur non potendo essere avvicinata a quella degli artisti più dotati dell’epoca, mostra comunque una sua vivace dignità esecutiva e soluzioni compositive sobrie ed essenziali ma felicemente comunicative. Provare ad identificare questo pittore sarebbe impresa assai ardua, che porterebbe a conclusioni improbabili. A tal proposito, oltre alla comparazione stilistica, che è e rimane fondamentale, un aiuto potrebbe arrivare proprio dai brani decorativi con le teste di putto alate ed i racemi, poiché gli stessi cartoni, o cartoni simili, potrebbero essere stati utilizzati per il trasporto del disegno di tale composizione anche in altri lavori in affresco realizzati della stessa maestranza.

Certo, l’ideazione dell’intero ciclo deve essere intesa come un lavoro dove una committenza erudita abbia ben chiaramente suggerito la tematica d’insieme e dei singoli brani nei quali svilupparla. Al pittore, però, spetta indubbiamente l’invenzione compositiva delle zone decorative ma anche delle scene figurate dei tondi, che dovette aver studiato con disegni e bozzetti di volta in volta mostrati al committente, anche modificandoli poi per alcune parti su richiesta dello stesso. Dapprima dovette aver supervisionato e diretto i lavori, affidati agli aiutanti di bottega, nelle loro fasi di impostazione generale e di iniziale composizione d’insieme, intervenendo successivamente di persona nella realizzazione della parti più impegnative: i tondi figurati innanzi tutto, ma anche una ”ultima mano” sulle zone con i putti alati e i racemi, considerando che essi vibrano di una qualità plastica, ad imitazione di un finto rilievo marmoreo, e di una forza espressiva ben coerente con le scenette figurate (foto 098 ). Nel suo insieme, il fregio mostra che il suo autore ebbe forse modo di ammirare direttamente imponenti “architetture” pittorico-scultoree quali, ad esempio, il Monumento funerario di Agostino Onigo a San Nicolò di Treviso (foto 116 , fonte dell’immagine: http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/foto/160000/ 146400/146281.jpg) o il Monumento funerario di Melchiorre Trevisan nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia (foto 117 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia /commons/d/d1/Frari_%28Venice%29_Cappella_di_san_Michele_-Monument_to_Melchiorre_Trevisa n.jpg). In queste scenette, tuttavia, ci si trova di fronte a ideazioni compositive di squisito ingegno, come quella enigmatica e sorprendente del satiro che col suo cesto sulle spalle carico di pani o di pesci va verso l’altro grande cesto (foto 075 , 076 ), il quale, assieme al vecchio sul carro della parete opposta (foto 073 , 074 ), imprime un moto direzionale all’intero ciclo. Entrambe queste raffigurazioni sembrano d’invenzione, sebbene le incisioni, che già circolavano allora sciolte o nelle pagine dei libri, possano averle ispirate; incisioni come, ad esempio, quelle tratte dalle celebri tele dei Trionfi di Cesare dipinti dal Mantegna per Francesco II Gonzaga (foto 118 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5f/The_Triumphs_of_Caesar%2C_IX_-_Julius_C aesar_on_his_triumphal_chariot%3B_Andrea_Mantegna_%281484-92%29.JPG) o quelle contenute nella già citata Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Suggestioni possono pure essere giunte dalla visione, diretta o indiretta, di altre opere famose nelle quali la mitologia era stata interpretata in allegorie dalle soluzioni geniali, come nel Festino degli dei di Giovanni Bellini oggi alla National Gallery di Washington (foto 119 , fonte dell’immagine: https://www.nga.gov/collection/art-object-page.1138.html), nell’Apollo, Marsia e Mida oggi alla Galleria Nazionale di Parma (foto 120 , fonte dell’immagine: http://www.orsomarsoblues.it/2017/12/miti-leggende-re-mida/), ne’ Le nozze di Bacco oggi al Poldi Pezzoli di Milano (foto 121 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/ wikipedia/commons/e/ef/Cima_da_Conegliano_014.jpg), nel Giudizio di Mida tra Apollo e Marsia oggi al Statens Museum for Kunst di Copenaghen (foto 122 , fonte dell’immagine: https://upload. wikimedia.org/wikipedia/commons/7/73/Cima_da_Conegliano%2C_The_Judgement_of_Midas._The_Musical_Contest_between_Apollo_and_Marsyas%2C_Statens_Museum_for_Kunst.jpg) o nel Sileno ubriaco sul dorso di un asino oggi al Philadelphia Museum of Art (foto 123 , fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/ce/Satiro%2C_Philadelphia_Museum_of_Art.jpg), tutte di Giovanni Battista Cima da Conegliano. Se si considera poi il tondo col falconiere, pur riscontrandovi analogie icnografiche di origine medievale tutto sommato abbastanza diffuse, si potrebbe ritornare in ambito mantegnesco facendo riferimento alla figura del “Zintilomo” dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna (foto 124 , fonte dell’immagine: https://tarocchidelmantegna.com/5-zintilomo?iframe=true&theme_preview=true). Mentre si potrebbe azzardare non solo soluzioni giorgionesche nei due tondi con le armature (foto 032 , 033 ) e con gli strumenti musicali (foto 036 , 037 ) bensì addirittura una loro derivazione diretta dal Fregio delle Arti liberali e meccaniche di Casa Marta Pellizzari; derivazione che potrebbe essere anche stata chiesta esplicitamente dai committenti (foto 125 , 126 , 127 , 128 , 129 , 130 ). Ciò non toglie che anche per queste rappresentazioni ci si trovi di fronte ad un’iconografia rintracciabile nella cultura umanistico-rinascimentale dell’epoca, così come per la stessa raffigurazione della supposta Fortuna (foto 34 , 035 ) e per la sua antagonista nella parete di rimpetto (foto 081 , 082 ), nelle loro discrete nudità, vi si possono trovare in ambito veneto molti precedenti, tanto belliniani quanto giorgioneschi, tanto mantegneschi quanto tizianeschi. Tuttavia, più ancora che nei due tondi con le armature e gli strumenti musicali, dove le assonanze sono forse più a livello di scelta di soggetto che stilistiche, in queste due figure femminili il sapore incline verso una cultura giorgionesca pare più accentuato. Eppure, nonostante gli aggiornamenti in questa direzione, tutte le parti figurate dei tondi sembrano tradire una personalità artistica di formazione diversa, non in grado di assimilare in toto e in profondità le novità del grande maestro, le sue delicatezze, le sue sfumature, le sue armonie, la sua capacità d’intendere il colore come mezzo costruttivo non solo dell’opera ma dell’espressione stessa, emotiva, dell’atmosfera dei suoi soggetti; un’atmosfera nella quale ci sentiamo prima attratti e poi immersi grazie alle qualità di cromatismo e di luce di un tratto pittorico geniale. L’autore del fregio, allora, lo si può, sì, dire aggiornato alle novità giorgionesche ma senza poterlo definire, però, propriamente giorgionesco. Egli si mostra molto più legato alla sfera mantegnesca addolcita da grazie belliniane di sapore ancora quattrocentesco. La staticità delle figure e quella degli oggetti non è un fermarsi, non è una pausa pensierosa, un momento di meditazione o di rapimento emotivo; è una staticità fisica, grafica, descrittiva del soggetto, che parrebbe voluta soprattutto, e talvolta solo, al fine di trasmettere una resa comunicativa veloce del suo valore simbolico ed allusivo. Tutte le raffigurazioni dei tondi non hanno un’ambientazione vera e propria se non quella talvolta necessaria alla composizione, come per il falconiere (foto 077 , 078 ), per il vecchio sul carro (foto 073 074 ) o  per il satiro (foto 075 , 076 ); addirittura, come sarebbe logico aspettarsi, non si vede alcun accenno paesaggistico nel soldato lanciato al galoppo (foto 079 , 080 ). La narrazione è costruita dall’insieme delle immagini che si susseguono nell’ordine stabilito; la singola immagine non racconta ma presenta figurativamente un brano chiuso in se stesso che parla iconicamente come fosse, non una frase all’interno di un discorso, ma una singola parola all’interno di una frase. E questo, si pone quasi agli antipodi dell’arte giorgionesca. Lo sfondo di quasi tutte queste scenette è caratterizzato dal fitto grafismo di linee tracciate veloci e decise una accanto all’altra, che spesso s’incrociano o cambiano direzione (foto 131 ). È un fondale ideale che, nel suo intenso vibrare di chiaroscuro, porta in primo piano l’immagine e la stacca plasticamente, come in un bassorilievo marmoreo (foto 132 ). E nelle fotografie scattate prima del restauro, si nota un plasticismo davvero marcato e davvero scultoreo, dove il tratto del pennello, col sapiente uso della biacca per le lumeggiature, sa rendere la rotondità volumetrica dell’immagine e sa suggerirne la profondità spaziale, sa modellare la massa di un corpo, la rigida robustezza metallica di un’armatura, il gonfiarsi al vento di una stoffa, lo spessore delicato di uno strumento musicale. È un grafismo ancora quattrocentesco di derivazione mantegnesca ingentilito da delicatezze di sapore belliniano, che lo avvicina stilisticamente a modi giorgioneschi nelle due figure femminili, ma più per matrici espressive comuni che per comuni intenti linguistici.

In merito alla figura femminile allegorica dipinta sul raccordo a vela della parete ovest (foto 068 ), essa parrebbe eseguita successivamente al fregio sottostante non solo perché vi si sovrappone in parte ma anche perché stilisticamente, come già detto, nonostante un grafismo che ricorda modi mantegneschi, e mostra addirittura vicinanze turesche e cossiane di alcune soluzioni di Schifanoia, unitamente a un tonalismo cromatico caldo e rosato per gli incarnati, quasi giorgionesco, che richiama quello di Domenico Capriolo di Casa Robegan a Treviso (foto 133 , fonte dell’immagine: https://trevisourbspicta.fbsr.it/), è comunque pervaso da una sorta di realismo quasi proto-tenebroso, che si avvicina al genere grottesco. La sua realizzazione parrebbe quindi più tarda e, se non ancora proprio seicentesca, almeno collocabile in un ambiente culturale e figurativo destinato ad ispirarsi, riproporre e riprodurre lo stile dei maestri veneti di fine Quattrocento e della prima metà del XVI secolo ma con un lessico pittorico più tardo, passato attraverso la Controriforma. Un ambiente figurativo che potrebbe ruotare attorno, ad esempio, allo quello in cui si formarono Cesare e Bartolomeo Castagnola e potrebbe quindi essere opera di un pittore attivo a Castelfranco a cavallo tra Cinque e Seicento. Come il fregio, anche questa figura fu certamente voluta per il suo esplicito significato di monito, posto in un luogo all’interno del quale probabilmente veniva svolta attività giudiziaria di materia civile o per reati minori.

Per concludere, tornando al fregio, abbiamo visto come il suo autore, nei tondi con le armature e con gli strumenti musicali, possa essersi direttamente ispirato alle raffigurazioni del fregio di Casa Marta Pellizzari; fregio, quest’ultimo, che è mutilo nei lati brevi della lunga sala e che, per altre parti, è fortemente ridipinto. A dire il vero, si potrebbe anche pensare che nello “studiolo” altri brani potrebbero forse aver preso spunto dalle pitture di Casa Giorgione. Oltre alle figure femminili, anche la composizione del soldato a cavallo (foto 079 , 080 ), ad esempio, può in qualche maniera esser stata suggerita dal fregio giorgionesco. Infatti, alla fine del fregio sulla parete est di Casa Marta Pellizzari, questo soggetto appare ben due volte su dei presunti bassorilievi in stucco attorniati da cammei con teste (foto 134 , 135 ). Purtroppo, lo stato rovinoso di quella parte degli affreschi ne compromette assai la lettura. Anche a livello iconografico, le ridipinture possono averne alterato l’originaria impostazione, per cui il tondo dello “studiolo” potrebbe addirittura essere una testimonianza più fedele dell’originale aspetto di quei brani di quanto essi non appaiano oggi ai nostri occhi, ricostruiti da pennello forse ottocentesco (Giuseppe Gallo Lorenzi?). Ancora, gli stessi cherubini, o teste di putto alate, delle parti decorative del fregio dello “studiolo” (foto 099 , 100 ), trovano delle assonanze col cherubino dipinto sul pettorale dell’armatura posta poco prima della metà del fregio sulla parete ovest di Casa Giorgione (foto 127 , 136 ).

Nonostante Nadal Melchiori descriva affreschi, diciamo così, giorgioneschi in Castelfranco, le pitture murali risalenti a quell’epoca fino a noi giunte non possono essere precisamente considerate tali. E stupisce una volta di più che a Castelfranco, la patria del Giorgione, Giorgione, che a distanza di pochi anni dalla sua morte era già diventato una figura “mitica” ed era riconosciuto ovunque come un grande caposcuola, non abbia lasciato un’eredità pittorica che si possa davvero definire giorgionesca, come fu, qualche decennio dopo, per Jacopo Bassano, Paolo Veronese o lo stesso Tiziano! Molti affreschi cittadini del XVI secolo sono inequivocabilmente veronesiani, Paolo Piazza è stato, senza ombra di dubbio, un pittore di formazione bassanesca che ci ha lasciato, in gioventù, tele di indubbio sapore dapontiano; eppure, per sentire davvero da noi una “atmosfera” giorgionesca si dovrà aspettare il Seicento dei Barbarella e di Pietro della Vecchia, "simia de Zorzon"! È stupefacente constatare che per tutto il Cinquecento, e ben oltre, non si parli del Fregio di Casa Marta Pellizzari e che bisogni attendere addirittura la visita pastorale del 1603 del vescovo Molin per sentir menzionare per la prima volta, ma senza fare il nome del suo autore, la Pala del Duomo! Ecco allora che, il fregio dello “studiolo”, seppur non lo si possa definire prettamente giorgionesco, lo si potrebbe però considerare la prima vera, oggettiva testimonianza del Fregio delle Arti liberali e meccaniche di Casa Marta Pellizzari sino a noi giunta. Perché, non accettando stilisticamente, per grafia e per qualità, una relazione diretta tra l’una e l’altra delle opere, non è però possibile escludere un legame di dipendenza di alcuni soggetti del primo da alcuni brani del secondo, se non altro per la loro vicinanza di epoca e la loro vicinanza di ubicazione.

 Marco Mondi

 

  

Appendice

 

FAMIGLIA ALMERIGO DE CASTELLIS

«Nob: Almerighi [de Castellis]. Leggesi nel libro VI. della Storia Trivigiana di Giovanni Bonifazio che nell'anno 1283 volendo la famiglia Castelli scacciare di Trevigi lor Patria Gherardo da Camino, che tirannicamente dominava quella Città, s'unirono con molti loro aderenti nella Piazza gridando libertà: affine che in favor loro si sollevasse il popolo; il che fu fatto, ma riuscì l'effetto tutto contario al loro disegno, perché armatosi pure il Camminese, seguì un sanguinoso combattimento, nel quale prevalendo il partito suo, rimasero li Castelli disorientati e rotti, et dopo varii successi Bonifazio quondam Corrado de Castelli ucciso, li suoi fratelli sbanditi, li loro beni confiscati e le loro case, et fortezze distrutte, rimanendo in vita solamente Guidone quondam Gerardo il quale per vivere sicuro da sì potente nemico menò sua vita in un Castello del Trivigiano, mutandosi il nome della famiglia in Almerica, ritenendo però l'Arma sua antica ch'era un Castello bianco in campo azzurro, con due Leopardi in piedi uno per parte. E sebbene altri che il sudetto scrittore di Treviso, non fanno mentione della tramutatione del Cognome di questa famiglia Castelli in Almerica, ad ogni modo chiaramente si vede che in niun altro Castello del Trivisano ritrovasi nè tal denominazione, nè tal arma, anzi questa medesima famiglia per il corso di due e più secoli ha riasunto l'antica memoria, scrivendosi i discendenti suoi fino al giorno d'oggi Almerighi de Castellis. Però è cosa molto consonante al vero che il sudetto Guidone quondam Gerardo sia stato il primo venuto a Castelfranco nell'anno sudetto 1283 leggendosi pure nel testamento di Mondin da Salvarosa cittadino di Castelfranco dell'anno 1350 il nome di Pietro di Guidone che ne fa il Nodaro. Leggesi ancora ne' Protocolli di Christoforo quondam Guiduzio Spinelli Nodaro d'un Almerico qundam Zanetto, quale fu l'anno 1433 possedeva molti terreni in Villa di Resana.

Ne' Rogiti dello stesso Nodaro si legge medesimamente che l'anno 1452 Pietro Almerigo fu Vice Podestà di Castelfranco a nome di Michieletto Attendulo.

Nelle scritture di Communità si vede del 1470 un Bortolomio Nodaro.

In una investitura di Feudo conservata in questa famiglia si vede che sino al 1488 un Girolamo Almerigo possedeva varii terreni con titolo di Feudo Vescovale di Treviso.

Del 1562 Bortolomio fu medico in Castelfranco salariato dalla Communità.

Del 1581 Agostin Almerigo quondam Girolamo giurò fedeltà a S. Maria di Asolo, et S. Pietro di Treviso per occasione del sudetto Feudo Vescovale, si come in più tempi fecero i suoi successori.

Del 1724. morì Giovanni Almerigo quondam Girolamo, che fu Cancellier della Communità di Castelfranco.

Hora vive Girolamo Nodato figlio del sudetto Giovanni, di cui nasce Giovanni e Francesco Nodaro pur figlio del sudetto, di cui nascono Giovanni e Girolamo».

(N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, pp. 43-45).

 

FAMIGLIA COSTANZO

«Nob: Costanzi. Questa famiglia fu Nobile a antica nella città di Napoli, dove tralse la sua origine.

Nel 1462 Muzio ovvero come altri Giacomuzio Costanzo valoroso guerriere fu chiamato dal Re Giacomo Lusingano in Cipro, dal quale fu creato grand’Amiraglio del Suo Regno, e dopo la morte di esso Re fu il detto Muzio acclamato Viceré di Cipro.

Nel 1475 Tuzio di lui figlio venne ad abitare a Castelfranco, ove comprò Case e Terreni, che ancora si dicono la Costanza.

Questo con Isabella Verdina sua moglie di mobilissima famiglia di Maiolica procreò Giovanni et Matteo.

Giovanni con permissione della Serenissima Republica passo in Cipro al possesso della ricca heredità dell’Amiraglio e Viceré Avo, il che non fu concesso a Tuzio, il padre benché la regina di Cipro lo domandasse con sua lettera, che fu del seguente tenore:

Serenissimo Principe et Eccellentissimo nostro Padre.

Avendo appresso di noi un mobilissimo e potente Barone Monsignor Muzio Costanzo per nome chiamato grande Ammiraglio del nostro Regno degnissimo, al quale siamo per la sua riconoscenza, pura e sincera fede, molto obligata, e veramente haveno gran bisogno di tale e tanto huomo in questo Stato per la sua prudenza, consiglio, autorità et esperienza delle cose di guerra et cognizione di quella: la cui virtù, fama, et valore conoscendo la felice memoria del Re mio marito, li compartite ogni sua facenda, ardua, et importante alla conservazione di questo regno: apresso della quale Sacra Mestà mai non mancò di ogni singolar grazia, ma sempre crebbe in amor, famigliarità, grado et honore, et esperimentamo il suo fedele et continuo amore nella morte accerba et immatura del predetto Re nostro marito: Però che stessendo lui in così repentina rivoluzione General Locotenente e Viceré in Nicosia colla sua innata prudenza, valore et autorità ha acquietato il popolo, si fece giurar la fedeltà, et homaggio al nostro nome, cavalcando et confortando tutti gli altri devoti di Vostra Serenità, et nostri, et gli altri di contrario voler acquietando et castigando, et molte gesti facendo per segno di grand’amore et valore reposto in sua persona: il perché desideramo volentieri ogni sua quiete et riposamento, ond’essendo lui in grand’affano di mente verso Monsignor Tutio figliolo virtuosissimo cavaliero et a tanto padre veramente simile, il quale Vostra Serenità intrattiene appresso di lei in questa città di Venezia. Noi preghiamo ben di buon cuore l’humanissima Serenità Vostra, che a nostra contemplazione si degni di lasciarlo venire all’antico Monsignor padre, e goder li beni e lo Stato che tiene in Cipro, e noi peropreta la paterna et filial fede come leali signori e cavalieri resteremo alta Celsitudine Vostra perpetuamente obligata, e loro restituito nel lor stato tanto più continueranno fedelissimi, quanto maggior premio vederanno haver ricevuto, per la lor grande dimostrazione di fede fatta per la Serenità Vostra.

Valeat excelsa Dominatio Vostra.

Nicosia die 7 Mensis Aprilis 1475.

Regina Caterina filia vostra.

Il sopradetto Mutio Costanzo padre di Muzio morì in Cipro l’anno 1479 col titolo di Ammiraglio et di Viceré et fu sepolto con insolita pompa ad ogni ad ogni altro di quella Corte et li fu iscritto questo epitaffio:

Mutius Costantius Messane Trinacrie urbes genitus, nultum laudis apud Parthenope et Hibernie Reges, propiis triremibus Cyprum navigans, deditionis Amocuste ad Requiem Facolum causa fuit aquo auroaccinctus, et admiratus Regni cactus seprepro Rege, sedens jura ad ministrabat, et tandem etc.

Mattheo secondogenito di Tutio formoso di volto et di singolar presenza condottiero nel fior di 23 anni di 50 Lantie in vita del padre s’infermò nella guerra di Casentino, morì in Ravena l’anno 1504, et il di lui corpo fu condotto a Castelfranco ove dimorava il padre Tutio, dal quale fu fatto sepeline nella Parocchia dentro del Castello all’altare di San Giorgio, Capella eretta dallo stesso Tutio, dove nel suo sepolcro marmoreo si vede il medesimo Mattheo scolpito in abito di guerriero con la seguente inscrizione:

Mattheo Constantio Cyprio egregia corporis forma insigni animi virtute immatura morte sublato ab bene gestam militiam Tutius pater Mutii filius carissimo filio pienissime possuit.

MDIV Mensis Augusti

Mutio terzogenito fu onorato dell’Ordine della religione di Malta e morì in Puglia huomo assai stimato l’anno 1547.

Et Tomaso quartogenito condottiere anch’egli di gente d’armi per la Republica di Venezia, il quale nel medesimo tempo fu governatore nella città di Treviso.

Di questo huomo illustre et Cecilia sorella di Francesco Donato Doge di Venezia nacque Scipio, per la sua gran bravura cognominato Spatinfacia, che col titolo antico de’ suoi antenati di Napoli fu ancor lui condottiero di genti d’armi, poi generale di Francesco Maria Duca di Urbino, et andato poi a serviggi di Francesco I° Re di Francia hebbe cariche importanti appresso il medesimo.

Di questo nacque Giovanni Tomaso il quale nel 1570 fu Capitano di 600 soldati in Candia, et collonello, et combatté contro Turchi a favore della Veneta Repubblica, ma per esser in discapito di gente rimase schiavo, onde condotto in Costantinopoli fu dal Selim gran Signore forzato a farsi Turco, ma egli come costantissimo e valoroso cavaliere cristiano, calpestò un turbante di gran valore donatogli dalla Sultana, volendo piuttosto morire che rinnegar la fede di Giesù Cristo. Finalmente riguardo alla sua nobiltà e valori fu lasciato in vita, poscia dopo la continuata schiavitù d'anni 4, a richiesta del Pontificio, della Veneta Republica, e d'altri Principi Christiani fu liberato, con grosso esborso fatto da Scipio di lui padre, onde poi fu stipendiato dalla medesima Republica con honorata pensione, e fatto governatore nella città di Corfù.

Dimorò questa famiglia in Castelfranco sino all'anno 1678, nel qual tempo rimase estinta nella persona di altro Tutio, che mancò senza prole.

Questa medesima famiglia si congiunse in parentado con la famiglia Spinelli pur di questa Patria.

Della stessa famiglia sonovi pure honorate memorie in Padova mel tempo di S. Antonio, come ripportano Giacomo Salamon, Francesco Sansovino et il cieco d'Adria.

Questa nobile stirpe sussiste ancora in Napoli».

(N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, pp. 67-70).

 

FAMIGLIA DOTTO

«Nob: Dotti. Questa famiglia è assai antica in Castelfranco, così dimostrandolo il suo arbore, che principia da un Francesco Dotto nell'anno 1320, ma per anco m'è sortito trovare la sua origine.

Del 1493 Antonio Dotto fu Sindaco cioè Proveditore della Comunità di Castelfranco.

Del 1500 fioriva il padre Domenico Dotto Servita, che fu gran Theologo e chiarissimo predicatore due volte Provinciale della sua religione, trovando due altre rinunziato il generalato deglla medesima, egli fu quello che in Padova raccolse li sudori di sangue da un Christo miracoloso, et l'anno 1512 nella medesima città istituì la confraternita del Crocefisso come chiaramente nella seguente memoria epistolante sopra la porta della sagrestia de PP. Serviti di Padova si legge:

Dominico Castrofrancano ex nobili Doctorum familia Servitarum B.M.V.O. a puero usque adito summo Theologie fido Sacre scripture inter. claro evangelice fidei concionatori, lis ordinis sui provincialatus nunere functo, lis generalatus regimine renuntiato, anno etatis sue 70 mascina cum vite integritate peracto publico merore publicis lacrimis hinc condito. Civitas virtutibus tanti viri hic commorantis illustrata beneficorum non immmemor H.M.F.C. sumptum posuit anno 1549 Servite Patavini et Castrofrancani fratres fratri de se deg. crucifisci societate, quam hic instituit anno 1512 quo sudorem sanguinem semel e facie, semel e latere emisit opt. mer. et Dominicus Doctus Patavii Vic. Pret. affini kariss. mon. pub. Vetustate consumptum restituendum escornandum que VV.AA.CC. Anno 1622.

Del 1558 Luca Dotto fu Cancelliere in Dalmatia nella città di Spalatro, nel qual tempo della Republica Veneta fu mandato a trattare l'importante affare delli molini di Salona e della ricuperatione di 33 Ville nel Contado di Sebenico, et ottenne quanto desiderava il Senato.

Del 1570 essendo Cancelliere nel Regno di Candia imprestò al publico ducato 2000 et nel medesimo tempo Giovanni suo figlio andò nella guerra di Cipro et restò schiavo de Turchi.

Del 1622 habbiamo dalla suddetta iscrizione che Domenico Dotto fu vice Podestà di Padova.

Del 1628 Michiel Dotto fu Canonico nella città di Padova; questo fece fabricare il palazzo che di presente si vede al loco detto il Commun cioè alli confini tra Castelfranco et Valla nel qual tempo per cagione della carestia diede molte biade in credenza a poveri et alla sua morte ordinò che fossero abbrucciati i libri dei suoi crediti.

Paulo Dotto fu celebre e primario lettore nello studio di Padova; morì l'anno 1680 et lasciò nel suo testamento che mancando la sua linea così di maschi come di femine le sue entrate fossero date ad un cittadino povero di Castelfranco, qual fosse conosciuto dalli deputati di Padova per virtù, costumi e condizione il più degno, con questo che si facesse chiamare Paulo Dotto da Castelfranco.

Pietro Dotto fu Pievano a Castelcucco eletto l'anno 1698 et morì colpito da una saetta l'anno 1713.

Questa famiglia ora consiste in due casati, uno ritrovasi in Padova et discende dal sudetto Paulolettr, del quale nacque Antonio K: di cui nascono due figli hora viventi cioè Domenico et Michiel del quale nascono Paulo et Antonio. L'altra dimora in Castelfranco et di essa vivono tre fratelli quondam Giovanni, cioè Fausto prete, Antonio padre e abbate de S. Antonio de Carpane, et Francesco».

(N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, pp. 72-74).

 

FAMIGLIA EMO

Importante antica famiglia veneziana, forse di origine greca o vicentina, ma attestata a Venezia sin dal X secolo. Nel 1297, con la Serrata del Maggior Consiglio, entrò ufficialmente a far parte del patriziato veneziano, rimanendovi sino alla caduta della Serenissima. Nel corso dei secoli, quattro furono i membri della casata ballottati al Dogado, altri furono investiti di importanti cariche pubbliche: podestà, ambasciatori, provveditori generali e procuratori. Già prima del 1446 ebbero proprietà a Castelfranco e nel suo territorio, per incrementarle notevolmente dalla seconda metà del XV secolo. A Fanzolo, acquisirono vasti possedimenti, sui quali nel XVI secolo commissionarono al Palladio l’edificazione (1556-1559) di una prestigiosa villa, affrescata dallo Zelotti (1565 circa), che fu anche il fulcro di un’importanze attività agricola, dove incrementarono la coltivazione del granoturco, da loro introdotta qualche decennio prima nei territori di Fanzolo e Vedelago. Angelo Emo (1731 - 1792), un importante condottiero e un grande ammiraglio, fu l’ultimo Capitano da mar della Serenissima Repubblica. (Fonte per molte delle soprariportate notizie: http://www.villaemo.org).

Nadal Melchiori riporta che Benedetto Emo fu podestà di Castelfranco per Venezia nel 1350, Lunardo Emo nel 1393 e Giacomo Emo nel 1488.


FAMIGLIA GRADENIGO

«Gradenigo furono una delle più importanti famiglie del patriziato veneziano.

Tradizionalmente ritenuti una delle ventiquattro famiglie apostoliche, presenti al momento della fondazione del Ducato, diede alla Serenissima tre dogi.

L'origine della famiglia è incerta e le varie teorie al riguardo si basano su leggende. Secondo alcuni proveniva dalla Transilvania, per altri da Ravenna; dopo un periodo trascorso ad Aquileia, avrebbe partecipato alla fondazione di Grado, da cui il cognome Gratico, modificato poi in Gradenigo con l'aggiunta di un suffisso patronico in -igo. Una tradizione li ritiene della stessa stirpe dei Dolfin.

L'ipotesi sulla provenienza gradense della famiglia è condivisa da tutte le tradizioni sin dai tempi più antichi e per questo viene ritenuta affidabile anche dagli storici moderni. È stato invece confutato quanto sostenuto da Giuseppe Caprin il quale, ritrovando a Grado un'omonima famiglia Gradenigo di modeste condizioni, ritenne che anche i nobili avessero un'ascendenza umile; in realtà essa aveva assunto il cognome Gradenigo nel Settecento in segno di devozione a quel casato.

Tuttavia, se ci si basa su Giovanni Diacono, i Gradenigo farebbero la loro comparsa nella storia di Venezia solo nella seconda metà del IX secolo assieme ad altre famiglie di recente importanza, che tentarono di imporsi nella scena politica dopo l'assassinio del doge Pietro Tradonico.

Fu una delle più potenti casate veneziane. Le venne attribuita la fondazione di alcune chiese (Santi Apostoli, San Cipriano di Murano, forse Sant'Agostino) e, suddivisa in vari rami, diede numerose personalità distintesi in campo politico, ecclesiastico, militare e culturale; tra queste, spiccano tre dogi. Un ramo, insediatosi stabilmente a Creta, prese invece parte, con Marco e Leonardo detto "Baiardo", alla rivolta del 1363-1366» (https://it.wikipedia.org/wiki/Gradenigo).

Nadal Melchiori riporta che Antonio Gradenigo fu podestà di Castelfranco per Venezia nel 1417 e Zulian Gradenigo nel 1548. Pietro Gradenigo fu potestà alla fine del XV secolo.

Questa famiglia ebbe importanti possedimenti a Castelfranco e nel suo territorio, tra cui un importante palazzo in città e a Riese Pio X l’attuale Villa Eger. Sulla torre dell’orologio, sopra l’orologio, il potestà Pietro Gradenigo fece porre nel 1499 il leone di San Marco e lo stemma della propria famiglia.

 

FAMIGLIA MARTA-BRUSAPORCO

«Nob: Marta. Questa famiglia habbia la sua origine nella dove produsse homeni valorosi nella disciplina militare. Dicesi questa esser venuta in Italia con la famiglia Tempesta qual dominò il Castello di Brusaporco circa il 1014 et che fermò la sua habitazione nel medesimo castello. Narasi pure, che il primo di questa famiglia si sia ammogliato nel detto Castello di Brusaporco una ricca donna per nome Marta, che gli diede in dote molti terreni, e che li figli con quella procreati fossero comunemente denominati i figli della Marta, et che in questa forma hebbe principio la denominazione di questa famiglia, che fino ai nostri giorni continua.

Nel 1325 fu distrutto fino a fondamenti il Castello di Brusaporco dalle genti dello Scaligero, e però questa famiglia che ivi possedeva i suoi beni trasportò la sua habitazione a Castelfranco, come loco più vicino, impugnando per arma l'impresa del Castello distrutto, che era un temporale che si abbruccia.

Dal 1452 Giacomo Marta è nominato nei rogiti di Christoforo quondam Guidozio Spinelli Nodaro per cittadino di Castelfranco.

Dal 1450 Benetto Marta quondam Giacomo vien nominato dallo stesso Nodaro come sopra.

Del 1495 Girolamo quondam Fantin Marta militava in servitio di Massimiliano Imperatore, et infermatosi nella Terra di Borgoforte distretto di Mantova morì, celebrò il suo ultimo testamento rogato da fra Giacomo dell'ordine di S. Francesco di Venezia suo confessore e legalizato da AmbrosioDermatio quondam Giovanni Nodaro pubblico di Mantova, il quale lasciò a questo S. Monte di Pietà ducati 200.

Del 1500 Alesandro Marta fu Vicario in Verona et a quel tempo la famiglia si divise non solamente in più case ma ancora in più luoghi essendovi una famiglia della stessa denominazione a porto Bufolè, qual pretende provenire dallo stesso sangue di questa, et di essa la giorno d'oggi vivono Pelegrin quondam Francesco e Andrea suo zio.

Del 1580 Benetto Marta quondam Giacomo fu Vicario di Cividal di Belluno.

Del 1590. Pietro quondam Francesco Marta fu dottore e celebre filosofo, il quale mandò alle stampe un suo libro intitolato: Comentaria in logicam Aristotilis. In Venezia per Giacomo Vincenti.

Del 1592 Nicolò quondam Bernardin Marta formò di sua mano l'ultimo suo testamento, col quale istituì de' suoi beni un pertpetuo fideicommisso, e se fosse estinta la sua linea di maschi e femine, così legittimi, e come naturali, volle che la sua eredità vadi alle RR. Monache di questa Patria, et no accettando le Monache lascia a RR: PP: di San Giacomo, e se anco questi non accettassero lascia a due religiosi preti con obligo di due messe all'anno e come meglio nello stesso testamento.

Del 1615 Bernardin Marta quondam Giacomo fu Colonello della Serenessima Republica in terraferma. Del 164. Bernadin quondam del sudetto Bernardin Marta fu Pievano di Albaredo e Casacorba.

Del 164. Giacomo Marta fratello del sudetto fu Pievano dello stesso loco.

Hora vive Bernardin Marta quondam Bonifazio, che ridusse la sua habirazione a Brusaporco, del quale nascono Bonifazio, Gio:Battista, Giacomo e Nicolò, dal quale nasce Bernardo» (N. MELCHIORI, Ibidem, 01 MS 158, pp. 100-101).

 

FAMIGLIA MORO

«Moro furono una famiglia patrizia della Repubblica di Venezia, annoverata fra i curti.

La leggenda li ritiene originari di Padova e ne individua il capostipite in un Albino Moro, tra i fondatori di Venezia nel 424.

La famiglia è però attestata con sicurezza a partire dal 982 e da questo momento ebbe grande influenza nella vita pubblica della città. Rimasero inclusi nel Maggior Consiglio anche dopo la serrata del 1297.

Raggiunsero l'apice delle istituzioni con l'elezione a doge di Cristoforo Moro (1462-1471).

A partire dal Cinquecento i Moro persero il loro ruolo politico, ma continuarono a distinguersi dando uomini di cultura.

Da questa famiglia provenivano i Moro-Lin (o Morolin), discesi da Gasparo Moro e da Isabella Lin, sposatisi nel 1748.

In Armoriale, il cognome è attestato appartenere a nobile famiglia italiana a Mare Lido (VE), Torino, Genova, Brescia, Carmagnola, Casale e Trani» (https://it.wikipedia.org/wiki/Moro_(famiglia)).

Nadal Melchiori riporta che Pietro Moro fu podestà di Castelfranco per Venezia nel 1472 e che nel 1509 Cristoforo Moro fu provveditore generale della Serenissima in Castelfranco.

Nel 1506 anche Agostino Moro fu podestà di Castelfranco.

Questa famiglia ebbe importanti possedimenti a Castelfranco e nel suo territorio, tra cui una dimora entro le mura e una villa a Villarazzo (dove la famiglia è documentata sino dal 1389)-

 

Bibliografia utilizzata

 

VINCENZO CATARI, Le imagini colla sposizione degli dei degli antichi, Venezia, 1556, p. 141.

 

N. MELCHIORI, Catalogo historico cronologico, cioè Copiosa raccolta che contiene L’origine di Castelfranco… -Memorie di Castelfranco-, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, 01 MS 158, pp. 8, 43-45, 67-70, 72-74, 100-101, 192, 195, 222, 240, 252-253, 262, 271, 302, 309-310, 373, 467.

 

N. MELCHIORI, Catalogo Historico Cronologico cioè Copiosissima Raccolta che contiene La serie dei nomi…, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, P6 MS 161, p. 59,

 

N. MELCHIORI, Repertorio di cose appartenenti a Castel Franco nostra Patria, 1715-18, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, ms. 166 N-145, 12 521 R.I., p. 142.

 

B. SCAPINELLI, Istoria di Castelfranco, s.d., Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, E-1 / MS 201, s. n. p.

 

NADAL MELCHIORI, Notizie di Pittori e altri scritti, edizione a cura di G. BORDIGNON FAVERO, Venezia-Roma 1968, p. 79, 134.

 

G. BORDIGNON FAVERO, Una sacra conversazione attribuita a Girolamo da Treviso il Vecchio, in "Bollettino del Museo Civico di Padova", nn. 1-2, Padova, 1968.

 

G. BORDIGNON FAVERO, Castelfranco Veneto e il suo territorio nella storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol. I, p. 144.

 

Memi Botter in M. BOTTER, Affreschi decorativi di antiche case trevigiane, Dosson di Treviso, 1979, tavv. 64-65, 68, pp. 156, 158, 162.

 

G. BORDIGNON FAVERO, I palazzi Soranzo Novello e Spinelli Guidozzi in Castelfranco Veneto, Cittadella, 1981, pp. 29-40, fig. n. 42.

 

M. BRUSATIN, Storia dei colori, Torino, 1983.

 

GIULIANO MARTIN, Giorgione negli affreschi di Castelfranco, Milano 1993, pp. 143-156.

 

G. CECCHETTO, La podesteria di Castelfranco nelle mappe e nei disegni dei secoli XV-XVIII, Cittadella, 1994, pp. 69-70, fig. 77, figg. 80 e 81

 

FRANCESCO COLONNA, Hypnerotomachia Poliphili, ed. Adelphi, Milano, 1998, tomo I, p. 97, fig. a p. 97.

 

G. CECCHETTO, Castelfranco Veneto, l’evoluzione della forma urbana e territoriale nei secoli XIX e XX, Cittadella, 1999, pp. 120-125, fig. 49.

 

Opere della Collezione della Banca Popolare di Castelfranco Veneto, catalogo a cura di M. MONDI, Castelfranco Veneto, Galleria del Teatro Accademico, 24 aprile - 9 maggio 1999, Vedelago - TV, 1999, pp. 20-21, fig. n. 1.

 

A. MARIUZ, Giorgione pittore di affreschi, in Da Bellini a Veronese. Temi di Arte Veneta, a cura di GENNARO TOSCANO e FRANCESCO VALCANOVER, Venezia, 2004, p. 304.

 

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L. SQUIZZATO, Documenti inediti del XV e XVI sec. – Lo studiolo notarile, in www.luigisquizzato.it/lo_studiolo_notarile.htm, 2010.

 

L. SQUIZZATO, I palazzi dei Novello, in http://www.luigisquizzato.it/novello.htm, 2010.

 

FONDAZIONE BENETTON STUDI RICERCHE, Treviso urbs picta. Facciate affrescate della città dal XIII al XXI secolo: conoscenza e futuro di un bene comune, a cura di ROSSELLA RISCICA e CHIARA VOLTAREL, Antiga Edizioni, Treviso 2017, p. 159, fig. 29.

 

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https://it.wikipedia.org/wiki/Gradenigo.

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Moro_(famiglia).

 

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