di Marco Mondi
Nel 1991 la palazzina
Vicolo dei Vetri in Castelfranco nel cui
pianterreno, nella parte anteriore, è situato il
locale che si suol denominare oggi “studiolo”
(foto 001
), versava in uno stato di
conservazione alquanto precario, motivo per cui
l'allora proprietario decise di provvedere al
suo restauro. Nelle operazioni preliminari
all'intervento di ristrutturazione
dell'immobile, nella stanza suddetta, per caso
fortuito, sotto uno spesso strato di calce e
diverse mani d'intonaco a tempera emersero
alcune tracce di un affresco antico. L’architetto
Giuseppe Pietrobon, che fu incaricato
dall’allora proprietario delle operazione di
restauro e di ristrutturazione edile dell’intero
stabile, ha preziosamente precisato a chi scrive
che furono rinvenute delle prime pitture a
motivo floreale dipinte a tempera all’incirca
dove oggi corre l’attuale fregio; pitture di
fattura modesta e di epoca probabilmente
settecentesca (o, forse, anche più tarda), che
furono poi rimosse perché sotto ad esse
s’intravidero delle pitture ben più antiche,
eseguite ad affresco e di qualità decisamente
superiore.
L'allora proprietario, nell'emozione di
quest’ultimo ritrovamento, contattò ben presto
un bravo pittore concittadino per sentirne il
parere. Quest'ultimo fu poi anche incaricato di
procedere, a bisturi e strumenti meccanici, con
la massima attenzione e professionalità che lo
caratterizzava e lo caratterizza, a rimuovere
gli strati di pittura a calce e a tempera per
fare emergere nella sua completezza l'antico
ciclo in affresco là celato. Gradualmente, ne
emerse la consistenza e si scoprì che si
trattava di un fregio che correva con continuità
lungo tutto il sottotetto del locale, con
un'altezza di circa cm 75 per una lunghezza di
circa m 20 (foto 002
,
003
,
004
,
005
,
006
,
007
,
008
,
009
). Assieme a questo
fregio, nel quale vi sono raffigurati, entro un
cornicione superiore e uno inferiore (forse più
tardo), un ripetersi di teste di putto alate con
ai lati racemi a voluta con foglie d'acanto,
alle cui estremità superiori sta un volatile che
beccola, ritmate dalla presenza di tondi
modanati nei quali si alternano con regolarità
stemmi nobiliari di famiglie cittadine o legate
a Castelfranco e scene figurate di sapore mitologico-classicheggiante (foto 010
), sono
state rinvenute altre decorazioni pittoriche
(foto 011
): oltre a quelle a raffigurazioni
floreali eseguite a tempera appena menzionate,
di cui oggi purtroppo non rimane traccia perché
rimosse per dar luce, appunto, all’antico
fregio, nelle pareti verso nord e verso sud,
sopra al fregio stesso, negli spazi murati tra
una trave e l'altra del soffitto, vi sono
dipinti dei rettangoli monocromi di color rosato
con al centro un fiore (foto 012
); nella parete
verso ovest, una decorazione che inquadra la
cappa dei resti di un antico caminetto, sopra la
quale sta un raccordo a vela suddiviso in tre
riquadri dove, in quello centrale, maggiore, vi
è dipinta una figura femminile allegorica
mentre, nei due laterali, minori, s'incrociano
due ramoscelli simbolici (foto 013
); altre
decorazioni pittoriche si trovano nella parete
verso nord, a contornare quella che un tempo
doveva essere una porta e una finestra (foto
014
); nella parte laterale destra sempre della
parete verso nord (a partire da subito dopo la
finestra), continuando per circa m 3 anche sulla
parte laterale sinistra della parete verso est,
vi sono brani di una decorazione policroma a
finta tappezzeria verticale che scendono da
sotto il fregio, con irregolarità, per una
superficie che va da alcuni decimetri fino a
circa cm 70-80 (foto 015
); su tutte e quattro le
pareti, infine, sotto al fregio, scorrono con
irregolarità, da pochi centimetri ad alcuni
decimetri, tracce rosate di antico intonaco
(tranne nelle parti decorate a finta tappezzeria
–
foto 016
).
Nella fototeca della
biblioteca comunale di Castelfranco si
conservano due nuclei di fotografie, alcune
delle quali scattate proprio dal suddetto
pittore concittadino, che testimoniano, il primo
(consistente in circa una quarantina di scatti),
lo stato di conservazione in cui lo “studiolo” e
il suo ciclo decorativo si presentavano nei momenti preliminari alla ristrutturazione
dell'intero edifico, il secondo (consistente in
oltre una cinquantina di scatti), che testimonia
una fase successiva, a lavori di restauro giù
iniziati e con il suddetto fregio cinquecentesco
visibile quasi nella sua interezza. Dal primo
nucleo di quelle foto, emerge che lo stato della
stanza versava davvero in un condizioni assai
precarie (foto 017
). Gli affreschi più antichi
sono stati parzialmente messi a nudo (foto 018
)
e, su alcune parti, minime, di uno degli strati
sovrastanti d’intonaco, pare d’intravedere
tracce di quella pittura a decorazione floreale
in seguito rimossa (foto 019
), che li copriva (a
sua volta coperta da altri strati d’intonaco):
davvero troppo poco, però, per formulare alcun
genere di giudizio o di datazione su quelle
pitture, forse settecentesche. Tuttavia, i brani
in affresco del fregio cinquecentesco, si
presentavano tutto sommato in un buono stato di
conservazione, come provano anche le foto del
secondo nucleo della biblioteca di Castelfranco
(foto 020
). Uno scatto di queste ultime, ancora,
inquadrando il soffitto della stanza privo di
solaio e solo con le travi, mostra, in maniera
però ben poco comprensibile, parte della parete
di nord della stanza sopra lo “studiolo”, dove
pare di individuare altre decorazioni pittoriche
(foto 021
). Di queste decorazioni ne ha ricordo
anche il nostro pittore concittadino, che
afferma si trattasse di una pittura,
probabilmente non molto antica (forse anche otto-novecentesca), che andava a decorare la
cappa di un caminetto che un tempo là si
trovava. In altre due fotografie di quest'ultimo
nucleo, inoltre, che inquadrano un particolare
della facciata nord, all'incirca sopra lo spazio
tra l'attuale porta e l'attuale finestra di
destra (guardando dall'interno), pare
d'intravedere dei possibili affreschi monocromi
grigiastri forse raffiguranti panneggi o forse
parte di quelle pitture a tempera di cui ci fa
memoria l’architetto Pietrobon (foto 022
).
L’architetto Pietrobon, infine, ha gentilmente
messo a disposizione anche lui delle immagini
fotografiche, scattate sempre durante la fase di
ristrutturazione edilizia dello stabile, dove si
vedono, assieme ad alcune vedute della facciata
esterna, altre panoramiche della stanza dello
“studiolo”.
Se tale documento dovesse effettivamente
riferirsi allo “studiolo” di Vicolo dei Vetri,
la data del 1506 sarebbe una
condicio
sine qua non
per la datazione dei suoi affreschi, togliendo,
in più, ogni loro azzardata attribuzione, come
qualcuno ha supposto, a Giorgione, di per sé già
stilisticamente e qualitativamente assai
fantasiosa.
Quest’ipotesi, tuttavia,
forse veritiera e sicuramente alquanto
suggestiva, non convince completamente per la
mancanza, almeno nelle conoscenze di chi scrive,
di altra documentazione positiva a tal riguardo,
che avalli e precisi con certezza
l’identificazione del luogo, nonché per altre
valutazioni che pur devono essere tenute in
considerazione. Poiché davvero ben poco o quasi
nulla si conosce dell’aspetto e dell’esatto
sviluppo degli spazi non solo dell’antico
palazzo pretorio, orientato diversamente
dall’attuale Municipio (completamente ripensato
alla fine del XIX secolo - cfr. G. CECCHETTO,
Castelfranco
Veneto, l’evoluzione della forma urbana e
territoriale nei secoli XIX e XX,
Cittadella, 1999, pp. 120-125; si veda anche la
mappa datata 1789, oggi conservata in collezione
privata -
foto 022a
), e del quale oggi
non resta che l’Oratorio delle Grazie (cfr. G.
BORDIGNON FAVERO,
Castelfranco Veneto e il suo territorio nella
storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol.
I, p. 144 e G. CECCHETTO,
La podesteria di
Castelfranco nelle mappe e nei disegni dei
secoli XV-XVIII,
Cittadella, 1994, pp. 69-70), ma soprattutto
della collocazione urbanistica degli edifici
immediatamente adiacenti ad esso, o nelle sue
vicinanze, nonché dei loro proprietari, ci si
deve muovere solo per ipotesi. In una mappa del
1668 (cfr. G. CECCHETTO,
Ibidem,
1994, fig. 77), s’intravedono sommariamente
descritti alcuni edifici esistenti allora dentro
le mura (foto 023
): tra essi si può individuare
l’antico palazzo pretorio dove, nel suo
prolungamento su Vicolo dei Vetri, pare vi sia
un edificio a sé stante, però topograficamente
non corrispondente all’area dove oggi sorge lo
“studiolo”, che appare invece totalmente spoglia
da altre costruzioni (perché, evidentemente, non
si era sentita in quell’occasione la necessità
di annotarle e che sono facilmente individuabili
nelle mappe napoleoniche del 1809-1810 -copia
del 1812- e del 1812 - cfr. G. CECCHETTO,
Ibidem,
1994, figg. 80 e 81 –
foto 024
,
025
). A tal
proposito, anche la
veduta a volo d'uccello del
Coronelli (post
1693) ben poco aiuta, pur dandoci una delle
prime raffigurazioni che illustrano nella sua
globalità l'impianto urbanistico della città, ma
solo nelle sue direttrici principali (foto
025a
).
Lo stesso atto del notaio
Saxacher, s’è appena visto, consentiva la
costruzione di un vano di dimensione all’incirca
di metà rispetto a quelle dello “studiolo”, e
prevedeva l’edificazione delle quattro mura con
copertura a coppi. Sostanzialmente a sé stante,
questo locale, pertanto, doveva nascere in
origine più piccolo e, se si trattasse realmente
di quello dello “studiolo”, vi dovette essere un
successivo permesso che ne consentisse
l’ampliamento delle dimensioni sino a circa il
doppio (permesso concesso probabilmente negli
immediati anni successivi), perché il fregio in
affresco con le teste di putto, i racemi
vegetali e i tondi, che si dovrebbe datare a
poco dopo la realizzazione del vano nella sua
attuale grandezza, nella sua coerente continuità
non mostra alcun intervento che ne giustifichi
la realizzazione in due o più momenti diversi.
Un piccolo edificio sostanzialmente a sé stante,
quindi, che dovette essere stato costruito di
dimensioni doppie rispetto a quelle concesse dal
documento del 1506 e che dovette negli anni e
nei secoli successivi essere stato ampliato fino
a giungere all’attuale mole, che ingloba,
pressoché inalterata, l’originaria struttura
parietale dello “studiolo”. Un locale la cui
costruzione fu chiesta da due notai, privati,
per l’esercizio della loro attività; due notai
che, secondo quanto riporta Nadal Melchiori nei
suoi scritti su Castelfranco (e che, in questo
caso, la sua testimonianza deve essere
considerata attendibile per il fatto che
sostanzialmente trascrive testi di documenti
originali antichi), a quell’epoca dovevano
essere anche abbastanza giovani (in ogni caso,
«che abbiano finita l’età
d’anni venti» - B.
SCAPINELLI,
Istoria di Castelfranco,
s.d.,
Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, E-1
/ MS 201, s. n. p.; N. MELCHIORI,
Repertorio di cose
appartenenti a Castel Franco nostra Patria,
1715-18, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale
di Castelfranco Veneto, ms. 166 N-145, 12 521
R.I., p. 142),
se risultano poi
essere nominati
per diversi anni, e almeno fino agli anni Trenta
del Cinquecento,
tra i “Conservadori, Massari, e Nodari” che
hanno governato il Santo Monte di Pietà (N.
MELCHIORI, Catalogo
historico cronologico, cioè Copiosa raccolta che
contiene L’origine di Castelfranco… -Memorie di
Castelfranco-, copia
ottocentesca, Biblioteca Comunale di
Castelfranco Veneto, 01 MS 158, pp. 309-310; ma
si cfr. anche N. MELCHIORI,
Catalogo Historico
Cronologico cioè Copiosissima Raccolta
che contiene La serie dei nomi…,
Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, P6
MS 161, p. 59, dove
Bernardino Zaghi risulta notaio del Santo Monte sin già nel
1494, mentre Pietro Dotto già nel 1496).
Un locale però che, se fosse quello dello
“studiolo” (come porterebbe a pensare, a questo
punto, anche la presenza nel fregio dei diversi
stemmi gentilizi di famiglie che tra i loro
componenti avevano avuto notai e persone che
ricoprirono importanti cariche pubbliche),
dovette presto divenire d’uso sostanzialmente
collettivo per la categoria notarile cittadina,
in quanto verrebbe logico pensare, vista la sua
collocazione a ridosso dell'antico palazzo
pretorio, che sia stato presto trasformato nel
cosiddetto “Officio dei Nodari”, riguardo al
quale sempre il Melchiori così riporta: «L'Officio
dei Nodari, dove si conservano le pubbliche
scritture in materia di lite civili, è contiguo
al detto palazzo, e fu fabbricato in questo sito
intorno all'anno 1530, mentre per avanti era
sotto la scala del palazzo medesimo, dove
appunto sino al dì d'oggi si vede il botteghino,
ch'essi nodari si servivano, et alle volte
scrivevano anche sotto la loggia, dove pure si
tenivano le pubbliche udienze, ma ne' tempi più
antichi no v'è memoria, dove questi havessero
proprio luogo»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 195).
Il Nadal Melchiori (che questa volta, però,
potrebbe anche non essere precisamente
attendibile), ne farebbe allora risalire
l’edificazione
«intorno
all'anno 1530», che
tuttavia non andrebbe in contraddizione con
l'atto del 1506. Questa ipotesi, però,
perderebbe di consistenza andando a consultare
la planimetria del palazzo pretorio delineata
dall’ingegnere Giovanni Battista Princivalli nel
1834 (l’unica fonte fino ad oggi rinvenuta,
almeno per chi scrive, che dia un’idea reale
della pianta di quest’edificio, rispecchiante,
si suppone, anche le sue antiche funzioni), la
quale colloca l’“Officio
dei Nodari” al di là dell’Oratorio
delle Grazie, sull’attuale Via Francesco Maria
Preti (cfr. G. CECCHETTO,
Ibidem,
1999, pp. 122-123, fig. 49 –
foto 026
).
E quella collocazione si suppone fosse tale
anche all’epoca del Melchiori, visto che egli,
seguendo un suo consueto ordine descrittivo
riscontrabile in più manoscritti, che segue
topograficamente i siti, ne parla subito prima
d’inoltrarsi a descrivere edifici ed elementi
che si avvicinano sempre di più alla torre
dell’orologio.
In ogni caso, al di là di questo, quello che più
stupisce in relazione al Melchiori è che
non faccia alcun cenno, nei
suoi testi,
che lo “studiolo” sia o non sia diventato l’“Officio
dei Nodari”, degli affreschi in oggetto; quando,
a leggere quelle annotazioni, ci si rende conto
con quanta puntigliosa minuzia egli descrivesse
non solo ogni brano pittorico che all’epoca si
potesse vedere ma anche iscrizioni, scritte e
talvolta particolari curiosi di vario genere. Ci
si chiede, allora, perché non parli di questo
ciclo d’affreschi, tanto più che anche in epoca
recente hanno avuto una troppo facile
attribuzione a Giorgione giovanile (cfr.
GIULIANO MARTIN,
Giorgione negli
affreschi di Castelfranco,
Milano 1993, pp. 143-156), e, tra il Sei e
Settecento, Nadal Melchiori compreso, più autori
elencavano a Castelfranco, con le attribuzione
del tempo, diverse altre opere date al maestro;
e gli affreschi dello “studiolo”, come vedremo,
in effetti risentono di suggestioni
giorgionesche e, come tali, avrebbero potuto ben
essere considerati, nel Settecento, di mano
giorgionesca. In conclusione, si può affermare
che uno studioso come il Melchiori, imbevuto di
un clima già proto-illuminista, che descrisse
tutto ciò che poté vedere in Castelfranco, non
avrebbe omesso la descrizione anche di questo
ciclo. Se non ne parla, allora, si può supporre
che, o quel locale non fosse a lui accessibile o
conosciuto (il che sembrerebbe davvero
improbabile), o quegli affreschi all’epoca
fossero già stati occultati da intonaco. Nella
prima ipotesi, allora, che potrebbe però pure
legarsi alla seconda, lo “studiolo” non era
l’“Officio
dei Nodari” del quale, come visto, egli ne
parla; nella seconda, se lo era (ma la citata
planimetria del
Princivalli lo negherebbe),
gli affreschi erano già nascosti da intonaco.
Tanto più che, quando parla del pittore
concittadino Giovanni Battista Novello, così
precisa:
«Essendo
in età di 25 anni fece per l’Offizio dei S. S:
Nodari un Quadro rappresentante la Beata Vergine
col Bambino Gesù, San Nicolò Vescovo, e Santa
Caterina, nella qual Pittura Gio: Batta dimostrò
una pratica grande, et una rissoluta maniera»;
e altrove: «In
questo Officio evi un quadro lavorato in olio
rappresentante la Beata Vergine col Bambino Gesù
nelle braccia, S. Nicolò Vescovo protettore di
Nodari, et Santa Caterina Vergine e Martire, di
mano di Gio. Battista Novello nostro cittadino,
come anco si vede la sua descrizione che dice:
Novellus p: MDCIII»
(NADAL
MELCHIORI,
Notizie di Pittori
e altri scritti,
edizione a cura di G. BORDIGNON FAVERO,
Venezia-Roma
1968, p. 79, 134). Come per il Melchiori, pure
in altri testi, tra quelli consultati da chi
scrive, di autori successivi, non si fa alcuna
menzione degli affreschi dello “studiolo” (B.
Scapinelli sec. XVIII,
D.M.
Federici 1803 ca. e 1803, L. Crico 1822 e 1833,
Andretta-Montini 1858, A. Barea 1858, L. Puppati
1850, G.B.A. Semenzi 1864, A. Caccianiga 1872,
P. Battiston 1935?).
Tornando per il momento
alla differenza di dimensioni dell'attuale
“studiolo” rispetto a quelle concesse dall'atto
notarle del 1506, e anticipando velocemente
considerazioni sugli affreschi che si
approfondiranno con più attenzione più avanti, è
utile sottolineare quanto segue, partendo da
quanto riporta Luigi Squizzato nel testo su
citato:
«La modica
porzione, nell’angolo del cortile posteriore del
palazzo podestarile, confinante con la casa
degli eredi di Cassandra (figlia di Pietro
Barberio e vedova di Antonio Baroni
“aromatario”) nella misura di sedici piedi di
lunghezza (circa cinque metri e mezzo),
corrisponde all’attuale vano (acquisito in
seguito dal Comune e ora adibito a ufficio
scolastico). Per l'altra misura, invece, di sei
piedi e mezzo per la larghezza (circa due metri
e trenta nell’atto) non c'è coincidenza,
tuttavia tale misura è rilevabile nella mappa
catastale austriaca di Castelfranco, un po’ più
a sud, nell’angolo intermedio che si forma tra
le proprietà comunali e private. Evidentemente
lo spazio mancante di altrettanti due metri e
mezzo, verso mattina, coincideva con l'allora
“quasi pubblica latrina” (attualmente la parete
ad est lasciata con mattoni a vista, rispetto
alle altre, presenta una notevole presenza
d’umidità di risalita). L’altezza concessa era
di sette piedi e un quarto (circa due metri e
mezzo, com’è tuttora): doveva contenere
sostanzialmente due “scabella”. Ambiente, quindi
molto contenuto, con la sola prerogativa di
servizio al ricevimento delle persone e della
stillazione delle minute degli atti. La porta e
le finestre, come stabilito, si dovevano aprire
e tuttora si aprono solo sulla parete che dà
sulla strada (ora Vicolo dei Vetri) e tuttora
s’intravedono contornate nelle modanature della
decorazione, anche se leggermente modificate»
(L. SQUIZZATO,
Ibidem,
2010). Le misure,
quindi, del vano cui si riferisce il documento
del
Saxacher dovevano essere circa di circa m 5,50
di lunghezza per circa m 2,30 di larghezza,
mentre l'altezza sembrerebbe coincidere con
l'attuale altezza dello “studiolo”. Come detto,
lo “studiolo” attuale risulta nelle dimensioni
circa il doppio. Considerando, allora, come
suppone lo Squizzato, che la parete verso nord,
quella con porta e finestra, le cui misure
sostanzialmente coincidono con quelle dell'atto
del 1506, sia la parete originaria di quella
prima costruzione, lo “studiolo”, qualora fosse
questo locale, fu ingrandito nelle pareti di est
e di ovest. Questo potrebbe trovare una conferma
oggettiva proprio in alcuni affreschi, ma non
nel fregio del sottotetto: sotto quest'ultimo,
infatti, all'incirca nell'ultimo quarto a est
della parete nord e per circa m 3 nella parte
nord della parete di est (vale a dire, o poco
più, per una misura all’incirca corrispondente a
quella riportata, per la larghezza delle pareti
minori, nell’atto del notaio
Saxacher),
si conserva quanto è rimasto di un'antica
decorazione a finta tappezzeria composta da
fasce policrome verticali intervallate da linee
nere ritmate da regolari puntinature biancastre
(foto 015
). Questa decorazione a finta
tappezzeria, che stilisticamente riporta a
tipologie tre-quattrocentesche, sembrerebbe
precedere cronologicamente la sovrastante
decorazione a fregio continuo. Si potrebbe,
cioè, ipotizzare che la decorazione a finta
tappezzeria potesse essere stata la prima a
decorare l'originaria stanza concessa ai notai
Pietro Dotto e Bernardino Zaghi, più piccola di
circa metà rispetto ad un successivo
ampliamento; ampliamento che potrebbe anche
risalire, come riporta il Melchiori, al 1530
circa (ma sulla questione dell’“Officio
dei Nodari” s’è già discusso),
dopo il quale dovrebbe collocarsi, allora, la
realizzazione del fregio con teste alate di
putti, racemi d’acanto e tondi. E, in effetti,
stilisticamente, la decorazione a finta
tappezzeria si collocherebbe in un gusto
estetico più antico rispetto a quello del
fregio; conclusione che sembra confermata anche
dall'analisi in
loco degli
affreschi, seguendo anche il succedersi
temporale dell'intera realizzazione sulla base
dell'intonaco di supporto. Ciononostante,
bisogna considerare anche la possibilità che
tale decorazione a finta tappezzeria possa
davvero risalire a prima del XVI secolo,
anticipando pertanto il momento
dell’edificazione di quel locale e
conseguentemente escludendo anche che possa
trattarsi di quello menzionato nel 1506
dall’atto del Saxacher. In quest’ultima
possibilità, il ciclo in affresco del fregio si
potrebbe tornare a datare attorno al 1500, o
poco dopo, come stilisticamente parrebbe.
Anticipando ancora una volta, perché utile nel
contesto di quanto adesso si sta indagando,
quello che si cercherà di meglio approfondire
più avanti, oltre alle menzionate pitture
ricordate dall’architetto Pietrobon, vi sono
anche le altre due decorazioni pittoriche ancora
esistenti nello “studiolo”
di Vicolo dei Vetri che potrebbero aiutare a
ipotizzare quando possa essere stato occultato
il fregio, perché, ad un certo momento,
occultato lo fu: vale a dire la figura della
donna realizzata sul raccordo della vela posto
sopra la cappa del caminetto e la decorazione
pittorica relativa allo stesso antico caminetto,
entrambe successive alla realizzazione del
fregio (foto 013
). Più che le pitture nei
riquadri del raccordo della vela, quello che qui
interessa è la decorazione che inquadra la cappa
del caminetto la quale, invadendo la porzione
del fregio di quella parte di parete (in modo
simile a quanto avviene con la sovrastante
figura femminile) si deve, per forza di cose,
ritenere successiva. E successiva forse non di
poco, in quanto sembra potersi datare ad uno o
forse anche a due secoli dopo. Se così
effettivamente fosse, questa potrebbe essere una
testimonianza di un intervento di risistemazione
del locale, fatto magari anche nei primi anni
del Settecento, durante il quale gli affreschi
antecedenti potrebbero essere stati occultati da
intonaco e ciò, allora, spiegherebbe il motivo
del perché, essendo nascosti, Nadal Melchiori
non ne abbia fatto cenno. Le due fasce modanate
orizzontali, però, che richiudono il fregio per
tutta la sua lunghezza, andando a coprire, pur
per poco, la parte superiore ed inferiore del
fregio si devono considerare successive alla
realizzazione dello stesso e potrebbero essere
contemporanee, però dipinte dopo il fregio, o
risalire anche al tempo delle decorazioni del
caminetto (come forse allo stesso momento
potrebbero risalire anche quelle che
riquadravano l'apertura della porta e della
finestra più antiche –
foto 014
), e ciò, allora,
se non se ne trovasse una spiegazione, andrebbe
in contraddizione con l'occultamento del fregio.
Ma di ciò, ne parleremo oltre. Rimangono, in
più, le decorazioni floreali a tempera
completamente rimosse nel restauro dei primi
anni Novanta per dar completa luce al fregio
cinquecentesco: queste sarebbero potute risalire
all’epoca della realizzazione delle decorazioni
del caminetto, avallando la tesi che in
quell’occasione la stanza dello “studiolo” fosse
stata completamente ridipinta, o quasi.
La palazzina, infine, che ingloba la stanza
dello “studiolo”, si presenta oggi in aspetto
ristrutturato che ne rende difficile la
datazione, mancando all’esterno e nelle stanze
al pianterreno elementi che possano con certezza
aiutare a stabilirne una presunta data antica di
edificazione (e chi scrive, non ha avuto la
possibilità di vistare i piani interni
superiori). Ciononostante, dall’esterno, sotto
una veste che sembra prevalentemente tardo
ottocentesca, la palazzina pare riportare
un’impronta ben più antica, e forse anche
quattrocentesca, in una linea urbanistica
perfettamente giustificabile con le altre
antiche palazzine adiacenti che si sviluppano
alla sua sinistra, cioè verso est (ancora più di
oggi, questa continuità edilizia si riscontra
nelle foto degli esterni fornite dall’architetto
Pietrobon, scattate prima della ristrutturazione
iniziata nel 1991 –
foto 027
). Il pianterreno,
infatti, si sente castigato un po’ troppo verso
il basso, come se in antichità (e in realtà così
era) la pavimentazione stradale scorresse ad un
livello inferiore rispetto all’attuale. Porta e
finestre del pianterreno, nelle loro
collocazioni in altezza, sembrerebbero
sostituire antiche aperture che probabilmente un
tempo avevano maggior respiro, almeno per la
porta. Anche le finestre dei piani superiori
(quelle del primo piano sono state rimpicciolite
rispetto a quelle che si vedono dalle foto messe
a disposizione dall’arch. Pietrobon –
foto 028
)
non parrebbero solo riadattate ad un gusto
ottocentesco da originarie strutture tardo
cinquecentesche o seicentesche o settecentesche,
bensì riprese da una edificazione più antica,
che ancora una volta sembrerebbe
quattrocentesca, o perlomeno d’un primo
Cinquecento che porta però con sé un sapore
architettonico ancora legato al secolo XV. In
più, lo spessore dei muri esterni del piano
sotto al tetto, è di un'entità troppo
consistente per non pensare quei muri assai
antichi (e questo lo si nota particolarmente
nella facciata interna della palazzina).
L’architetto
Pietrobon,
che ne ha curato la ristrutturazione edilizia,
ha confermato a chi scrive che alcun elemento,
nel corso dei lavori di restauro, è emerso per
far supporre che la stanza dello “studiolo”
fosse stata in origine un’entità a sé stante,
successivamente inglobata nel resto della
palazzina, per la quale precisa anche la
difficoltà di dare una datazione certa,
considerando le profonde modifiche subite nel
corso dei secoli. Tuttavia, precisa che la
travatura del soffitto dello “studiolo” ancora
attualmente esistente, dovrebbe con ogni
probabilità risalire all’epoca del fregio
cinquecentesco poiché, se fosse stata sostituita
con la posa in opera di nuove travature,
certamente si sarebbero danneggiati gli
affreschi del fregio subito sottostante, cosa di
cui non si trova riscontro (foto 029
).
Tecnicamente parlando, poi, pare inoltre
improbabile che una travatura originaria pensata
per sopportare solo il peso di una copertura a
coppi, come precisa l’atto del notaio Saxacher,
possa poi essere utilizzata per sopportare il
peso degli altri due piani sovrastanti. La
travatura attuale, infatti, pare certo un po’
troppo “robusta” perché in origine dovesse
reggere una semplice copertura a coppi, la
quale, a buon senso, avrebbe dovuto essere non
con una travatura generalmente atta a sostenere
una sovrastante pavimentazione bensì a capriate.
Detto tutto questo, bisogna pure constatare che
la palazzina oggi si presenta in “abiti”
alquanto modesti: una veste che parrebbe
d’edilizia popolare e, come tale, non consona ad
avere al suo interno decorazioni pittoriche
antiche d’indubbio pregio non solo stilistico ma
anche tematico, con in più, tra l’altro, tutta
una serie di stemmi di casate di alcune tra le
più importante famiglie castellane e legate a
Castelfranco dell’epoca. Forse, in origine, la
palazzina era d’un aspetto ben più nobile di
quanto non appaia oggi e forse, quello oggetto
di questo studio, non era nemmeno l’unico ciclo
in affresco che essa conservava. O forse, in un
incalzare di tempi piuttosto veloci, un iniziale
e decoroso piccolo edificio destinato ad
un’attività di un certo rilievo, fu
effettivamente inglobato in un nuova palazzina
dalle modeste sembianze, portando così ad
avvallare la tesi dello Squizzato, trovando
magari anche dei punti di contatto con quanto
dice (o non dice) Nadal Melchiori, che a noi
adesso sfuggono (vale a dire, ad esempio, un
primo piccolo edificio innalzato subito dopo il
1506, pochi lustri dopo ampliato alle dimensioni
attuali, magari anche con l’aggiunta di altri
vani e di altri piani, assieme all’esecuzione
pittorica del fregio – ma è un’ipotesi che, ad
oggi, non trova alcun riscontro oggettivo).
Infine, un’ulteriore possibilità può essere
supposta considerando gli anni di cui stiamo
parlando, vale a dire quelli degli inizi del
Cinquecento, gli anni
della guerra della Lega di
Cambrai (1508-1516), quando le milizie nemiche
occuparono e
«[…]saccheggiarono
il Castello, e distrussero molti edifizï[…]»
(B.
SCAPINELLI,
Ibidem,
E-1 / MS 201, s. n. p.):
può essere che dopo queste distruzioni, si
procedette a risistemare le costruzioni
danneggiate magari, alcune, ristrutturandole o
edificandole
ex-novo.
Come dopo ogni guerra disastrosa si riscontra
una campagna di restauri edilizi, ricostruzioni
o nuove costruzioni, ciò dovette avvenire anche
a Castelfranco dopo la guerra della Lega di
Cambrai e, forse, anche
l’edificazione dell’“Officio dei Nodari”
cui parla
Nadal Melchiori riportando la data
1530, può aver avuto luogo proprio grazie a
questa campagna di ricostruzioni postbelliche.
A questo punto della nostra
ricerca, è doveroso parlare di un fatto
increscioso, che ha compromesso in parte la
lettura qualitativa degli affreschi del fregio.
Giuliano Martin nel suo testo su Giorgione,
edito a Milano nel 1993, pubblica gli affreschi
dello “studiolo” di Vicolo dei Vetri già
restaurati e sostanzialmente come li possiamo
vedere oggi (cfr. G. MARTIN.
Ibidem,
1993, pp. 145-153). Il loro restauro, pertanto,
è stato fatto durante e dopo la ristrutturazione
dell'edificio che li contiene, realizzata tra il
1991-1992 e la data di pubblicazione del
suddetto libro, il 1993, quindi prima che il
Comune di Castelfranco ne venisse in possesso
con
l'atto d'acquisto redatto nel 1995 (rogito
notarile del 25 dicembre 1995).
Il pittore nostro concittadino cui si è fatto
riferimento più sopra, dopo aver contribuito,
con attenzione e professionalità, alla rimozione
degli strati di intonaco che li ricoprivano, fu
allontanato da questo incarico ed il lavoro di
recupero fu proseguito da altra mano. Sempre il
Martin,
in nota al capitolo
dedicato allo “studiolo”, riporta una relazione
tecnica sullo stato di conservazione degli
affreschi e un progetto per il loro restauro,
redatta dal laboratorio per il restauro di
Villorba gestito dai professori Giancarlo David
e Roberto Fioretti. Di questa relazione è utile
citare quanto segue:
«[la pittura del fregio è]
[…]dipinta
con la tecnica ad affresco su intonaco lisciato
riconducibile presumibilmente alla metà del
secolo XVI[…]
Il motivo ornamentale delle fascia è comunque
finemente dipinto a grappoli con racemi e
tralci, ritmicamente intervallato da tondi a
finto bassorilievo: questi recano stemmi di
casato, figure simboliche, strumenti musicali,
che pur nelle ridotte dimensioni si mostrano
felicemente risolti con pochi ed agili tocchi di
pennello, testimoniando il taglio di una mano
sicura. L'opera, che si presentava ricoperta da
uno spesso stato di calce e numerose mani di
tempera che l'hanno tenuta negli anni nascosta,
è ora stata riportata alla luce grazie all'uso
di strumenti meccanici. Questo intervento
preliminare ha permesso di verificare che
l'approccio al recupero di un affresco, seppur
mancante di alcune parti, ha restituito lo
stesso in discreto stato di conservazione
consentendo una lettura quasi integrale dei
motivi ornamentali ed una buona percezione
cromatica dell'insieme. Sono comunque necessari
ed urgenti alcuni fondamentali interventi di
restauro sia conservativo che estetico per
garantire la conservazione di questa espressione
storico-artistica e arginare il degrado in
corso. La superficie pittorica si presenta
tuttora ricoperta da una leggera ma vasta
scialbatura di calce, dato che il primo
intervento a bisturi non poteva essere esaustivo
e completamente efficace
[foto 030
].
L'intonaco presenta distacchi profondi in alcune
zone, che causano l'instabilità dello stesso. Si
è comunque proceduto all'immediato, seppur
provvisorio, ancoraggio dei pesi pericolanti
tramite una prima stuccatura, tenendo conto
anche della contemporaneità dell'intervento di
restauro edile e quindi delle inevitabili
vibrazioni a cui è soggetta la struttura muraria
[foto 031
].
La pellicola pittorica si presenta invece in
discrete condizioni non facendo rilevare
particolari sfogliamenti, ma evidenziando
tuttalpiù in alcuni punti l'abrasione del
colore. Le operazioni di restauro procederanno
secondo fasi prestabilite. Per prima cosa si
provvederà alla asportazione delle scialbature
di calce che andrà rimossa a percussione con
strumenti meccanici: si effettuerà quindi la
pulitura con solventi lievemente basici.
Successivamente si darà corso al consolidamento
dell'intonaco attraverso microiniezioni di
resina acrilica in emulsione Primal AC33,
addizionata con acqua in diluizione al 50%. Per
gli stacchi più profondi si interverrà sempre
con resina acrilica addizionata a cariche
inerti. Seguiranno le stuccature a livello delle
lacune e delle fessurazioni, con malta a base di
carbonato di calcio e sabbia fine, mescolata a
resina acrilica Primal AC33 diluita in acqua al
30%. Le stuccature stesse saranno poi
reintegrate a tratteggio con colori ad
acquarello, in presenza di abrasioni si
interverrà con la stesura di velature sottotono
sempre ad acquarello. Infine l'affresco verrà
fissato con resina acrilica Paraloid B72 diluita
al 3% in tricloroetano dato a spruzzo»
(G.
MARTIN. Ibidem,
1993,
n. 1, p. 155).
Sulla base di questa
relazione, si può dedurre quanto segue. Innanzi
tutto, che il primo nucleo di fotografie
conservato presso la biblioteca comunale
cittadina, com'era intuibile dalle foto stesse,
risale a poco dopo il rinvenimento degli
affreschi, quando essi non erano ancora stati
del tutto liberati dagli strati d'intonaco
sebbene, però, già se ne potesse leggere in modo
piuttosto soddisfacente una loro buona parte. Il
secondo nucleo fotografico della biblioteca,
invece, ad una fase successiva, quando i lavori
di ristrutturazione edilizia dell'intero
edificio erano già in corso, e mostra delle
immagini della stanza e degli affreschi dello
“studiolo”, dove si vede la prima ripulita per
il grosso fin quasi alla struttura portante e i
secondi già liberati
in toto
dalle ridipinture d'intonaco, stuccati
sommariamente per prevenire loro danni dai
lavori edili in corso ma ancora parzialmente
velati dalle
scialbature di calce. Quest'ultimo nucleo di
foto, pertanto, è stato scattato dopo il primo
intervento di consolidamento cui fa riferimento
la suddetta relazione ma prima del loro vero e
proprio restauro. Se questo primo intervento di
consolidamento deve essere stato eseguito dal
laboratorio di Villorba, poiché viene detto come
fatto nella relazione, è difficile pensare che
lo stesso laboratorio abbia poi continuato il
restauro previsto, considerando che il risultato
finale del lavoro non può essere stato opera di
professionisti del settore. Chi scrive,
purtroppo, non ha potuto avere a disposizione
della documentazione positiva a riguardo di
tutti questi interventi, che si suppone siano,
come dovrebbe essere stato, stati sottoposti
alla supervisione della Sovrintendenza alle
Belle Arti territorialmente competente (la quale
dovrebbe conservare tutte le pratiche legalmente
necessarie); pertanto, quanto qui enunciato, si
basa solo su logiche supposizioni. Comunque sia,
il dato oggettivo è rappresentato dagli
affreschi stessi nello stato di conservazione in
cui appaiono oggi messo a confronto con quello
che appare dai due nuclei fotografici citati.
Sia nel primo che nel secondo nucleo di foto,
alcuni brani degli affreschi dello “studiolo”
appaiono piuttosto ben leggibili e mostrano,
senza ombra di dubbio, uno stato di
conservazione decisamente migliore di quanto non
sia quello attuale (foto 032
,
033
,
034
,
035
,
036
,
037
,
038
,
039
,
040
,
041
). Per quel che
riguarda il fregio, soprattutto, su tutta la sua
superficie s'intuisce una resa cromatica
alquanto più viva e plastica rispetto
all'attuale; gli stessi restauratori, infatti,
nella loro relazione non mancano di sottolineare
che essi si conservano
«in
discreto stato di conservazione»
e mostrano
«una buona percezione cromatica dell'insieme».
I brani mancanti che si riscontrano nelle
fotografie, sembrano essere quelli oggi
esistenti e il danno, pertanto, deve essere
imputato a delle operazioni di pulitura dalle
scialbature di calce troppo aggressive. Come in
ogni intervento di restauro pittorico, la fase
più delicata e pericolosa per l'opera è quella
della pulitura: ogni successiva ridipintura di
reintegro, anche dovesse coprire parti estese
dell'originale, è prevalentemente una questione
estetica, poiché tutto quanto dipinto sopra può
essere rimosso riportando le superfici allo
stato precedente, com'è successo per gli strati
d'intonaco che coprivano i nostri affreschi
(anzi, verrebbe da dire, che per anni hanno
protetto i nostri affreschi). La pulitura,
invece, che precede ovviamente ogni reintegro
pittorico, è una fase del restauro da affrontare
con la massima cautela e prudenza, con l'ausilio
anche di continue e adeguate analisi e
rilevazioni, in quanto, sia che si proceda con
strumenti meccanici sia che si proceda con
appositi solventi, si agisce direttamente sulla
pellicola pittorica originale, rischiando, se si
sbaglia, di comprometterla per sempre. Questo è
quanto successo agli affreschi dello “studiolo”,
che sono stati irrimediabilmente rovinati,
almeno da quanto si può giudicare mettendoli
oggi a confronto con le fotografie scattate
prima della loro pulitura finale. La pulitura ha
per gran parte svilito e appiattito non solo il
loro cromatismo, che da tonalità calde e
marronastre (nonostante le fotografie possano di
loro scaldarne le tinte) oggi hanno assunto una
predominante fredda e tendente al grigiastro, ma
pure la loro stessa resa plastica e la loro
tridimensionalità spaziale nelle raffigurazioni,
fino a farli apparire oggi di ben altra qualità
pittorica, anzi, talvolta addirittura di una
qualità quasi scurrile, per non dire quasi
banale. In più, sia per quel che riguarda le
parti con putti alati e racemi con foglie
d'acanto sia per quanto concerne i tondi,
soprattutto nelle loro raffigurazioni
mitologico-classicheggianti, scialbati e abrasi
al punto d'aver cancellato alcuni loro
particolari e d'aver reso la pennellata piatta,
trasformandoli in una sorta di disegno colorato
che ne conserva essenzialmente la struttura
iconografica, ma privata di tutte quelle
velature che ne davano pregio e vita pittorica.
Iconograficamente, infatti, sono ancora ben
leggibili ma stilisticamente e qualitativamente
assai meno.
Precisato, com'era
doveroso, questo aspetto alquanto spiacevole e
deplorevole, e dopo aver tentato di capire le
possibilità di sviluppo nel tempo dell'intero
edificio che ingloba lo “studiolo”, proviamo ora
ad improntare un possibile sviluppo nel tempo
delle decorazioni pittoriche in esso conservate.
A livello iconografico, verrebbe da pensare che
le pitture più antiche siano quelle che decorano
parte delle pareti nord ed est con i
sopravvissuti brani policromi a finta
tappezzeria verticale che scendono da sotto il
fregio (foto 042
), la cui tipologia si riscontra
prevalentemente tra il Tre e Quattrocento (cfr.
le riproduzioni ad acquerello di Memi Botter in
M. BOTTER,
Affreschi decorativi di antiche case trevigiane,
Dosson di Treviso, 1979, tavv. 64-65, 68, pp.
156, 158, 162 –
foto 043
,
044
,
045
), sebbene vi siano,
ma con gusto però già più classicheggiante,
testi anche cinquecenteschi (si vedano, ad
esempio, gli affreschi a finta tappezzeria
dell'interno di Porta Santi Quaranta
a Treviso in FONDAZIONE BENETTON STUDI RICERCHE,
Treviso urbs picta.
Facciate affrescate della città dal XIII al XXI
secolo: conoscenza e futuro di un bene comune,
a cura di ROSSELLA RISCICA e CHIARA VOLTAREL,
Antiga Edizioni, Treviso 2017, p. 159, fig. 29).
Questi affreschi, nella loro parte superiore,
sono coperti dalla fasciatura orizzontale nera
della modanatura inferiore del fregio, che però
è postuma rispetto al fregio e quindi copre la
linea di sutura tra le due pitture, non
permettendo di capire quale delle due preceda
l’altra o se, invece, siano contemporanee (foto
046
). E si vuol precisare, in questo contesto,
che chi scrive, non ha avuto la possibilità di
servirsi di analisi tecniche, chimiche o di
rilevazioni scientifiche oggettive o di altro
genere che lo potessero coadiuvare in questa
ricerca; pertanto, le supposizioni a cui si è
giunti, si basano esclusivamente su un’analisi visivo-estetica e storico-artistica dei
manufatti. Qualora, come potrebbe sembrare, le
decorazioni a finta tappezzeria fossero
effettivamente il primo intervento pittorico del
locale, quindi le più antiche, queste potrebbero
risalire, come abbiamo visto più sopra, o a un
edificio antecedente al 1506 e nel Cinquecento
risistemato, o, avvallando la tesi dello
Squizzato, potrebbero essere quelle che per
prime andarono a decorare il piccolo vano cui fa
menzione l’atto del notaio
Saxacher. A tal proposito, bisogna in realtà
constatare che i brani superstiti di queste
decorazioni, che, come si è detto, nella parte
di nord si estendono per circa tre metri a
partire da sinistra (all’incirca, o poco più,
per la lunghezza delle pareti minori del locale
la cui costruzione fu concessa nel 1506), sembra
si concludano a destra regolarmente, come se
effettivamente là avessero un tempo trovato il
loro limite, magari in corrispondenza di una
parete trasversale (foto 047
). Pure la ritmica
alternanza dei colori delle fasce verticali,
porterebbe a pensare così, poiché, a due a due,
i colori si snodano ripetendosi regolari, in un
ciclo completo: due fasce giallastre, due
azzurrino biancastre, due verdoline e, a
conclusione, due rosso rosate, ripetendosi in
questo esatto ordine per altre tre volte (foto
048
). Pensarli contemporanei agli affreschi del
fregio sovrastante, però, striderebbe e parrebbe
una forzatura proprio insita stilisticamente
nella loro stessa contemporaneità, anche se nel
momento della loro esecuzione la stanza avesse
avuto le dimensioni attuali: per tipologia,
infatti, questo genere di decorazioni di matrice tre-quattrocentesca fu ben presto soppianta da
un gusto cinquecentesco che preferiva pitture
figurate, come lo sono quelle del fregio, che
qui si vogliono datare ad un momento successivo.
Questo fregio che, come detto, corre con
continuità lungo tutto il sottotetto (cm 75
circa di altezza per m 20 circa di lunghezza),
con raffigurazioni che alternano teste di putto
alate con ai lati volute vegetali a tondi
modanati contenenti, alternativamente, stemmi
nobiliari e scene figurate, devono ritenersi,
pur se in alcuni casi con ricordi ancora tardo
quattrocenteschi (come vedremo), eseguiti entro
i primi decenni del Cinquecento (foto 049
). Chi
scrive, fatica a darli alla metà di quel secolo,
come supposto dai restauratori
Giancarlo David e Roberto Fioretti nella loro
relazione, essendo a quell’epoca, anche in
provincia, maturati stilemi più articolati, non
ancora, talvolta almeno, pienamente manieristi
certo, ma di sicuro con un gusto definibile già
proto-manierista. Questo fregio dovette in
origine svilupparsi con continuità lineare su
tutte e quattro le pareti, sebbene oggi presenti
significative interruzioni in corrispondenza di
un’antica finestra e di un’antica porta a nord
(foto 014
) e, a ovest, per l’inserzione della
decorazione della cappa del caminetto e di
quella che raccorda la vela che contiene la
figura allegorica (foto 013
); mentre importanti
lacune interrompono il fregio come segue: una
lacuna di circa cm 50 si trova all’estremità
sinistra della parete nord (foto 050
); per una
dimensione leggermente minore una prima lacuna
poco prima della metà della parete est, che ha
causato la perdita di una testa putto, e altre
due più estese all’estremità destra, che hanno
causato rispettivamente la perdita di uno stemma
e di un’altra testa di putto (foto 051
); lacune
minori all’inizio della terza fascia del fregio
nella parete sud, che si conclude, però, con una
lacuna abbastanza estesa all’estremità destra,
con la relativa perdita di buona parte di
un’altra testa di putto (foto 052
); e,
nell’ultima parete, lacune meno rilevanti (foto
053
). Databili su per giù agli stessi anni del
fregio, potrebbero invece essere le
decorazioni pittoriche realizzate negli spazi
murati tra una trave e l'altra del soffitto
delle pareti nord e sud, sopra al fregio stesso,
dove vi sono dipinti dei rettangoli monocromi
rosati con al centro un fiore (foto 012
). Agli
anni del fregio, ancora, potrebbero risalire
anche quei pochi lacerti di antico intonaco che
scendono con tonalità rosate di sotto la sua
modanatura orizzontale inferiore, irregolarmente
e per alcuni centimetri, sulle pareti dove non
vi è la finta tappezzeria (foto 016
). Come lo si
vede oggi, il fregio, eseguito ad affresco,
dovette essere stato fin dall’origine
incorniciato orizzontalmente, sopra e sotto, da
fasce modanate continue; quelle che attualmente
lo racchiudono, però, devono ritenersi fatte
dopo, poiché: primo, tagliano, seppur in minima
parte, la figurazione del fregio stesso, in modo
particolarmente evidente nei tondi (foto
054
,
055
) ma spesso chiaramente riscontrabile
anche nell’estremità superiore di alcune ali
delle teste di putto e nell’estremità di alcune
delle code dei volatili che beccolano (foto
056
); secondo, perché probabilmente eseguite a
tempera, non mostrando alcuna interruzione
dovuta alla giornate di lavoro che richiede la
tecnica dell’affresco e tradendo, pertanto,
l’impressione che la loro pellicola pittorica
sia posta sopra l’intonaco, a secco, e non sia,
invece, parte dell’intonaco. Ciò, però, non
toglie la possibilità che possano anch’esse
essere contemporanee al fregio che racchiudono,
pur se dipinte dopo, a secco. Per la
realizzazione del fregio, infatti, se quello che
lo accoglieva non era il primo intonaco (cioè
quello di tutte le superfici delle pareti), ci
dovette essere stata la necessità di rifarlo,
per dipingervi, appunto, “a fresco”. Qualora
effettivamente il fregio fosse stato dipinto
dopo una prima intonacatura del vano, magari
quella che recava in affresco la decorazione
verticale a finta tappezzeria, per la sua
realizzazione sarebbe stato necessario
“grattare” in quella zona il vecchio intonaco
per poterlo riporre e, a fresco, dipingere la
nuova decorazione del fregio. Questo avrebbe
certamente comportato la presenza di una linea
di sutura tra vecchio e nuovo intonaco che
avrebbe potuto essere non così precisa e quindi
dare adito ad uno spiacevole risultato estetico:
da qui, la necessità di dipingere a secco, cioè
a tempera, una fasciatura orizzontale, sopra e
sotto, che ne nascondesse le imperfezioni nella
linea di contratto tra la nuova e la vecchia
superficie; e da qui forse anche la necessità di
invadere, coprendola, seppur per pochissimo, la
pittura del fregio. Certamente successivi al
fregio, invece, sono i brani dipinti sul
raccordo a vela della parete ovest, raffiguranti
una figura femminile allegorica e dei ramoscelli
simbolici (foto 013
): successivi, perché vanno
ad interrompere, sovrapponendosi, la continuità
del fregio, ma successivi non poi di molto,
visto che la figura si presenta con una
“secchezza” incisiva che pare richiamarsi ancora
a stilemi mantegneschi, seppure si possa sentire
un realismo idealizzante da “stregoneria” letto
in chiave giorgionesca come lo poteva
“scimmiottare”, ad esempio, Pietro Vecchia nel
Seicento, ovviamente senza la sua spumeggiante
qualità. Le ultime decorazioni pittoriche,
infine, eseguite sicuramente dopo la
realizzazione del fregio e probabilmente per
ultime, sembrano essere quelle che andavano ad
abbellire un antico caminetto nella parete
ovest: di queste, rimane gran parte della
quadratura della cappa, pur mutila significamene
di una buona area della sua superficie che
includeva anche un tondo, forse figurato o forse
con uno stemma, e poche altre riquadrature che
si abbassano al caminetto (foto 057
). A
riguardare queste pitture, mettendole a
confronto, per materia e per stile, a quelle
sicuramente antecedenti, si ha l’impressione
possano risalire ad un’epoca decisamente più
tarda, forse di fine Seicento o addirittura di
primo Settecento. Sempre, per possibili analogie
materiche e di tratto, forse allo stesso periodo
potrebbero essere databili pure le riquadrature
che andavano a delimitare, nella parte di nord,
un’antica finestra e un’antica porta (foto 014
-
e non si esclude che all’incirca allo stesso
momento possano risalire anche i rifacimenti
delle modanature orizzontali sopra e sotto il
fregio, sebbene questi possano pure essere
testimonianza di una risistemazione della stanza
fatta prima). Infine, le decorazioni floreali a
tempera rimosse per dar luce al fregio, delle
quali però nulla più rimane, è possibile possano
essere state realizzate contemporaneamente a
queste ultime pitture.
Riassumendo velocemente quanto fin qui detto, la
successione temporale delle pitture dello
“studiolo” potrebbe essere la seguente: una
prima, la decorazione a finta tappezzeria
verticale, eseguita forse per l’originaria
struttura del locale menzionato nell’atto del
1506, o, se più antica, per un locale che era
parte di una struttura antecedente al 1506 e che
nulla avrebbe a che vedere col vano concesso
dall’atto del notaio Saxacher; una seconda,
quella del fregio con le teste di putto alate,
le volute d’acanto e i tondi con stemmi e scene
figurate (assieme forse ai riquadri rosati tra
trave e trave e ai pochi centimetri di intonaco
superstiti sotto al fregio stesso), che
contraddice le dimensioni del vano menzionato
nell’atto del 1506, anche se verosimilmente
databile proprio attorno a quegli anni; una
terza, eseguita poco dopo il fregio, ma
pressoché contemporanea, rappresentata dalle
fasciature modanate orizzontali, a secco, sopra
e sotto il fregio, per nascondere la linea di
contatto tra le due superfici d’intonaco; una
quarta, quella della figura allegorica posta sul
raccordo a vela della parete ovest, con i suoi
riquadri a sinistra e a destra, databile, se
proprio non si vuol entrare nel XVII secolo, ad
un Cinquecento inoltrato; e una quinta, infine,
composta dai riquadri dell’antico caminetto e,
forse, da quelli che contornavano un’antica
finestra e un’antica porta (assieme, forse, alla
decorazione floreale purtroppo totalmente
rimossa), presumibilmente databile tra la fine
del Seicento e i primi del Settecento,
testimonianza, ipotetica, dell’occultamento del
fregio e motivo per cui Nadal Melchiori non ne
parla. Da lì, tutti gli altri rimaneggiamenti
fino a giungere allo stato attuale del locale,
comprese le intonacature precedenti al
rinvenimento, nel 1991, delle decorazioni
oggetto di questo studio; decorazioni
probabilmente rimaste allora nascoste per circa
tre secoli.
Si consideri che ognuno dei suddetti possibili
interventi dovette aver avuto luogo per sue
precise ragioni, che oggi sfuggono.
Di tutti questi interventi decorativi, però, due solo hanno rilevanza storico artistica: il fregio e la figura allegorica; gli altri, ci aiutano solo a meglio comprendere gli sviluppi nel tempo, o i rimaneggiamenti, di questi due.
Sia uno che l’altro, come
prima cosa, mostrano delle incoerenze, diciamo
così, a livello compositivo o, almeno, di giusta
collocazione ambientale.
Consideriamo per prime, per semplicità, quelle
che riguardano la figura allegorica femminile
che va a decorare un raccordo a vela che non è
al centro di quella parete (foto
009
Tutto questo è un bel problema; e cosa
significa?
Escludendo anche qui che si tratti di un
grossolano, banale errore di calcolo, una prima
spiegazione, semplice, tuttavia fondata,
potrebbe essere quella appena detta per le altre
incoerenze riscontrate, vale a dire il
persistere di un atteggiamento di stampo ancora
medievale che non dà, a tali soluzioni,
quell’importanza d’armonia compositiva per la
quale il nostro occhio, oggi, le sente
stridenti. Un’altra, potrebbe esser dovuta alle
esigenze del committente (o dei committenti), i
quali imposero di adattare soluzioni
compositamente poco armoniche a vantaggio di una
maggiore efficacia rappresentativa della
decorazione, finalizzata alle funzioni che in
quel luogo si esplicavano. In questo caso,
allora, bisogna considerare anche la possibilità
che gli stemmi possano essere stati ridipinti e
cambiati nel tempo. Se, a tal riguardo, andiamo
ad esaminare lo stemma all’estremità destra
della parete col caminetto, che dovrebbe forse
essere quello degli Emo, soprattutto guardando
la relativa foto conservata in biblioteca, che
lo raffigura prima del restauro, sotto l’attuale
campo, che parrebbe realizzato “a secco”, sembra
di poter individuare con una certa chiarezza una
metà campo inferiore sopra la quale sta una non
ben definita figurazione (forse una mezza aquila
vista frontalmente con le ali aperte –
foto
062
). Potrebbe allora essere che lo stemma degli Emo sia stato ridipinto. Anche altri stemmi
sembrano dipinti “a secco”, come quello dei
Costanzo, ad esempio, sotto al quale, nelle
lacune, pare di veder altra pittura (foto 063
).
Al di là delle recenti ridipinture di restauro,
se la materia pittorica originale dello stemma
dei Gradenigo sembra coerente con quella del
resto del fregio, continuando in senso orario in
questa disamina della pellicola pittorica delle
armi, quella dello stemma successivo, non ancora
individuato da chi scrive, anche perché
incompleto, sembra in alcune parti del suo
semipartito troncato di sinistra eseguita “a
secco”, mentre nel partito destro, andato perso,
vi sono strani residui grigio-verdastri (foto
064
). Coerente nella sua materia pittorica con
quella del fregio, pare essere il successivo
stemma dei Dotto, così come pure quello dei Marta-Brusaporco, nonostante le estese recenti
ridipinture. Infine quello dei Moro, all’inizio
della parete ovest, che sembra esso pure, in più
parti, eseguito “a secco” (foto 065
). Bisogna
precisare però, che il fatto che alcuni brani di
un affresco siano eseguiti a secco non significa
per forza che debbano essere successivi:
infatti, accedeva sovente che alcune zone di un
affresco fossero finite a secco. Tuttavia, se
non si ripreparava l’intonaco per dipingervi
nuovamente a fresco (o a “mezzo fresco”), tutti
i rimaneggiamenti successivi fatti su un
affresco dovevano ovviamente essere fatti a
secco. Nel nostro contesto, in più, bisogna
considerare la possibilità che alcuni stemmi
siano stati dipinti anche in epoche successive.
E, poiché chi scrive non dispone di analisi e
indagini tecniche oggettive, non può neppure
escludere una possibilità estrema, che tra
l’altro risolverebbe il problema di alcune
incoerenze compositive d’insieme a tal riguardo:
vale a dire che, in origine, tutti i tondi del
fregio, o quasi tutti, contenessero scene
figurate, successivamente sostituite da stemmi
gentilizi. Supposizione questa, tra l’altro, già
avanzata dallo Squizzato (cfr.
L. SQUIZZATO,
Ibidem,
2010).
Nonostante
tutte queste considerazioni, oggi ci troviamo
di fronte ad un fregio antico, cinquecentesco,
nel quale si alternano tondi con scene figurare
a tondi con stemmi nobiliari. È logico pensare,
allora, che un siffatto lavoro avesse avuto un
tempo un suo ben preciso significato
simbolico-rappresentativo, legato al luogo
stesso per cui fu pensato e realizzato. È
normale porsi, di conseguenza, una semplice
domanda: a cosa era destinata quella stanza che
oggi si suol chiamare “studiolo”? Che nascesse
davvero come uno studiolo di un qualche umanista
residente a Castelfranco tra la fine del
Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, anche
qualora si provasse oggettivamente quel caso che
abbiamo detto estremo, vale a dire che tutti i
tondi del fregio avessero in origine al loro
interno una scenetta figurata, pare assai
improbabile. Pare assai improbabile per la
collocazione della stanza stessa: il primo vano
d’accesso di una palazzina, in una posizione
d’ingresso, subito a ridosso di una strada,
quindi poco consona ad essere adibita a luogo di
raccolta, di meditazione e di studio.
Considerando l’oggettiva presenza di stemmi di
famiglie che tra i loro componenti hanno avuto
dei notai, verrebbe lecita la tentazione di
avallare la tesi dello Squizzato, ovvero che si
trattasse effettivamente di uno spazio adibito
ad attività notarile. Ma sul vano la cui
costruzione fu concessa con l’atto del notaio
Saxacher nel 1506 e l’attuale “studiolo” si è
già detto quanto basta e, per avallare quella
tesi, bisognerebbe credere, tra i molti altri
risvolti, al fatto che un’altra concessione
fosse stata fatta ai notai Pietro Dotto e
Bernardino Zaghi, permettendo loro di costruire
un vano dalle dimensioni maggiori, in grado di
sostenere poi sopra di sé il peso di un’intera
palazzina. Se il fregio, allora, fosse stato
commissionato dai due suddetti notai, i loro
stemmi sarebbero stati i primi ad apparire nella
decorazione. In realtà, il fregio della famiglia
Dotto c’è, il primo, da sinistra, nella parete
sud (foto 066
), e per quello dei “de
Zaghis” vi è una lacuna che avrebbe dovuto
contenere uno stemma, tra l’altro, proprio in
successione a quello della famiglia del collega
(foto 067
); senza considerare la possibilità
che, nel tempo, alcuni vecchi stemmi possano
essere stati sostituiti da nuovi, rimpiazzando
quello dei “de Zaghis” a favore di un altro. La
loro attuale collocazione, però, pur ammettendo
quella non curanza di ascendenza medievalista,
non sarebbe la più ideale a quello scopo. Dopo
questi due primi notai, gli altri stemmi
testimonierebbero un susseguirsi continuo,
almeno fino ad un certo punto, di nuovi notai,
portando a pensare lo “studiolo”, alla fine,
trasformatosi in quell’“Officio
dei Nodari” che in più documenti, nell’orbita
dell’antico palazzo pretorio, risulta collocato
altrove. Troppe ipotesi che non trovano avallo
da dati oggettivi o documentazioni positive.
Nell’impossibilità di avere la disponibilità di
analisi tecniche e indagini certe sul fregio e
sul vano che lo accoglie, quello di cui noi
disponiamo oggi, oggettivamente, è solo e
proprio lo “studiolo” stesso, il suo fregio e le
altre sue decorazioni. Il vano è collocato al
pian terreno, su una via secondaria ma a
ridosso, o quasi, dell’antico palazzo pretorio.
Oggi è parte integrante di una piccola palazzina
che ha l’aspetto di un’edilizia popolare,
sebbene il suo fregio riveli una qualità
pittorica e uno sviluppo tematico di una certa
levatura. Per molto tempo, forse per secoli, il
fregio fu occultato, quasi per una
sorta di
damnatio memoriae
per
ciò che aveva significato quel luogo, e
dimenticato. Fino ad oggi, per chi scrive, non
sono stati rinvenuti documenti o altre
testimonianze certe su quel luogo e su quel
fregio. Abbiamo lo “studiolo” e abbiamo il
fregio, e il fregio è quello che più ci parla
dello “studiolo” stesso. Pensare, come qualcuno
ha supposto, che lo “studiolo” sia stato un
luogo di conventicole o di riunioni segrete
tenute da componenti di alcune tra le più
importanti famiglie di Castelfranco o alla città
legate, è alquanto improbabile: gli stemmi
stessi ne sarebbero la prova prima. Chi,
infatti, si riunirebbe segretamente in un luogo
per discutere chissà quali cose riservate,
magari esoteriche o magari illegali, e poi
farebbe dipingere il proprio nome, cioè lo
stemma della propria famiglia, ben in vista
all’interno di quello stesso luogo di riunione?
Sarebbe davvero strano. La presenza degli stemmi
ci dice che certamente lo “studiolo” un tempo fu
un luogo non privato, probabilmente accessibile
al pubblico, forse anche luogo di riunioni ma
riunioni lecite che dovettero trattare
d’interessi comuni. Forse,
come qualcun altro ha supposto, sede di un
tribunale per cause minori (visto che altrove,
fuori città, si tenevano quelle di più rilevanza
o di maggior gravità), che ad un certo momento
fu smesso ed il fregio stesso occultato quale
testimonianza di un qualcosa che adesso era
altrove e che diventava imbarazzante,
inopportuno o sconveniente tenerne in vista una
traccia così esplicita. Collocato a ridosso del
palazzo pretorio, facilmente fruibile perché al
pian terreno e a ridosso di una strada, lo
“studiolo”, nel suo fregio, accolse i “nomi” di
chi là dentro vi svolse funzioni pubbliche o,
comunque, di pubblica utilità. Ad un certo
momento, quel luogo pubblico, o adibito a
funzioni di pubblica utilità, fu chiuso o ne fu
cambiato l’uso: da ciò la necessità di
occultarne anche una delle sue insegne
principali, il fregio (e questo, anche se fosse,
ad un certo momento, stato acquisito e adibito a
vita privata). Anche la figura femminile
allegorica, pur se dipinta successivamente al
fregio, parrebbe avallare quest’ultima ipotesi
(foto
068
L’interpretazione della
tematica narrata dal fregio è difficile. È
difficile, perché di difficili interpretazioni
sono le parti figurate dei tondi, quelle a cui è
stata demandata la narrazione del significato
simbolico-rappresentativo del ciclo decorativo:
troppo ermetiche, sintetiche e prive di
espliciti attributi. Tanto più difficile se quel
caso estremo, per cui gli stemmi andarono a
sostituire parti figurate, fosse davvero
successo: ci troveremmo, infatti, a leggere un
testo monco. Ciononostante, quello su cui si può
lavorare sembra mostrare una sua logica di
successione, con un punto di partenza e un punto
d’arrivo della narrazione figurata, e farci
intendere una possibile prima lettura, con
risvolti anche di etica morale. Il fregio,
l’abbiamo visto, si snoda alternando brani
essenzialmente decorativi a brani sicuramente
rappresentativi. Al
ripetersi di teste di putto alate con ai lati
racemi a voluta con foglie d'acanto, alle cui
estremità superiori sta un volatile che beccola,
spetta principalmente una funzione decorativa;
seppur vi si possa anche qui trovare degli
accorgimenti figurativi che possono avere una
loro precisa funzione didascalica all’interno
dell’intero ciclo (foto 069
). Il tema del putto
alato circondato da spirali di racemi è una
figurazione piuttosto tipica dell’epoca, che
trova ispirazione dalle decorazioni scultoree di
epoca classica, romana soprattutto, e che nello
spirito del recupero classicistico della cultura
umanistica quattro-cinquecentesca si riscontra
tutto sommato abbastanza di
frequente, e vi appare in
incisione nello stesso
Polifilo
(cfr. FRANCESCO COLONNA,
Hypnerotomachia Poliphili,
ed. Adelphi, Milano, 1998, tomo I, p. 97, fig. a
p. 97). La testa di putto alata è riconducibile
alla figura dell’amorino alato del mondo
classico, mentre nell’iconografia cristiana si
ricollega all’immagine del cherubino, che
tradizionalmente lo vuole con la faccia da
fanciullo attorno alla quale si spiegano otto
ali. Vi si può quindi individuare un’allusione
all’amore terreno e all’amore spirituale. Anche
ai girali d’acanto, in antichità, era associato
un forte valore simbolico, allusivo ad un
ritorno all’età dell’oro e al culto di Apollo.
Lo Squizzato, in queste pitture decorative, vi
riscontra una precisa simbologia: «Ai
margini in alto dei girali, coppie di uccelli
sono colti nell’atto di cibarsi di tali bacche:
appartenenti alla specie dei corvidi, forse
ghiandaie, riconoscibili dall’accentuata
cerchiatura dell’occhio, note per la loro
fedeltà, per la monogamia, per il prodigarsi
nella cura filiale, per la difesa del territorio
nonché per la spiccata memoria visiva nel
riconoscere i nascondigli delle ghiande o altre
bacche nei luoghi in cui le avevano celate
durante la buona stagione»
(L. SQUIZZATO,
Ibidem,
2010).
Per quel che riguarda i putti alati, sempre lo
Squizzato, fa notare che essi hanno
«[…]gli
occhi e bocche chiusi e stranamente privi di
orecchi»
(L. SQUIZZATO,
Ibidem,
2010).
A tal riguardo, però, nelle fotografie
conservate nella nostra biblioteca e riguardanti
queste raffigurazioni (che le mostrano prima
della pulitura troppo aggressiva), più ancora
che dalla visione dal vero, sembra che i putti
non abbiano gli occhi chiusi bensì abbassati
(foto 070
) e, cosa interessante e curiosa,
mostrino di direzionare lo sguardo in un punto
ben preciso, che pare individuarsi proprio con
la porta d’ingresso. A corroborare questa
ipotesi, vi sono anche le ombre che danno valore
chiaroscurale e plastico all’intero fregio,
tondi compresi. Anche queste, infatti, per la
maggior parte, sembrano seguire i raggi di una
luce proveniente anch’essa dalla porta (foto
071
). Non in tutte le pareti vi è però questa
coerenza: se nella parete nord, la porta fa da
vera fonte sia per la luce e le ombre che si
proiettano nelle decorazioni sia per gli sguardi
dei putti, e così per le pareti est e ovest, per
la parete sud sembra che la fonte sia nella
direzione dell’attuale sagoma del caminetto
(foto 010
).
Per
noi, oggi, i colori han perso gran parte del
loro valore simbolico e li guardiamo
prevalentemente per le loro qualità decorative e
di riempimento, spesso nell’ottica della mimesi
della realtà che ci circonda. In antichità, e
nel Medioevo soprattutto, ma anche nel
rinascimento, essi avevano un grande valenza
simbolica, per nulla trascurabile (cfr. M.
BRUSATIN,
Storia dei colori,
Torino, 1983). Non è da escludere la possibilità
che pure nel fregio dello “studiolo” i colori
abbiano una loro rilevanza simbolica, da mettere
in relazione con le parti figurate. Sebbene oggi
appaia prevalere una tonalità grigio-biancastra
dell’insieme, che di primo acchito ci dà quasi
l’impressione di un monocromo, il fregio dello
“studiolo” si caratterizzava in origine anche
per una sua vivacità cromatica, giocata tutta
dallo sfondo continuo rossastro sul quale
risaltano per contrasto le campiture
azzurro-bluastre che fanno da sfondo alle volute
e ai putti alati e il bianco-bruni che, nelle
parti figurate, vogliono imitare il marmo (foto
038
). Al rosso si può generalmente attribuire
una valenza positiva, che rimanda al valore
dell’amore terreno e spirituale, e una negativa,
quale colore legato alla violenza e
all’aggressività, all’ira e allo spargimento di
sangue; l’azzurro è da sempre collegato al cielo
e alla spiritualità celeste; mentre la prassi
tecnica di usare il bianchi ed i
bruno-grigiastri nel tentativo di imitare la
scultura e i bassorilievi marmorei, si pone
quasi sempre nell’intento di un richiamo
storico, mitologico-classicheggiante. Nella
tematica narrata dal fregio, con ogni
probabilità l’uso di queste scelte cromatiche
non è stata casuale.
Spetta comunque prevalentemente alle scenette
figurate dei tondi il ruolo di rappresentare una
tematica narrativa la cui ideazione, è logico
supporre, sia stata tracciata dalla committenza;
al pittore che poi l’ha materialmente eseguita
spetta probabilmente l’invenzione delle singole
composizioni, nel rispetto delle richieste della
committenza. Al di là degli stemmi gentilizi,
dei quali ci occuperemo più avanti, la
collocazione del locale che accoglie il fregio,
come più su detto (al piano terra e subito
aperto sulla strada, nonché adiacente all’antico
palazzo pretorio), fa pensare che in esso si
svolgessero funzioni pubbliche o di utilità
pubblica. Il ciclo in affresco, pertanto, doveva
soddisfate come tematica un tale scopo. Quale
sia l’esatta datazione del fregio non si sa.
Solo la sua analisi stilistica ci permette di
datarlo sensatamente a cavallo tra i secoli XV e
XVI, sebbene sia plausibile ritenerlo opera già
cinquecentesca, entro i primi decenni del
secolo, difficilmente oltre. Nei soggetti
raffigurati nelle scenette che adesso andremo a
vedere, considerando la sua probabile funzione
comunque sia di pubblica utilità, non pare
azzardato ipotizzare possano esservi dei
riferimenti o dei richiami, più o meno
direttamente allusivi, oltre che ad un preciso
monito moralistico rivolto a chi vi aveva
accesso, anche alla situazione storica che il
nostro territorio in quegli anni stava passando
o aveva appena passato. «1507. In questo tempo Castelfranco cade sotto il
Dominio di Massimiliano Imperatore, e Re dei
Romani. Castelfranco ricuperato dalla
Serenissima Republica»
(N.
MELCHIORI, Ibidem,
01 MS 158, p. 8).
«[…]e
dicesi, che
[Massimiliano] per
alcuni Mesi dimorasse nel palazzo della Publica
Rappresentanza»
(B.
SCAPINELLI,
Ibidem,
E-1 / MS 201, s. n. p.).
«1509. Castelfranco ripreso dall’armi Imperiali.
Leonardo Felicer Capitanio per Massimiliano
Imperatore»
(N.
MELCHIORI, Ibidem,
01 MS 158, p. 8).
«[…]
fù a Dionigi Naldo da Brisighella valoroso, e
fedel Capitanio, che a tutta la Fanteria era
proposto dato il carico di far la recuperazione
di Castelfranco, che da cento Soldati Spagnoli
era guardato.
Il quale non portando minor odio a quella
Nazione di quello, che egli portasse
d’affezzione alla Veneziana Republica con
grand’ardire preparatosi a questa impresa, il
giorno dietro con molta gente dati più assalti
al Castello non fece alcun profitto, essendosi
quelli di dentro valorosamente difesi. Ma
finalmente per la fede de’ Cittadini ottenutolo,
spogliati li Soldati Spagnoli, ed uno per volta
licenziati, furono nell’uscir dal Castello sopra
il Ponte fatti passar per le picche, e trafitti
nelle fosse gettati.
[…]Siccome
l’antepenultimo giorno di quel Mese ottennero
ancora Castelfranco, e rubbato il Monte di Pietà
saccheggiarono il Castello, e distrussero molti
edifizï, che in quel Territorio, nell’Asolano, e
nelle Ville del Montello erano sopravanzati. Ma
Castelfranco fù di nuovo valorosamente d’Antonio
dal Tempio Trevigiano ricuperato con l’ajuto de
molti uomini, che nella Pieve di Quero, egli
mìse insieme, al quale fù perciò dal Senato
concessa la Nobiltà Trevigiana, franchigìa
d’ogni imposizione, ed onesta provisione, la
quale però egli non volle, sino che la Republica
non ricuperò lo Stato, e così si mantenne sino
al giorno d’oggi sotto il glorioso e paterno
governo della Veneta Republica. Tanto s’ha
rilevato dall’Istoria Trivigiana di Giovanni
Bonifaccio»
(B.
SCAPINELLI,
Ibidem,
E-1 / MS 201, s. n. p.). E ancora il Melchiori:
«Alvise
intagliador con sua industria oprò che
Castelfranco non fosse saccheggiato et
incendiato da Tedeschi»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 373).
Erano gli anni della guerra della Lega di
Cambrai (1508-1516), lega con la quale tutti i
principali stati europei dell’epoca si
coalizzarono contro lo Stato veneziano nel
tentativo non solo di fermarne l’espansione in
terraferma bensì pure di distruggerlo
completamente per poi spartirsi le sue immense
ricchezze. Come ricordato dagli storici appena
citati, anche Castelfranco fu teatro di scontri
sanguinosi, occupazioni, saccheggi e
distruzioni. Se il fregio fosse stato eseguito
prima di questo tragico evento, in esso se ne
potrebbe leggere un sintomo del clima di
turbamenti che lo precedettero; se, come è più
probabile, fosse stato eseguito dopo, le sue
pitture potrebbero anche essere intese come un
monito contro siffatti eventi catastrofi, le cui
funeste conseguenze pesavano su tutti. Pensarlo
eseguito durante quegli anni di guerra, pare
assai difficile. E allusioni a tal riguardo,
nelle scene raffigurate nei tondi paiono proprio
non mancare.
Abbiamo appena detto che, sulle raffigurazioni
dei tondi, pur anche se in origine potessero
essere stati più numerosi di quanti non siano
oggi, si può ipotizzare lo svolgimento di una
tematica dai risvolti anche etico-morali,
incentrata sulla vita
in tempi di pace e in tempi di guerra,
individuando un suo possibile inizio e una sua
possibile fine, in una logica successione
figurata (foto 072
,
049
). Questa partenza,
porrebbe avere inizio dalla parete ovest,
l’unica, tra l’altro, che mostra due tondi
figurati contigui e centrali, perfettamente
collocati a livello
compositivo nella fascia di quel lato (foto
053
). A sinistra e a destra dell’attuale sagoma
della cappa del caminetto, vi sono raffigurati
rispettivamente una donna nuda stante, vista
frontalmente e che poggia su quel che pare un
globo o, meglio, una sfera, mentre tiene tra le
mani un lembo di stoffa che s’inarca a vela
(foto 34
,
035
), e un raggruppamento di strumenti
musicali posti alla rinfusa (foto 036
,
037
). La
figura femminile è stata individuata da Adriano
Mariuz
come la rappresentazione
allegorica della dea Fortuna (cfr. A. MARIUZ,
Giorgione pittore di affreschi,
in
Da Bellini a Veronese.
Temi di Arte Veneta,
a cura di GENNARO TOSCANO e FRANCESCO
VALCANOVER, Venezia, 2004, p. 304). Tra le
diverse tipologie iconografiche della Fortuna,
infatti, vi è anche quella di una
fanciulla nuda che sta in piedi sopra una sfera
e viene sospinta da una vela che tiene con le
mani (Giordano
Berti). Il tondo subito alla destra di quello
con la Fortuna, verso il quale spira il vento
che inarca la vela della dea, racchiude un
insieme di strumenti musicali a corda e a fiato,
forse un’allegoria della Musica ma che allude
certo a momenti di gioia, serenità e
spensieratezza. Il messaggio che pare di
cogliere potrebbe essere, quindi, quello per cui
se si ha la fortuna di vivere in pace la nostra
vita sarà fiorente, piacevole e piena di
armonia. Da questo primo monito, le
raffigurazioni che continuano nelle due pareti
maggiori (foto 050 ,
052
), andando da ovest verso
est, raffigurano una, quella della parete nord,
un carro trionfale condotto da un vecchio e
trainato da due cavalli (l’unico tondo
raffigurato della parete –
foto 073
,
074
),
l’altra, quella della parete sud, un curioso
satiro che porta sulle spalle una cesta colma
forse di pani o forse di pesci e che va verso
un’altra cesta, a terra e ben più grande,
anch’essa colpa di pani o di pesci (foto
075
,
076
). Il carro col vecchio potrebbe essere
interpretato come un’allusione allegorica del
Tempo, mentre il satiro una sorta di allusione
allegorica dell’Abbondanza o della Prosperità.
La personificazione del Tempo viene generalmente
rappresentata con la figura di un anziano dalla
lunga barba, con in mano una clessidra o una
falce. Qui, il vecchio barbuto e di profilo pare
tenere in mano
un arnese oblungo; ad avallare la possibilità
che si tratti dell’allegoria del Tempo,
sembrerebbe aiutare anche la decorazione a
clipeo posta sul fianco del carro dove, sebbene
poco leggibile a causa dello stato di
conservazione, si potrebbe identificare uno dei
suoi attributi,
l’uroboro,
un
serpente che si morde la coda formando un
cerchio senza inizio né fine, entro il quale vi
è dipinto un soggetto, però, non ben
decifrabile. Il carro stesso si presenta come
un’allusione allo scorrere del tempo. Questo
tondo, assieme a quello corrispondente sulla
parete di fronte, imprime un moto direzionale
all’intero ciclo. La direzione di marcia di
entrambe queste due ultime raffigurazioni parte
dalla Fortuna e dalla “Musica” e va verso est,
forse a voler dire che, da queste ultime, finché
la buona sorte non ci abbandona, si va verso il
benessere e una vita lunga, che pur possono,
però, fuggir via velocemente. come un carro
trainato da cavalli. A metà circa della parete
sud, si colloca l’aggraziata raffigurazione di
un elegante giovane falconiere, appoggiato a un
muretto o forse a un tavolo, col suo falco al
braccio (foto 077
,
078
). Nell’altra parete
maggiore, purtroppo, non vi è un’immagine
corrispondente (foto 050
). Il falconiere è una
raffigurazione che pare ben confermare questa
ipotesi di lettura del ciclo in affresco, poiché
si pone effettivamente come un punto intermedio
e di svolta, con suggerimenti simbolici allusivi
contemporaneamente al bene e al male. Il
falconiere, infatti, rimanda per tradizione
medievale al modello di vita cortese, galante e
aristocratico e, sebbene la falconeria fosse
l’unica attività venatoria a cui potessero
partecipare anche le donne, rimane comunque
un’occupazione cruenta. Il falco, poi, è un
caratteristico attributo dell’amor cortese e
spesso nelle raffigurazioni compare come
distintivo di
status
sociale e di nobiltà seppur, però, sia spesso
inteso con valori ambivalenti: da un lato, come
quelli di libertà, sobrietà, giovinezza,
speranza o pacifica concordia, dall’altro
rivestendosi talvolta di valenze negative quali
l’immagine di temperamento sanguigno e anche
quella dei vizi, l’orgoglio soprattutto.
L’ambivalenza del significato simbolico di
questo tondo, troverebbe conferma anche a
livello compositivo: la raffigurazione, infatti,
mostra il giovane falconiere visto di fronte, a
braccia sostanzialmente aperte in una positura
che pare proprio faccia da punto di trapasso tra
due diverse realtà. La sua posizione di
apparente stasi tradisce ben presto un ritmo
leggermente tortile e dalla ponderazione
instabile poiché, appoggiando tutto il peso del
corpo sulla gamba sinistra per genuflettere
l’altra e per bilanciare il braccio sollevato
che tiene il falchetto, aggrappato al solido
guanto e accecato dal cappuccio in pelle (che
sarà tolto solo al momento della caccia), ha
necessità di stendere l’altro braccio sul piano
d’appoggio. Questa positura, nonostante lo
sguardo dritto davanti a sé, ma rivolto in
basso, verso chi guarda, obbliga il giovane
falconiere a reclinare la testa e, nell’insieme,
la figura dà cenno di un lieve moto nella
direzione opposta alla Fortuna e alla “Musica”,
verso gli altri tondi allegorici.
La scenetta successiva, posta al limite estremo
della parete sud, e che come la precedente non
ha un suo corrispettivo sulla parete opposta,
mostra già, in questo ipotetico itinerario
tematico, un netto cambiamento di significato.
Essa, infatti, raggruppa due armature, un
elmetto, armi e altri apparati e congegni
bellici che, sebbene non indossati o ancora
impiegati, già son sufficienti ad introdurre in
clima di guerra, distruzione e dolore (foto
032
,
033
Da sottolineare, infine, la mancanza
di ogni esplicito riferimento a soggetti
religiosi, che non può ritenersi casuale. Come
appena detto, infatti, solo
l’ultimo tondo figurato,
quello col soldato a cavallo, può, ma in modo
alquanto aleatorio, vagamente alludere
all’immagine di San Giorgio, vale a dire
all’immagine di uno dei simboli religiosi della
lotta del bene contro il male, anzi, della
vittoria del bene sul male. Le stesse teste di
putto alate, che si ripetono uguali, tra tondo e
tondo,
riconducibili alla figura dell’amorino alato del
mondo classico, possono essere lette anche come
un’allusione all’iconografia cristiana del
cherubino. Nonostante ciò, in tutte le
decorazioni in affresco dello “Studiolo”, nulla
può essere palesemente e chiaramente definito
religioso. E se, quindi, come chi scrive
propende, l’utilizzo di questa “aula” era
effettivamente destinato a Tribunale per cause
minori, sembrerebbe insolito che non vi fosse
alcuna immagine religiosa e, anche, che non vi
fosse alcuna immagine direttamente riferita
all’autorità giudiziaria come, appunto,
un’allegoria della Giustizia.
Tuttavia, non si può escludere che non vi
fossero, solo che, invece di essere realizzate
in pittura, immagini religiose o miratamente
allegoriche potevano benissimo essere state
realizzate come sculture, opportunamente
collocate là dove servivano.
Nel fregio si alternano con regolarità alle
scene figurate gli stemmi gentilizi di alcune
importanti famiglie di Castelfranco o a
Castelfranco legate (foto 083
): alle estremità
opposte della fascia della parete ovest (foto
053
), a sinistra, l’arma dei Moro (foto 084
,
065
), a destra, quella forse degli Emo (foto
062
,
085
); sulla fascia della parete nord, (foto
050
) partendo da sinistra, l’arma dei Gradenigo
(foto 086
,
087
)
e poi quella dei Costanzo
(foto 063
,
088
);
sulla fascia della parete est, a sinistra l’arma di una
famiglia (foto 089
,
064
) da chi scrive non
identificata (il partito di sinistra troncato,
sopra interziato in banda grigiastra, con cinque
tondi rossi, su fondo bianco, sotto interziato
da tre bande rossastre su fondo bianco -forse
Emo?-; nonostante vi siano rimaste tracce di
colore grigio-verdastro, il partito di destra è
andato stranamente completamente perso, come
fosse stato volutamente cancellato), a destra
un’estesa lacuna (foto 067
) dove certamente
dovette esservi un tondo probabilmente con uno
stemma (che verrebbe da pensare potrebbe essere
stato quello degli Almerigo-de
Castellis?); sulla fascia della parete nord, da
sinistra, prima l’arma dei Dotto (foto 090
,
066
)
e infine quella Marta-Brusaporco (foto 091
,
092
).
Si è visto come vi sia la possibilità che tutti
questi stemmi gentilizi possano essere stati
realizzati in un secondo momento rispetto al
fregio: la realizzazione “a secco” di alcuni
essi ne rafforzerebbe la supposizione; in altri
però, s’è detto, come quello dei Gradenigo, dei
Dotto e dei
Marta-Brusaporco, la materia pittorica sembra
coerente con quella del fregio, almeno in alcune
parti. Interessante è notare la loro
collocazione all’interno dello svilupparsi del
fregio: nella parte che abbiamo detto potrebbe
essere quella che inizia la narrazione figurata,
ai lati esterni dei tondi della Fortuna e degli
strumenti musicali, vi sono gli stemmi gentilizi
dei Moro e forse degli Emo, due importanti
famiglie veneziane che avevano possedimenti nel
nostro territorio; e lo stemma dei Gradenigo,
altra importante famiglia veneziana, è la prima
arma della parte del fregio nella parete nord.
Tra i membri di tutte e tre queste famiglie, vi
sono stati rettori che hanno governato la nostra
città per conto della Serenissima e, allora,
forse non è casuale che i loro stemmi abbiano
trovato quella collocazione, mentre tutte le
altre armi gentilizie oggi ancora presenti (e
forse anche quella non individuata) appartengono
ad alcune tra le famiglie cittadine allora più
notabili e si trovano sulle fasce del fregio
delle altre due pareti. Rimane l’arma della
famiglia Costanzo, posta dopo lo stemma dei
Gradenigo in quella parete; una famiglia che non
era veneziana ma che, fedele alla regina di
Cipro Caterina Cornaro, fu di grande utilità
alla politica “da mar” della Repubblica; una
famiglia inoltre che, per i legami con Castelfranco,
si potrebbe quasi considerare castellana di
adozione e che certamente fu, all’epoca, tra le
più importanti del nostro territorio. Per
maggiori informazioni su queste famiglie, si
veda quanto riportato in appendice.
Per quel che riguarda l’altra impostante
rappresentazione che si trova dipinta sul
raccordo a vela posto sopra la cappa del
caminetto, sulla parete ovest,
la figura femminile allegorica con ai lati i
ramoscelli simbolici (foto 068
), questa, per le
considerazioni su fatte, dovrebbe datarsi ad un
momento successivo rispetto al fregio, come
anche stilisticamente parrebbe. Sul suo
significato, in relazione alla presunta
destinazione del locale a studio per i notai
Pietro Dotto e Bernardino Zaghi, Luigi Squizzato
scrive: «Nell’insieme
la simbologia, quasi certamente, allude alla
figura notarile: figura “super
partes”
depositaria a fedele garanzia nel tempo degli
atti stipulati tra vivi e delle loro ultime
volontà. I putti alati con occhi e bocche chiusi
e senza orecchi, come pure la donna anziana,
inserita nel raccordo a vela della cappa sopra i
resti di un camino, nello stesso atteggiamento e
con un orecchio in mano, sottintendono con
specifica funzione visiva alla deterrenza per
quanti: testimoni, chiamati alla responsabilità
della presenza o della corresponsione nella
firma di atti notarili, in particolare
testamentari, avevano l’obbligo di non rivelare
quanto visto, udito o sottoscritto “quam
non habeant pandere aut manifestare volontatem
suam”,
fino all’ufficiale pubblicazione dell’atto».
Al di là della destinazione a studio notarile
del locale, con alcune necessarie precisazioni,
l’interpretazione data dallo Squizzato è, ci
pare, da avallare. Si tratta di un’immagine
certamente inquietante e dal significato
esplicito se davvero, come parrebbe, tiene,
nella mano destra alzata il suo stesso orecchio.
Come meglio sembra di intuire nelle foto
conservate in biblioteca, questa figura
allegorica è priva dell’orecchio destro, ma non
di quello sinistro e, come abbiamo visto per le
teste alate dei putti, anche questa, più che
avere gli occhi chiusi, sembrerebbe avere lo
sguardo rivolto verso il basso, rivolto, cioè,
verso chi entrava in quel locale (foto 093
,
094
).
E, sicuramente, i due ramoscelli che
s’incrociano ai suoi lati, dovevano rafforzarne
il significato per una lettura allegorica che al
tempo dovette essere certamente più
comprensibile di quanto non possa esserlo per
noi oggi. Questi ramoscelli, sembrerebbero
essere ramoscelli di ulivo e, se così fosse, ciò
rafforzerebbe un’interpretazione allegorica che
potrebbe essere riconducibile in qualche modo
alla Giustizia: il ramoscello d’ulivo, infatti,
è spesso associato alla Vittoria che, nel nostro
caso, potrebbe alludere al trionfo della legge
sull’ingiustizia. L’orecchio mozzato, poi, era
speso utilizzato come allusione della Calunnia
(seppure l’icnografia della Calunnia sia ben
diversa dalla nostra), ovvero come una sorta di
attributo per coloro che usavano la calunnia per
screditare la fama altrui. Ed è interessante
notare che Vincenzo Catari nei suoi scritti,
disquisendo della Calunnia di Apelle, lancia
anche un preciso monito ai giudici e a tutti
coloro che sono chiamati a giudicare perché non
condannino gli accusati per le sole parole degli
accusatori, senza sentirli e senza averne prove
certe: «Così
definisce Luciano la Calumnia già dipinta da
Apelle, onde ne raccoglie poi che quella non è
altro che una falsa accusazione creduta dal
giudice di chi non sia presente à dire il fatto
suo»
(VINCENZO
CATARI,
Le imagini colla sposizione degli dei degli
antichi,
Venezia, 1556, p. 141). Il mozzare l’orecchio,
ancora, come il mozzare la lingua, ecc., era una
precisa punizione inflitta anche da noi in
antichità, e pure nel Quattrocento e nel
Cinquecento, per ben specifici reati. Si vuole
insistere su quello che sembra un preciso legame
di questa figura con l’attività di chi
amministrava la giustizia, perché chi scrive è
della convinzione che lo “studiolo”, in origine,
fosse adibito proprio ad una sorta di tribunale
minore. E lo stesso fregio appena visto, anche
con tutte le sue armi gentilizie, anzi,
soprattutto con le sue armi gentilizie,
sembrerebbe ben più adatto ad andare a decorare
un siffatto luogo piuttosto che uno studio
notarile o, meno ancora, un ambiente privato,
fosse anche, questo, stato una confraternita,
una società o un’accademia.
Per tentare una lettura
stilistica delle pitture dello “studiolo”,
conviene prima premettere una veloce analisi
delle tecniche e delle modalità impiegate per la
loro realizzazione. Il fregio, la figura
allegorica della donna e la decorazione a finta
tappezzeria sono pitture realizzate
sostanzialmente ad affresco, pur in alcuni punti
con rifiniture a secco (foto 058
). Ciò significa
che, con questa tecnica, il pigmento pittorico
diventa parte dell’intonaco stesso su cui è
dipinto e, perché questo avvenga, bisogna che
l’intonaco sia ancora fresco quando lo si
dipinge cosicché, asciugandosi, per il processo
cosiddetto di carbonatazione, l’intonaco assorbe
la pittura garantendone una durata ben maggiore
rispetto alla tecnica “a secco”, dove il
pigmento pittorico rimane in superficie ed è per
questo ben più vulnerabile. L’intonaco, quindi,
dove vi sono le pitture è stato steso in uno o
più strati sulla muratura. L’ultimo strato
d’intonaco ancora fresco, tradizionalmente detto
intonachino, è quello su cui si dipinge. Oltre
ad una gamma di colori ristretta, un altro
importante vincolo che pone l’affresco è la
necessità di dipingere piuttosto velocemente,
prima cioè che l’intonaco si asciughi
oltre certi limiti. Questo imponeva la
suddivisione della superficie murale da
dipingere in zone ben delimitate, le cosiddette
giornate di lavoro, da dipingere prima che
l’intonaco asciugasse. Poiché, un po’ come per
l’acquerello, l’affresco lascia ben poco spazio
alle correzioni, considerando anche la necessità
della sua veloce esecuzione, il pittore doveva
servirsi di un metodo efficace per poter
trasportare sull’intonaco il disegno
preparatorio studiato in precedenza. Se andiamo
ad osservare le pitture del fregio dello
“studiolo”, possiamo notare che, per alcune sue
parti (i tondi con le scene figurare e gli
stemmi), è stato utilizzato un compasso per
tracciare ad incisione, sull’intonaco ancora
fresco, i bordi a cerchio delle cornici (e al
centro di alcuni tondi, è ancora individuabile
il puntamento del compasso –
foto 095
,
096
,
097
). È
possibile che prima di questo, il pittore (o la
maestranza) abbia tracciato le linee orizzontali
dei cornicioni modanati superiori e inferiori
con l’uso del cosiddetto battifilo, vale a dire
un filo teso tra due chiodi e sporcato di una
terra, generalmente rossastra, che si tendeva e
si faceva frustare con un colpo secco sul muro,
ottenendo così una riga perfettamente dritta.
Per le parti figurate del fregio e per la figura
femminile allegorica non sembra siano stati
utilizzati disegni preparatori a sinopia e, non
trovando solchi, nemmeno tradotti a graffito,
bensì parrebbe essere stata impiegata la tecnica
dello spolvero: il disegno preparatorio era
riportato in scala su un cartone il quale veniva
poi bucherellato seguendo la traccia dei
contorni principali della figurazione; posato
sulla parete, attraverso la tamponatura con
terra o polvere di carbone, il disegno era
trasferito sull’intonaco. In questo modo
dovrebbero essere state realizzate le tracce
base di tutte le figurazioni. È interessanti
evidenziare come, per le parti decorative con le
teste di putto alate e i girali d’acanto, sia
sempre stato utilizzato un unico cartone di
spolvero per ogni compartimento tra tondo e
tondo, essendo tutte queste figurazioni, per le
linee di base, esattamente identiche (foto 098
).
Si può quindi supporre che, stesi dagli aiutanti
di bottega gli strati d’intonaco sulla zona
stabilita per ogni giornata di lavoro (i cui
limiti naturali, per il fregio, dovettero essere
i tondi figurati e quelli degli stemmi), e forse
anche preparata la base rossastra con l’uso
dell’intonaco “a marmorino” rifinito per la sua
lucentezza forse con sapone o olio, siano stati
riportati con lo spolvero le parti decorative
tra tondo e tondo; fatto questo, forse ancora
agli aiutanti di bottega spetta l’aver dipinto
ad affresco le parti base delle teste di putto
alate e dei racemi a loro laterali, per poi
essere rifinite con una sorta di “ultima mano”
dal maestro di bottega, considerando che alcune
parti hanno una forza espressiva di qualità
assolutamente non mediocre, che solo un pittore
capace ed esperto poteva rendere con tanta
abilità (foto 099
,
100
). Alcune parti poi, di lumeggiature a biacca e di ombre, sembrerebbero
stese “a secco” o, per lo meno, “a mezzo
fresco”, come pure gli sfondi con velature
azzurrastre tra le volute (foto 101
,
102
). Se per
la realizzazione della figura femminile
allegorica, considerate le sue dimensioni, si
può supporre un’esecuzione complessiva in un
unico momento (o in due o tre giornate di
lavoro, le parti decorative e poi la figura),
per il fregio vien da pensare che le pitture dei
tondi siano state eseguite, direttamente dal
maestro, in un secondo momento rispetto alle
zone decorative dei putti e dei racemi, dopo
aver trasportato, anche qui probabilmente con la
tecnica dello spolvero, il disegno preparatorio
sulla superficie da dipingere.
Il fregio dello “studiolo”
si può sicuramente considerare opera di una
maestranza veneta attiva nel nostro territorio a
cavallo tra i secoli XV e XVI. Si deve essere
trattato probabilmente di una bottega che faceva
capo a un pittore dotato certamente di buone
qualità esecutive, capace di cogliere alcune
sfaccettature e alcuni stilemi compositivi,
stilistici ed esecutivi tra i più innovativi
del suo tempo, al punto da poter essere
collocato, pur con alcune riserve che vedremo,
tra gli artisti operanti nell’orbita delle
influenze giorgionesche, come ha fatto Enrico
Maria Dal Pozzolo nella sua recente monografia
sul grande maestro del Cinquecento (cfr. E.M.
DAL POZZOLO,
Giorgione,
Milano, 2009, p. 180, fig. 144). Il rinvenimento
di documentazioni positive sulle attività
pittoriche svolte da queste maestranze a
Castelfranco e nel nostro territorio (e non solo
per queste), purtroppo è stato assai compromesso
dalla già citata
guerra della Lega di Cambrai, perché
«[…]quello
fu il tempo, nel quale il fuoco ridusse in
cenere le Scritture del Publico Archivio»
(B.
SCAPINELLI,
Ibidem,
E-1 / MS 201, s. n. p.) e di altre raccolte
documentarie, e fu
«[…]rubbato
il Monte di Pietà
[e le
armi Imperiali]
saccheggiarono il Castello, e distrussero molti
edifizï[…]»
(B.
SCAPINELLI,
Ibidem,
E-1 / MS 201, s. n. p.). Ciononostante, i
numerosi affreschi di facciata e d’interni
risalenti a quest’epoca giunti sino a noi, non
solo a Castelfranco ma praticamente in tulle le
località del Veneto, e si pensi solo a Treviso,
attestano l’esistenza di numerose maestranze, a
capo delle quali sovente vi erano abili artisti
di rinnovata fama, che erano chiamate di città
in citta, di località in località o di villa in
villa a soddisfare i desideri di una clientela
spesso assai esigente nella domanda di qualità
esecutiva e di scelta icnografica dei soggetti.
Tra gli esempi più illustri e studiati a tal
riguardo, da noi, vi è
il celebre
Fregio delle
Arti liberali e meccaniche
di Casa Marta Pellizzari (ora Casa Giorgione),
una parte del quale è ancora oggi quasi
unanimemente data alla mano di Giorgione (foto
103
, fonte dell’immagine: https://commons.
wikimedia.org/wiki/Category:Liberal_and_Mechanical_Arts_by_Giorgione?uselang=it#/media/File:Giorgione-Fries1_FoNo.jpg,
e
foto 104
, fonte dell’immagine:
http://www.biblos.it/category_products /view/15/115),
sebbene il suo rovinoso stato di conservazione
nel corso dei secoli sia stato la causa di
pesanti interventi di restauro con
ridipinture molto estese, che ne hanno
compromesso la qualità, rendendo assai difficile
la lettura qualitativa al punto, talvolta, da
far dubitare sulla stessa attribuzione al grande
maestro (foto 105
,
106
): si consideri, ad
esempio, che il restauro, e le relative estese
ridipinture, realizzato da
Giuseppe Gallo Lorenzi nella prima metà del XIX
secolo ha ormai quasi duecento anni e presenta
patina e screpolature che in talune zone rendono
quelle ridipinture difficili da distinguersi
dalla materia pittorica originale (foto 107
).
Il fregio dello “studiolo”, per le sue parti
figurate nei tondi, poco dopo il suo
rinvenimento, è stato erroneamente attribuito a
Giorgione giovane (cfr.
G. MARTIN.
Ibidem,
1993, pp. 145-153) e questo anche perché i brani
in affresco superstiti del maestro giunti sino a
noi, come quello di Casa Marta Pellizzari, si
conservano in uno stato di assai problematica
interpretazione stilistica (foto 108
, fonte
dell’immagine: https://upload.wikimedia.org /wikipedia/commons/0/02/Giorgione_-_Nu_f%C3%A9minin1.jpg).
Abbiamo detto di come pure il restauro subito
dal fregio dello “studiolo” ne abbia compromesso
la qualità e quindi la lettura, pertanto, a tal
proposito, di grande aiuto ci sono le immagini
fotografiche scattate durante e subito dopo il
suo ritrovamento, anche sulla base delle quali
si fonda una buona parte dei giudizi qui
espressi (foto 032
,
033
,
foto 34
,
035
,
036
,
037
). Chi scrive non è
riuscito a trovare in Castelfranco e nel suo
territorio pitture in affresco che possano
essere sensatamente avvicinate alla stessa
maestranza che ha operato nello “studiolo”,
seppure vi siano assonanze e derivazioni da una
cultura figurativa comune ad altri pittori che
da noi hanno lavorato all’incirca negli stessi
anni. Il pittore dello “studiolo” deve con ogni
probabilità esser stato a conoscenza del
Fregio delle
Arti liberali e meccaniche
di Casa Marta Pellizzari e degli stilemi
dell’arte giorgionesca (si pensi, ad esempio,
anche al
David
attribuito a Giorgione del Duomo di Montagnana –
foto 109
, fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.
org/wikipedia/commons/9/97/David-Giorgione.jpg -
o ad alcuni degli affreschi più giorgioneschi
del Barco di Caterina Cornaro ad Altivole –
foto
110
, fonte dell’immagine: https://bibliotecaltivole.it/arte-e-territorio/il-barco),
visti i diversi concreti richiami tematici a
quell’ambiente culturale. Come certe altre
influenze stilistiche, graficamente plastiche e
scultoree, sono di sicura ascendenza mantegnesca,
sulla scia, ma aggiornata, degli affreschi di
facciata di Casa Bovolini Pinarello (foto 111
),
sempre in città, con le sue due monumentali
Fatiche d’Ercole
(foto 112
,
113
), dove l’Ercole
soffoca Anteo è
di diretta derivazione da un’incisioni tratta da
un’opera del Mantegna (foto 114
, fonte
dell’immagine: aste.catawiki.it/kavels/18413461-da-andrea-mantegna-1431-1506-ercole-soffoca-anteo).
L’affresco che in Castelfranco più sembra
avvicinarsi stilisticamente ad alcuni brani
figurati del fregio, pare essere quello della
Conversazione di Maria con i santi Antonio Abate e Girolamo (foto
115
, fonte dell’immagine;
http://www.luigisquizzato.it/novello.htm),
datato 1496, già Banca Popolare di Castelfranco
Veneto, scoperto nel 1962 nel vano di
un’adiacenza di Palazzo Soranzo Novello (cfr.
Opere della Collezione della Banca Popolare di Castelfranco Veneto,
catalogo a cura di M. MONDI, Castelfranco
Veneto, Galleria del Teatro Accademico, 24
aprile - 9 maggio 1999, Vedelago - TV, 1999, pp.
20-21, fig. n. 1). La collocazione originaria di
questo affresco, come immagine devozionale, era
sotto ai portici della bastia nuova, quindi
visibile alla popolazione. Il Bordignon Favero
fa coincidere la data della sua esecuzione con
l'anno della prima organica ristrutturazione del
palazzo, voluta dai
Soranzo, allora proprietari dell'edificio (G.
BORDIGNON FAVERO,
I palazzi Soranzo Novello e Spinelli Guidozzi in Castelfranco Veneto,
Cittadella, 1981, pp. 29-40, fig. n. 42). Si
tratta di un'opera di estremo interesse per la
storia della pittura cittadina di fine
Quattrocento, il cui autore, oggi ancora
sconosciuto, si mostra pittore di una discreta
qualità, influenzato dalla contemporanea pittura
padovana e da quella di ascendenza belliniana.
Il Bordignon Favero tentò di identificarlo
in Girolamo da Treviso il
Vecchio (cfr. G. BORDIGNON FAVERO,
Una sacra conversazione attribuita a Girolamo da Treviso il Vecchio,
in "Bollettino del Museo Civico di Padova", nn.
1-2, Padova, 1968); mentre lo Squizzato afferma
che «L’opera
potrebbe essere attribuita al pittore Giacomo
Martello da Ferrara, operante e abitante in quel
tempo a Castelfranco. Infatti, la raffinata resa
pittorica e compositiva[…],
rileva una formazione dell’artista riferibile
alla scuola dei frescanti ferraresi»
(L. SQUIZZATO,
I palazzi dei
Novello,
in
http://www.luigisquizzato.it/novello.htm,
2010).
In merito ai pittori attivi a Castelfranco
all’epoca del fregio dello “studiolo”, sempre lo
Squizzato riporta: il fregio, «Accostabile per gli ornati ai fregi di casa
Costanzo, ma di mano diversa, potrebbe essere
opera di un pittore abitante od operante a
Castelfranco, forse di provenienza veneziana.
Non mancano di certo gli artisti in quel
periodo. Oltre ad Andrea da Murano e il nipote
Giovanni, scultore in legno come il padre
Gerolamo, operano come pittori (con casa a due
passi dallo studiolo, sempre nel quartiere di
Montebelluna):
Alouisius e Antonius, figli
del
magister Francesco
pictor del fu
Bartolomeo notaio di Scurelle, distretto di
Feltre (ora provincia di Trento), abitante a
Castelfranco già a inizio della seconda metà del
quattrocento “…et
magistrum Franciscum pictorem quondam ser
Bartholamey notarii de Scurelis de Feltro
habitarorem Castrifranchi…”.
Nell’anno 1506 è presente anche un certo “magister Cristoforus pictor”,
che compare come testimone nel palazzo pretorio
in un atto sempre di Augustino Moro, in cui
però, non compare né il patronimico né la
cittadinanza»
(L. SQUIZZATO,
Documenti inediti[…],
Ibidem,
2010). Seppur Nadal Melchiori non possa
ritenersi una fonte attendibile per le
attribuzioni (ma ogni attribuzione non corretta
porta in sé una parte di verità, perché indice
di alcune caratteristiche stilistiche di quella
pittura), è interessante comunque evidenziare,
oltre a quelli già citati, l’elevato numero di
affreschi a cavallo tra Quattro e Cinquecento
che descrive in città: nel Palazzo Pretorio
«[…]si
vede[…]
una Beata Vergine, San
Giovanni Battista, et un Santo Vescovo dipinti
in fresco di maniera assai antica, ch’io giudico
di Giovanni Bellino Veneto»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 192);
«Nella
prima Cappella detta di San Giorgio[…
- quella dei Costanzo, dove nell’antica chiesa
era collocata la Pala]
dipinta a fresco, nel
mezzo della quale apparisce il Redentore in atto
di benedire, et simboleggiati in quattro altri
tondi li Evangelisti, con arabeschi al d’intorno
ad uso di que’ tempi, che dicesi il tutto essere
di mano dello stesso Giorgione»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 222);
«Un’altra
casa nel castello di ragione della famiglia
Cesconi di Trevigi e dipinta in fresco con
l’arma del signore della medesima di quel tempo,
alcuni arabeschi a chiaroscuro rossi e verdi, et
un aquila, dicesi di essere delle primizie del
nostro Giorgione. In Borgo d’Asolo alla casa
contigua al ponte, di ragione della famiglia
Stievani v’è un imagine di nostra Signora
dipinta in fresco delle prime opere del nostro
Giorgione»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 240);
«La
loggia di questa Chiesa
[quella antica della Pieve]
dipinta in fresco con varii Santi, et arabeschi
all’antica, dicesi esser di mano di Giovan
Bellino Veneto, che fu maestro di Giorgione»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, pp. 252-253);
«La
facciata della casa di ragione della famiglia
Dolfina patrizia Veneta è tutta dipinta in
fresco con freggi e figure di chiaroscuro di
maniera antica, et assai buona, ma molto
danneggiata dal tempo»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 262);
«Nella
facciata verso Monte
[dell’antico Ospedale di
San Giacomo] evvi
un’antica pittura in fresco sopra il muro, che
malamente si vede per ragion della sua
vecchiezza[…]»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 271);
«Nell’altra
camera pur terrena verso mattina
[del Santo Monte di Pietà]
evvi un’altra
imagine della Pietà di maniera ignota, e più
antica»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 302). Al di là delle attribuzioni, è interessante notare
come le uniche opere che dovrebbero aver avuto
l’impronta giorgionesca sono quelle dallo
storico pensate come lavori giovanili
dell’artista. Solo nell’antica “Chiesetta
dell’Oratorio, sive Hospitale della Madonna” di
“San Martin de Lovari”, il Melchiori fa diretto
cenno ad una pittura “quasi” giorgionesca,
quindi senza darla al maestro:
«Sopra
la piazza sopra il muro di questa Chiesa la B:
Vergine, che riceve sotto il manto alcuni
fratelli, dipinta in fresco con maniera quasi
Giorgionesca»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, p. 467).
Purtroppo, di molte di queste opere non vi è
rimasta testimonianza ed è pertanto impossibile
stabilire in cosa consistesse il loro
giorgionismo. Tuttavia, dalle parole dello
storico si può dedurre che, negli affreschi su
citati, vi sia stata presente una forte
componente belliniana che era, tra l’altro,
anche facilmente riconducibile alla allora
supposta formazione del maestro di Castelfranco.
Dalle opere sopravvissute, come quelle della
parte nobile della facciata di
Casa Bovolini Pinarello
(per le quali già il Melchiori parlava di
Giorgione)
o come la
Conversazione di Maria con i santi datata
1496, si può individuare l’altra forte
componente stilistica che andava a
caratterizzare le maestranze a quell’epoca
attive da noi, vale a dire quella mantegnesca.
Infatti la derivazione mantegnesca del grafismo
plastico di quest’ultimo affresco, mediata
dall’addolcita grazia belliniana, traspare anche
nelle pitture delle parti figurate del fregio
dello “studiolo”, sebbene già aggiornata da modi
giorgioneschi. Gran parte di quel plasticismo
volumetrico, però, e molti particolari stessi,
assieme ad una tonalità dominate di colore più
calda che serviva ad arrotondare le figure dando
loro profondità spaziale e rilievo
chiaroscurale, maggior morbidezza alle forme e
più accesa vibrazione luministica, sono andati
persi dopo il restauro dei primi anni Novanta
del secolo scorso, sebbene si possano ancora
indovinare dalla lettura delle foto scattate
prima di quell’intervento (foto 032
,
033
, foto 34
,
036
,
073
,
075
,
077
,
079
,
081
): oggi rimane un grafismo descrittivo piatto e duro, quasi
ingenuo, che, accentuato talvolta dalle
ridipinture, ha reso quelle figurazioni di una
qualità che va poco più su di una semplice
pittura decorativa (foto 037
). Infatti, gli
storici dell’arte che hanno avuto modo di
vederlo solo dopo il restauro e senza l’aiuto
delle fotografie antecedenti, hanno generalmente
liquidato questo fregio come opera elementare e
di mano mediocre. In realtà, si tratta di una
personalità di tutto rispetto che, pur non
potendo essere avvicinata a quella degli artisti
più dotati dell’epoca, mostra comunque una sua
vivace dignità esecutiva e soluzioni compositive
sobrie ed essenziali ma felicemente
comunicative. Provare ad identificare questo
pittore sarebbe impresa assai ardua, che
porterebbe a conclusioni improbabili. A tal
proposito, oltre alla comparazione stilistica,
che è e rimane fondamentale, un aiuto potrebbe
arrivare proprio dai brani decorativi con le
teste di putto alate ed i racemi, poiché gli
stessi cartoni, o cartoni simili, potrebbero
essere stati utilizzati per il trasporto del
disegno di tale composizione anche in altri
lavori in affresco realizzati della stessa
maestranza.
Certo, l’ideazione
dell’intero ciclo deve essere intesa come un
lavoro dove una committenza erudita abbia ben
chiaramente suggerito la tematica d’insieme e
dei singoli brani nei quali svilupparla. Al
pittore, però, spetta indubbiamente l’invenzione
compositiva delle zone decorative ma anche delle
scene figurate dei tondi, che dovette aver
studiato con disegni e bozzetti di volta in
volta mostrati al committente, anche
modificandoli poi per alcune parti su richiesta
dello stesso. Dapprima dovette aver
supervisionato e diretto i lavori, affidati agli
aiutanti di bottega, nelle loro fasi di
impostazione generale e di iniziale composizione
d’insieme, intervenendo successivamente di
persona nella realizzazione della parti più
impegnative: i tondi figurati innanzi tutto, ma
anche una ”ultima mano” sulle zone con i putti
alati e i racemi, considerando che essi vibrano
di una qualità plastica, ad imitazione di un
finto rilievo marmoreo, e di una forza
espressiva ben coerente con le scenette figurate
(foto 098
). Nel suo insieme, il fregio mostra
che il suo autore ebbe forse modo di ammirare
direttamente imponenti “architetture”
pittorico-scultoree quali, ad esempio, il
Monumento
funerario di Agostino
Onigo
a San Nicolò di Treviso
(foto
116
, fonte dell’immagine: http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/foto/160000/
146400/146281.jpg) o il
Monumento funerario di
Melchiorre Trevisan
nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari
a Venezia (foto 117
, fonte dell’immagine:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia /commons/d/d1/Frari_%28Venice%29_Cappella_di_san_Michele_-Monument_to_Melchiorre_Trevisa
n.jpg). In queste scenette, tuttavia, ci si
trova di fronte a ideazioni compositive di
squisito ingegno, come quella enigmatica e
sorprendente del satiro che col suo cesto sulle
spalle carico di pani o di pesci va verso
l’altro grande cesto (foto 075
,
076
), il quale,
assieme al
vecchio sul carro della parete opposta (foto
073
,
074
), imprime un moto direzionale all’intero
ciclo. Entrambe queste raffigurazioni sembrano
d’invenzione, sebbene le incisioni, che già
circolavano allora sciolte o nelle pagine dei
libri, possano averle ispirate; incisioni come,
ad esempio, quelle tratte dalle celebri tele dei
Trionfi di Cesare
dipinti dal Mantegna per Francesco II Gonzaga
(foto 118
, fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5f/The_Triumphs_of_Caesar%2C_IX_-_Julius_C
aesar_on_his_triumphal_chariot%3B_Andrea_Mantegna_%281484-92%29.JPG)
o quelle contenute nella già citata
Hypnerotomachia Poliphili
di
Francesco Colonna.
Suggestioni possono pure essere giunte dalla
visione, diretta o indiretta, di altre opere
famose nelle quali la mitologia era stata
interpretata in allegorie dalle soluzioni
geniali, come nel
Festino degli dei
di Giovanni Bellini oggi alla National Gallery
di Washington (foto 119
, fonte dell’immagine:
https://www.nga.gov/collection/art-object-page.1138.html),
nell’Apollo,
Marsia e Mida
oggi alla Galleria Nazionale di Parma (foto 120
,
fonte dell’immagine:
http://www.orsomarsoblues.it/2017/12/miti-leggende-re-mida/),
ne’
Le nozze di Bacco
oggi al Poldi Pezzoli di Milano (foto 121
, fonte
dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/
wikipedia/commons/e/ef/Cima_da_Conegliano_014.jpg),
nel
Giudizio di Mida tra Apollo e Marsia
oggi al Statens Museum for Kunst di Copenaghen
(foto 122
, fonte dell’immagine: https://upload. wikimedia.org/wikipedia/commons/7/73/Cima_da_Conegliano%2C_The_Judgement_of_Midas._The_Musical_Contest_between_Apollo_and_Marsyas%2C_Statens_Museum_for_Kunst.jpg)
o nel
Sileno ubriaco sul dorso
di un asino
oggi al Philadelphia Museum of Art (foto 123
,
fonte dell’immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/ce/Satiro%2C_Philadelphia_Museum_of_Art.jpg),
tutte di Giovanni Battista Cima da Conegliano.
Se si considera poi il tondo col falconiere, pur
riscontrandovi analogie icnografiche di origine
medievale tutto sommato abbastanza diffuse, si
potrebbe ritornare in ambito mantegnesco facendo
riferimento alla figura del “Zintilomo” dei
cosiddetti Tarocchi del Mantegna (foto 124
,
fonte dell’immagine: https://tarocchidelmantegna.com/5-zintilomo?iframe=true&theme_preview=true).
Mentre si potrebbe azzardare non solo soluzioni
giorgionesche nei due tondi con le armature
(foto
032
,
033
) e con gli strumenti musicali
(foto 036
,
037
) bensì addirittura una loro
derivazione diretta dal
Fregio delle
Arti liberali e meccaniche
di Casa Marta Pellizzari; derivazione che
potrebbe essere anche stata chiesta
esplicitamente dai committenti (foto 125
,
126
,
127
,
128
,
129
,
130
).
Ciò non toglie che anche per queste
rappresentazioni ci si trovi di fronte ad
un’iconografia rintracciabile nella cultura umanistico-rinascimentale dell’epoca, così come
per la stessa raffigurazione della supposta
Fortuna (foto 34
,
035
) e per la sua antagonista
nella parete di rimpetto (foto 081
,
082
), nelle
loro discrete nudità,
vi si possono trovare in ambito veneto molti
precedenti, tanto belliniani quanto
giorgioneschi, tanto mantegneschi quanto
tizianeschi. Tuttavia, più ancora che nei due
tondi con le armature e gli strumenti musicali,
dove le assonanze sono forse più a livello di
scelta di soggetto che stilistiche, in queste
due figure femminili il sapore incline verso una
cultura giorgionesca pare più accentuato.
Eppure, nonostante gli
aggiornamenti in questa direzione, tutte le
parti figurate dei tondi sembrano tradire una
personalità artistica di formazione diversa, non
in grado di assimilare
in toto e in
profondità le novità del grande maestro, le sue
delicatezze, le sue sfumature, le sue armonie,
la sua capacità d’intendere il colore come mezzo
costruttivo non solo dell’opera ma
dell’espressione stessa, emotiva, dell’atmosfera
dei suoi soggetti; un’atmosfera nella quale ci
sentiamo prima attratti e poi immersi grazie
alle qualità di cromatismo e di luce di un
tratto pittorico geniale. L’autore del fregio,
allora, lo si può, sì, dire aggiornato
alle novità giorgionesche ma senza poterlo
definire, però, propriamente giorgionesco. Egli
si mostra molto più legato alla sfera
mantegnesca addolcita da grazie belliniane di
sapore ancora quattrocentesco. La staticità
delle figure e quella degli oggetti non è un
fermarsi, non è una pausa pensierosa, un momento
di meditazione o di rapimento emotivo; è una
staticità fisica, grafica, descrittiva del
soggetto, che parrebbe voluta soprattutto, e
talvolta solo, al fine di trasmettere una resa
comunicativa veloce del suo valore simbolico ed
allusivo. Tutte le raffigurazioni dei tondi non
hanno un’ambientazione vera e propria se non
quella talvolta necessaria alla composizione,
come per il falconiere
(foto 077
,
078
),
per il vecchio sul carro
(foto 073
,
074
)
o per il satiro
(foto 075
,
076
);
addirittura, come sarebbe logico aspettarsi, non
si vede alcun accenno paesaggistico nel soldato
lanciato al galoppo
(foto 079
,
080
).
La narrazione è costruita dall’insieme delle
immagini che si susseguono nell’ordine
stabilito; la singola immagine non racconta ma
presenta figurativamente un brano chiuso in se
stesso che parla iconicamente come fosse, non
una frase all’interno di un discorso, ma una
singola parola all’interno di una frase. E
questo, si pone quasi agli antipodi dell’arte
giorgionesca. Lo sfondo di quasi tutte queste
scenette è caratterizzato dal fitto grafismo di
linee tracciate veloci e decise una accanto
all’altra, che spesso s’incrociano o cambiano
direzione (foto 131
). È un fondale ideale che,
nel suo intenso vibrare di chiaroscuro, porta in
primo piano l’immagine e la stacca
plasticamente, come in un bassorilievo marmoreo
(foto 132
). E nelle fotografie scattate prima
del restauro, si nota un plasticismo davvero
marcato e davvero scultoreo, dove il tratto del
pennello, col sapiente uso della biacca per le lumeggiature, sa rendere la rotondità
volumetrica dell’immagine e sa suggerirne la
profondità spaziale, sa modellare la massa di un
corpo, la rigida robustezza metallica di
un’armatura, il gonfiarsi al vento di una
stoffa, lo spessore delicato di uno strumento
musicale. È un grafismo ancora quattrocentesco
di derivazione mantegnesca ingentilito da
delicatezze di sapore belliniano, che lo
avvicina stilisticamente a modi giorgioneschi
nelle due figure femminili, ma più per matrici
espressive comuni che per comuni intenti
linguistici.
In merito alla
figura femminile allegorica dipinta sul raccordo
a vela della parete ovest (foto 068
), essa
parrebbe eseguita successivamente al fregio
sottostante non solo perché vi si sovrappone in
parte ma anche perché stilisticamente, come già
detto, nonostante un grafismo che ricorda modi
mantegneschi, e mostra addirittura vicinanze
turesche e cossiane di alcune soluzioni di
Schifanoia, unitamente a un tonalismo cromatico
caldo e rosato per gli incarnati, quasi
giorgionesco, che richiama quello di Domenico
Capriolo di Casa Robegan a Treviso (foto 133
,
fonte dell’immagine: https://trevisourbspicta.fbsr.it/),
è comunque pervaso da una sorta di realismo
quasi proto-tenebroso, che si avvicina al genere
grottesco. La sua realizzazione parrebbe quindi
più tarda e, se non ancora proprio seicentesca,
almeno collocabile in un ambiente culturale e
figurativo destinato ad ispirarsi, riproporre e
riprodurre lo stile dei maestri veneti di fine
Quattrocento e della prima metà del XVI secolo
ma con un lessico pittorico più tardo, passato
attraverso la Controriforma. Un ambiente
figurativo che potrebbe ruotare attorno, ad
esempio, allo quello in cui si formarono Cesare
e Bartolomeo Castagnola e potrebbe quindi essere
opera di un pittore attivo a Castelfranco a
cavallo tra Cinque e Seicento. Come il fregio,
anche questa figura fu certamente voluta per il
suo esplicito significato di monito, posto in un
luogo all’interno del quale
probabilmente veniva svolta attività giudiziaria
di materia civile o per reati minori.
Per concludere, tornando al fregio, abbiamo
visto come il suo autore, nei tondi con le
armature e con gli strumenti musicali, possa
essersi direttamente ispirato alle
raffigurazioni del fregio
di Casa Marta Pellizzari;
fregio, quest’ultimo, che è mutilo nei lati
brevi della lunga sala e che, per altre parti, è
fortemente ridipinto. A dire il vero, si
potrebbe anche pensare che nello “studiolo”
altri brani potrebbero forse aver preso spunto
dalle pitture di Casa Giorgione. Oltre alle
figure femminili, anche la composizione del
soldato a cavallo (foto 079
,
080
), ad esempio,
può in qualche maniera
esser stata suggerita dal fregio giorgionesco.
Infatti, alla fine del fregio sulla parete est
di Casa Marta Pellizzari, questo soggetto appare
ben due volte su dei presunti bassorilievi in
stucco attorniati da cammei con teste (foto
134
,
135
). Purtroppo, lo stato rovinoso di quella
parte degli affreschi ne compromette assai la
lettura. Anche a livello iconografico, le
ridipinture possono averne alterato l’originaria
impostazione, per cui il tondo dello “studiolo”
potrebbe addirittura essere una testimonianza
più fedele dell’originale aspetto di quei brani
di quanto essi non appaiano oggi ai nostri
occhi, ricostruiti da pennello forse
ottocentesco (Giuseppe Gallo Lorenzi?). Ancora,
gli stessi cherubini, o teste di putto alate,
delle parti decorative del fregio dello
“studiolo” (foto 099
,
100
), trovano delle
assonanze col cherubino dipinto sul pettorale
dell’armatura posta poco prima della metà del
fregio sulla parete ovest di Casa Giorgione
(foto 127
,
136
).
Nonostante Nadal Melchiori descriva affreschi,
diciamo così, giorgioneschi in Castelfranco, le
pitture murali risalenti a quell’epoca fino a
noi giunte non possono essere precisamente
considerate tali. E stupisce una volta di più
che a Castelfranco, la patria del Giorgione,
Giorgione, che a distanza di pochi anni dalla
sua morte era già diventato una figura “mitica”
ed era riconosciuto
ovunque come un grande caposcuola, non abbia
lasciato un’eredità pittorica che si possa
davvero definire giorgionesca, come fu, qualche
decennio dopo, per Jacopo Bassano, Paolo
Veronese o lo stesso Tiziano! Molti
affreschi cittadini del
XVI secolo sono inequivocabilmente veronesiani,
Paolo Piazza è stato, senza ombra di dubbio, un
pittore di formazione bassanesca che ci ha
lasciato, in gioventù, tele di indubbio sapore
dapontiano; eppure, per sentire davvero da noi
una “atmosfera” giorgionesca si dovrà aspettare
il Seicento dei Barbarella e di Pietro della
Vecchia,
"simia de
Zorzon"! È stupefacente constatare che per tutto
il Cinquecento, e ben oltre, non si parli del
Fregio di Casa Marta Pellizzari e che bisogni
attendere addirittura la visita pastorale del
1603 del vescovo Molin per sentir menzionare per
la prima volta, ma senza fare il nome del suo
autore, la Pala del Duomo! Ecco allora che, il
fregio dello “studiolo”, seppur non lo si possa
definire prettamente giorgionesco, lo si
potrebbe però considerare la prima vera,
oggettiva testimonianza del
Fregio delle
Arti liberali e meccaniche
di Casa Marta Pellizzari
sino a noi giunta. Perché, non accettando
stilisticamente, per grafia e per qualità, una
relazione diretta tra l’una e l’altra delle
opere, non è però possibile escludere un legame
di dipendenza di alcuni soggetti del primo da
alcuni brani del secondo, se non altro per la
loro vicinanza di epoca e la loro vicinanza di
ubicazione.
FAMIGLIA ALMERIGO DE CASTELLIS
«Nob:
Almerighi
[de Castellis].
Leggesi nel libro VI. della Storia Trivigiana di
Giovanni Bonifazio che nell'anno 1283 volendo la
famiglia Castelli scacciare di Trevigi lor
Patria Gherardo da Camino, che tirannicamente
dominava quella Città, s'unirono con molti loro
aderenti nella Piazza gridando libertà: affine
che in favor loro si sollevasse il popolo; il
che fu fatto, ma riuscì l'effetto tutto contario
al loro disegno, perché armatosi pure il
Camminese, seguì un sanguinoso combattimento,
nel quale prevalendo il partito suo, rimasero li
Castelli disorientati e rotti, et dopo varii
successi Bonifazio quondam Corrado de Castelli
ucciso, li suoi fratelli sbanditi, li loro beni
confiscati e le loro case, et fortezze
distrutte, rimanendo in vita solamente Guidone
quondam Gerardo il quale per vivere sicuro da sì
potente nemico menò sua vita in un Castello del
Trivigiano, mutandosi il nome della famiglia in
Almerica, ritenendo però l'Arma sua antica
ch'era un Castello bianco in campo azzurro, con
due Leopardi in piedi uno per parte. E sebbene
altri che il sudetto scrittore di Treviso, non
fanno mentione della tramutatione del Cognome di
questa famiglia Castelli in Almerica, ad ogni
modo chiaramente si vede che in niun altro
Castello del Trivisano ritrovasi nè tal
denominazione, nè tal arma, anzi questa medesima
famiglia per il corso di due e più secoli ha
riasunto l'antica memoria, scrivendosi i
discendenti suoi fino al giorno d'oggi Almerighi
de Castellis. Però è cosa molto consonante al
vero che il sudetto Guidone quondam Gerardo sia
stato il primo venuto a Castelfranco nell'anno
sudetto 1283 leggendosi pure nel testamento di
Mondin da Salvarosa cittadino di Castelfranco
dell'anno 1350 il nome di Pietro di Guidone che
ne fa il Nodaro. Leggesi ancora ne' Protocolli
di Christoforo quondam Guiduzio Spinelli Nodaro
d'un Almerico qundam Zanetto, quale fu l'anno
1433 possedeva molti terreni in Villa di Resana.
Ne' Rogiti dello stesso Nodaro si legge
medesimamente che l'anno 1452 Pietro Almerigo fu
Vice Podestà di Castelfranco a nome di
Michieletto Attendulo.
Nelle scritture di Communità si vede del 1470 un
Bortolomio Nodaro.
In una investitura di Feudo conservata in questa
famiglia si vede che sino al 1488 un Girolamo
Almerigo possedeva varii terreni con titolo di
Feudo Vescovale di Treviso.
Del 1562 Bortolomio fu medico in Castelfranco
salariato dalla Communità.
Del 1581 Agostin Almerigo quondam Girolamo giurò
fedeltà a S. Maria di Asolo, et S. Pietro di
Treviso per occasione del sudetto Feudo
Vescovale, si come in più tempi fecero i suoi
successori.
Del 1724. morì Giovanni Almerigo quondam
Girolamo, che fu Cancellier della Communità di
Castelfranco.
Hora vive Girolamo Nodato figlio del sudetto
Giovanni, di cui nasce Giovanni e Francesco
Nodaro pur figlio del sudetto, di cui nascono
Giovanni e Girolamo».
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, pp. 43-45).
FAMIGLIA COSTANZO
«Nob:
Costanzi. Questa famiglia fu
Nobile a antica nella città di Napoli, dove
tralse la sua origine.
Nel 1462 Muzio ovvero come altri Giacomuzio
Costanzo valoroso guerriere fu chiamato dal Re
Giacomo Lusingano in Cipro, dal quale fu creato
grand’Amiraglio del Suo Regno, e dopo la morte
di esso Re fu il detto Muzio acclamato Viceré di
Cipro.
Nel 1475 Tuzio di lui figlio venne ad abitare a
Castelfranco, ove comprò Case e Terreni, che
ancora si dicono la Costanza.
Questo con Isabella Verdina sua moglie di
mobilissima famiglia di Maiolica procreò
Giovanni et Matteo.
Giovanni con permissione della Serenissima
Republica passo in Cipro al possesso della ricca
heredità dell’Amiraglio e Viceré Avo, il che non
fu concesso a Tuzio, il padre benché la regina
di Cipro lo domandasse con sua lettera, che fu
del seguente tenore:
Serenissimo Principe et Eccellentissimo nostro
Padre.
Avendo appresso di noi un mobilissimo e potente
Barone Monsignor Muzio Costanzo per nome
chiamato grande Ammiraglio del nostro Regno
degnissimo, al quale siamo per la sua
riconoscenza, pura e sincera fede, molto
obligata, e veramente haveno gran bisogno di
tale e tanto huomo in questo Stato per la sua
prudenza, consiglio, autorità et esperienza
delle cose di guerra et cognizione di quella: la
cui virtù, fama, et valore conoscendo la felice
memoria del Re mio marito, li compartite ogni
sua facenda, ardua, et importante alla
conservazione di questo regno: apresso della
quale Sacra Mestà mai non mancò di ogni singolar
grazia, ma sempre crebbe in amor, famigliarità,
grado et honore, et esperimentamo il suo fedele
et continuo amore nella morte accerba et
immatura del predetto Re nostro marito: Però che
stessendo lui in così repentina rivoluzione
General Locotenente e Viceré in Nicosia colla
sua innata prudenza, valore et autorità ha
acquietato il popolo, si fece giurar la fedeltà,
et homaggio al nostro nome, cavalcando et
confortando tutti gli altri devoti di Vostra
Serenità, et nostri, et gli altri di contrario
voler acquietando et castigando, et molte gesti
facendo per segno di grand’amore et valore
reposto in sua persona: il perché desideramo
volentieri ogni sua quiete et riposamento, ond’essendo
lui in grand’affano di mente verso Monsignor
Tutio figliolo virtuosissimo cavaliero et a
tanto padre veramente simile, il quale Vostra
Serenità intrattiene appresso di lei in questa
città di Venezia. Noi preghiamo ben di buon
cuore l’humanissima Serenità Vostra, che a
nostra contemplazione si degni di lasciarlo
venire all’antico Monsignor padre, e goder li
beni e lo Stato che tiene in Cipro, e noi
peropreta la paterna et filial fede come leali
signori e cavalieri resteremo alta Celsitudine
Vostra perpetuamente obligata, e loro restituito
nel lor stato tanto più continueranno
fedelissimi, quanto maggior premio vederanno
haver ricevuto, per la lor grande dimostrazione
di fede fatta per la Serenità Vostra.
Valeat excelsa Dominatio Vostra.
Nicosia die 7 Mensis Aprilis 1475.
Regina Caterina filia vostra.
Il sopradetto Mutio Costanzo padre di Muzio morì
in Cipro l’anno 1479 col titolo di Ammiraglio et
di Viceré et fu sepolto con insolita pompa ad
ogni ad ogni altro di quella Corte et li fu
iscritto questo epitaffio:
Mutius Costantius Messane Trinacrie urbes
genitus, nultum laudis apud Parthenope et
Hibernie Reges, propiis triremibus Cyprum
navigans, deditionis Amocuste ad Requiem Facolum
causa fuit aquo auroaccinctus, et admiratus
Regni cactus seprepro Rege, sedens jura ad
ministrabat, et tandem etc.
Mattheo secondogenito di Tutio formoso di volto
et di singolar presenza condottiero nel fior di
23 anni di 50 Lantie in vita del padre s’infermò
nella guerra di Casentino, morì in Ravena l’anno
1504, et il di lui corpo fu condotto a
Castelfranco ove dimorava il padre Tutio, dal
quale fu fatto sepeline nella Parocchia dentro
del Castello all’altare di San Giorgio, Capella
eretta dallo stesso Tutio, dove nel suo sepolcro
marmoreo si vede il medesimo Mattheo scolpito in
abito di guerriero con la seguente inscrizione:
Mattheo Constantio Cyprio egregia corporis forma
insigni animi virtute immatura morte sublato ab
bene gestam militiam Tutius pater Mutii filius
carissimo filio pienissime possuit.
MDIV Mensis Augusti
Mutio terzogenito fu onorato dell’Ordine della
religione di Malta e morì in Puglia huomo assai
stimato l’anno 1547.
Et Tomaso quartogenito condottiere anch’egli di
gente d’armi per la Republica di Venezia, il
quale nel medesimo tempo fu governatore nella
città di Treviso.
Di questo huomo illustre et Cecilia sorella di
Francesco Donato Doge di Venezia nacque Scipio,
per la sua gran bravura cognominato Spatinfacia,
che col titolo antico de’ suoi antenati di
Napoli fu ancor lui condottiero di genti d’armi,
poi generale di Francesco Maria Duca di Urbino,
et andato poi a serviggi di Francesco I° Re di
Francia hebbe cariche importanti appresso il
medesimo.
Di questo nacque Giovanni Tomaso il quale nel
1570 fu Capitano di 600 soldati in Candia, et
collonello, et combatté contro Turchi a favore
della Veneta Repubblica, ma per esser in
discapito di gente rimase schiavo, onde condotto
in Costantinopoli fu dal Selim gran Signore
forzato a farsi Turco, ma egli come
costantissimo e valoroso cavaliere cristiano,
calpestò un turbante di gran valore donatogli
dalla Sultana, volendo piuttosto morire che
rinnegar la fede di Giesù Cristo. Finalmente
riguardo alla sua nobiltà e valori fu lasciato
in vita, poscia dopo la continuata schiavitù
d'anni 4, a richiesta del Pontificio, della
Veneta Republica, e d'altri Principi Christiani
fu liberato, con grosso esborso fatto da Scipio
di lui padre, onde poi fu stipendiato dalla
medesima Republica con honorata pensione, e
fatto governatore nella città di Corfù.
Dimorò questa famiglia in Castelfranco sino
all'anno 1678, nel qual tempo rimase estinta
nella persona di altro Tutio, che mancò senza
prole.
Questa medesima famiglia si congiunse in
parentado con la famiglia Spinelli pur di questa
Patria.
Della stessa famiglia sonovi pure honorate
memorie in Padova mel tempo di S. Antonio, come
ripportano Giacomo Salamon, Francesco Sansovino
et il cieco d'Adria.
Questa nobile stirpe sussiste ancora in Napoli».
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, pp. 67-70).
FAMIGLIA DOTTO
«Nob:
Dotti. Questa famiglia è assai
antica in Castelfranco, così dimostrandolo il
suo arbore, che principia da un Francesco Dotto
nell'anno 1320, ma per anco m'è sortito trovare
la sua origine.
Del 1493 Antonio Dotto fu Sindaco cioè
Proveditore della Comunità di Castelfranco.
Del 1500 fioriva il padre Domenico Dotto
Servita, che fu gran Theologo e chiarissimo
predicatore due volte Provinciale della sua
religione, trovando due altre rinunziato il
generalato deglla medesima, egli fu quello che
in Padova raccolse li sudori di sangue da un
Christo miracoloso, et l'anno 1512 nella
medesima città istituì la confraternita del
Crocefisso come chiaramente nella seguente
memoria epistolante sopra la porta della
sagrestia de PP. Serviti di Padova si legge:
Dominico Castrofrancano ex nobili Doctorum
familia Servitarum B.M.V.O. a puero usque adito
summo Theologie fido Sacre scripture inter.
claro evangelice fidei concionatori, lis ordinis
sui provincialatus nunere functo, lis
generalatus regimine renuntiato, anno etatis sue
70 mascina cum vite integritate peracto publico
merore publicis lacrimis hinc condito. Civitas
virtutibus tanti viri hic commorantis illustrata
beneficorum non immmemor H.M.F.C. sumptum posuit
anno 1549 Servite Patavini et Castrofrancani
fratres fratri de se deg. crucifisci societate,
quam hic instituit anno 1512 quo sudorem
sanguinem semel e facie, semel e latere emisit
opt. mer. et Dominicus Doctus Patavii Vic.
Pret. affini kariss. mon. pub.
Vetustate consumptum restituendum escornandum
que VV.AA.CC. Anno 1622.
Del 1558 Luca Dotto fu Cancelliere in Dalmatia
nella città di Spalatro, nel qual tempo della
Republica Veneta fu mandato a trattare
l'importante affare delli molini di Salona e
della ricuperatione di 33 Ville nel Contado di
Sebenico, et ottenne quanto desiderava il
Senato.
Del 1570 essendo Cancelliere nel Regno di Candia
imprestò al publico ducato 2000 et nel medesimo
tempo Giovanni suo figlio andò nella guerra di
Cipro et restò schiavo de Turchi.
Del 1622 habbiamo dalla suddetta iscrizione che
Domenico Dotto fu vice Podestà di Padova.
Del 1628 Michiel Dotto fu Canonico nella città
di Padova; questo fece fabricare il palazzo che
di presente si vede al loco detto il Commun cioè
alli confini tra Castelfranco et Valla nel qual
tempo per cagione della carestia diede molte
biade in credenza a poveri et alla sua morte
ordinò che fossero abbrucciati i libri dei suoi
crediti.
Paulo Dotto fu celebre e primario lettore nello
studio di Padova; morì l'anno 1680 et lasciò nel
suo testamento che mancando la sua linea così di
maschi come di femine le sue entrate fossero
date ad un cittadino povero di Castelfranco,
qual fosse conosciuto dalli deputati di Padova
per virtù, costumi e condizione il più degno,
con questo che si facesse chiamare Paulo Dotto
da Castelfranco.
Pietro Dotto fu Pievano a Castelcucco eletto
l'anno 1698 et morì colpito da una saetta l'anno
1713.
Questa famiglia ora consiste in due casati, uno
ritrovasi in Padova et discende dal sudetto
Paulolettr, del quale nacque Antonio K: di cui
nascono due figli hora viventi cioè Domenico et
Michiel del quale nascono Paulo et Antonio.
L'altra dimora in Castelfranco et di essa vivono
tre fratelli quondam Giovanni, cioè Fausto
prete, Antonio padre e abbate de S. Antonio de
Carpane, et Francesco».
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, pp.
72-74).
FAMIGLIA EMO
Nadal Melchiori riporta che Benedetto Emo fu podestà di Castelfranco per Venezia nel 1350, Lunardo Emo nel 1393 e Giacomo Emo nel 1488.
FAMIGLIA GRADENIGO
«I Gradenigo furono una delle
più importanti famiglie del patriziato
veneziano.
Tradizionalmente ritenuti una delle
ventiquattro famiglie apostoliche, presenti al
momento della fondazione del Ducato, diede
alla Serenissima tre dogi.
L'origine della famiglia è
incerta e le varie teorie al riguardo si basano
su leggende. Secondo alcuni proveniva
dalla Transilvania, per altri da Ravenna; dopo
un periodo trascorso ad Aquileia, avrebbe
partecipato alla fondazione di Grado, da cui il
cognome Gratico,
modificato poi in Gradenigo con l'aggiunta di un
suffisso patronico in -igo.
Una tradizione li ritiene della stessa stirpe
dei Dolfin.
L'ipotesi sulla provenienza gradense della
famiglia è condivisa da tutte le tradizioni sin
dai tempi più antichi e per questo viene
ritenuta affidabile anche dagli storici moderni.
È stato invece confutato quanto sostenuto
da Giuseppe Caprin il quale, ritrovando a Grado
un'omonima famiglia Gradenigo di modeste
condizioni, ritenne che anche i nobili avessero
un'ascendenza umile; in realtà essa aveva
assunto il cognome Gradenigo nel Settecento in
segno di devozione a quel casato.
Tuttavia, se ci si basa su Giovanni Diacono, i
Gradenigo farebbero la loro comparsa nella
storia di Venezia solo nella seconda metà del IX
secolo assieme ad altre famiglie di recente
importanza, che tentarono di imporsi nella scena
politica dopo l'assassinio del doge Pietro
Tradonico.
Fu una delle più potenti casate veneziane. Le
venne attribuita la fondazione di alcune chiese
(Santi Apostoli, San Cipriano di Murano,
forse Sant'Agostino) e, suddivisa in vari rami,
diede numerose personalità distintesi in campo
politico, ecclesiastico, militare e culturale;
tra queste, spiccano tre dogi. Un ramo,
insediatosi stabilmente a Creta, prese invece
parte, con Marco e Leonardo detto "Baiardo",
alla rivolta del 1363-1366»
(https://it.wikipedia.org/wiki/Gradenigo).
FAMIGLIA MARTA-BRUSAPORCO
«Nob:
Marta.
Questa famiglia habbia la sua origine nella dove
produsse homeni valorosi nella disciplina
militare. Dicesi questa esser venuta in Italia
con la famiglia Tempesta qual dominò il Castello
di Brusaporco circa il 1014 et che fermò la sua
habitazione nel medesimo castello. Narasi pure,
che il primo di questa famiglia si sia
ammogliato nel detto Castello di Brusaporco una
ricca donna per nome Marta, che gli diede in
dote molti terreni, e che li figli con quella
procreati fossero comunemente denominati i figli
della Marta, et che in questa forma hebbe
principio la denominazione di questa famiglia,
che fino ai nostri giorni continua.
Nel 1325 fu distrutto fino a fondamenti il
Castello di Brusaporco dalle genti dello
Scaligero, e però questa famiglia che ivi
possedeva i suoi beni trasportò la sua
habitazione a Castelfranco, come loco più
vicino, impugnando per arma l'impresa del
Castello distrutto, che era un temporale che si
abbruccia.
Dal 1452 Giacomo Marta è nominato nei rogiti di
Christoforo quondam Guidozio Spinelli Nodaro per
cittadino di Castelfranco.
Dal 1450 Benetto Marta quondam Giacomo vien
nominato dallo stesso Nodaro come sopra.
Del 1495 Girolamo quondam Fantin Marta militava
in servitio di Massimiliano Imperatore, et
infermatosi nella Terra di Borgoforte distretto
di Mantova morì, celebrò il suo ultimo
testamento rogato da fra Giacomo dell'ordine di
S. Francesco di Venezia suo confessore e
legalizato da AmbrosioDermatio quondam Giovanni
Nodaro pubblico di Mantova, il quale lasciò a
questo S. Monte di Pietà ducati 200.
Del 1500 Alesandro Marta fu Vicario in Verona et
a quel tempo la famiglia si divise non solamente
in più case ma ancora in più luoghi essendovi
una famiglia della stessa denominazione a porto
Bufolè, qual pretende provenire dallo stesso
sangue di questa, et di essa la giorno d'oggi
vivono Pelegrin quondam Francesco e Andrea suo
zio.
Del 1580 Benetto Marta quondam Giacomo fu
Vicario di Cividal di Belluno.
Del 1590. Pietro quondam Francesco Marta fu
dottore e celebre filosofo, il quale mandò alle
stampe un suo libro intitolato: Comentaria in
logicam Aristotilis. In Venezia per Giacomo
Vincenti.
Del 1592 Nicolò quondam Bernardin Marta formò di
sua mano l'ultimo suo testamento, col quale
istituì de' suoi beni un pertpetuo fideicommisso,
e se fosse estinta la sua linea di maschi e
femine, così legittimi, e come naturali, volle
che la sua eredità vadi alle RR. Monache di
questa Patria, et no accettando le Monache
lascia a RR: PP: di San Giacomo, e se anco
questi non accettassero lascia a due religiosi
preti con obligo di due messe all'anno e come
meglio nello stesso testamento.
Del 1615 Bernardin Marta quondam Giacomo fu
Colonello della Serenessima Republica in
terraferma. Del 164. Bernadin quondam del
sudetto Bernardin Marta fu Pievano di Albaredo e
Casacorba.
Del 164. Giacomo Marta fratello del sudetto fu
Pievano dello stesso loco.
Hora vive Bernardin Marta quondam Bonifazio, che
ridusse la sua habirazione a Brusaporco, del
quale nascono Bonifazio, Gio:Battista, Giacomo e
Nicolò, dal quale nasce Bernardo»
(N. MELCHIORI,
Ibidem,
01 MS 158, pp.
100-101).
FAMIGLIA MORO
«I Moro furono
una famiglia patrizia della Repubblica di
Venezia, annoverata fra i curti.
La leggenda li ritiene originari di Padova e
ne individua il capostipite in un Albino Moro,
tra i fondatori di Venezia nel 424.
La famiglia è però attestata con sicurezza a
partire dal 982 e da questo momento ebbe grande
influenza nella vita pubblica della città.
Rimasero inclusi nel Maggior Consiglio anche
dopo la serrata del 1297.
Raggiunsero l'apice delle istituzioni con
l'elezione a doge di Cristoforo
Moro (1462-1471).
A partire dal Cinquecento i Moro persero il loro
ruolo politico, ma continuarono a distinguersi
dando uomini di cultura.
Da questa famiglia provenivano i Moro-Lin (o
Morolin), discesi da Gasparo Moro e da Isabella Lin,
sposatisi nel 1748.
In Armoriale, il cognome è attestato appartenere
a nobile famiglia italiana a Mare
Lido (VE), Torino, Genova, Brescia, Carmagnola, Casale e Trani»
(https://it.wikipedia.org/wiki/Moro_(famiglia)).
Bibliografia utilizzata
VINCENZO CATARI,
Le imagini colla sposizione degli dei degli
antichi,
Venezia, 1556, p. 141.
N. MELCHIORI,
Catalogo historico
cronologico, cioè Copiosa raccolta che contiene
L’origine di Castelfranco… -Memorie di
Castelfranco-,
copia ottocentesca, Biblioteca Comunale di
Castelfranco Veneto, 01 MS 158, pp. 8, 43-45,
67-70,
72-74, 100-101, 192, 195,
222, 240,
252-253, 262, 271, 302,
309-310, 373, 467.
N. MELCHIORI,
Catalogo Historico
Cronologico cioè Copiosissima Raccolta
che contiene La serie dei nomi…,
Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, P6
MS 161, p. 59,
N. MELCHIORI,
Repertorio di cose
appartenenti a Castel Franco nostra Patria,
1715-18, copia ottocentesca, Biblioteca Comunale
di Castelfranco Veneto, ms. 166 N-145, 12 521
R.I., p. 142.
B. SCAPINELLI,
Istoria di Castelfranco,
s.d.,
Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto, E-1
/ MS 201, s. n. p.
NADAL MELCHIORI,
Notizie di Pittori
e altri scritti,
edizione a cura di G. BORDIGNON FAVERO,
Venezia-Roma
1968, p. 79, 134.
G. BORDIGNON FAVERO,
Una sacra conversazione attribuita a Girolamo da Treviso il Vecchio,
in "Bollettino del Museo Civico di Padova", nn.
1-2, Padova, 1968.
G. BORDIGNON FAVERO,
Castelfranco Veneto e il suo territorio nella
storia e nell’arte, Cittadella, 1975, vol.
I, p. 144.
Memi Botter in M. BOTTER,
Affreschi
decorativi di antiche case trevigiane,
Dosson di Treviso, 1979, tavv. 64-65, 68, pp.
156, 158, 162.
G. BORDIGNON FAVERO,
I palazzi Soranzo Novello e Spinelli Guidozzi in Castelfranco Veneto,
Cittadella, 1981, pp. 29-40, fig. n. 42.
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Giorgione negli affreschi
di Castelfranco,
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La podesteria di
Castelfranco nelle mappe e nei disegni dei
secoli XV-XVIII,
Cittadella, 1994, pp. 69-70, fig. 77, figg. 80 e
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l’evoluzione della forma urbana e territoriale
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Opere della Collezione della Banca Popolare di
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catalogo a cura di M. MONDI, Castelfranco
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I palazzi dei Novello,
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FONDAZIONE BENETTON STUDI
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Treviso urbs picta.
Facciate affrescate della città dal XIII al XXI
secolo: conoscenza e futuro di un bene comune,
a cura di ROSSELLA RISCICA e CHIARA VOLTAREL,
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https://it.wikipedia.org/wiki/Gradenigo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Moro_(famiglia).
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