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BRUNO PROTA

di Marco Mondi

 

    Bruno Prota è un pittore che fa il magistrato, e la sua attività di magistrato ha certo dei profondi legami con la sua pittura: i soggetti di cui si occupa in pittura, come nel suo lavoro da magistrato, infatti, sono gli uomini. Gli uomini e la loro realtà, gli uomini e la quotidianità della loro vita. Bruno Prota quindi, per questo, può essere definito un pittore realista, sebbene il suo realismo paia sforzare alquanto il dato oggettivamente reale della mimesi per spingersi dentro una visione essenzialmente mentale della realtà. Il suo è, prima di tutto, un realismo intellettuale: egli parte effettivamente da uno spunto oggettivamente reale del mondo che ci circonda, ma lo elabora e lo trasforma in un universo che va al di là delle apparenze, dell'esteriorità del visibile, per svelarci una realtà di vita che è anche una sorta d’ironica e quasi giocosa sintesi figurativa di un'alienata e toccante interiorità umana. E, in ultima analisi, a Bruno Prota interessa proprio quell'interiorità umana che accomuna e lega un individuo all'altro e che, con i suoi movimenti, con i suoi atteggiamenti, con le sue positure, con i suoi "colori", lo fa vivere e gli fa occupare uno "spazio" fisicamente e psicologicamente solido nell'affollata quotidianità moderna di una realtà che è poi principalmente metropolitana.

    Come fu per gli Espressionisti, nelle sue opere è il soggetto che imprime di sé l'oggetto: è l'interiorità dei suoi personaggi a plasmare l'esteriorità non solo delle loro fisionomie ma anche dell'ambiente stesso in cui si muovono e vivono. Prota lavora di proposito sulla materia tematica di un realismo metropolitano e cosmopolita, perché è in esso che individua la vera modernità di gran parte, oramai, della nostra società (e perché, che si voglia o no, esso c’è comunque imposto attraverso la miriade d'immagini con le quali siamo continuamente bombardati dai mezzi di comunicazione di massa). Le sue opere si affollano di questa quotidianità metropolitana che si fa subito intellettuale, poiché è sin dall'inizio concepita come una cognizione stereotipata del dato reale: quello che riporta sulla tela è l'essenza o, meglio, la sintesi di ciò che per la nostra mente assume subito il valore di una città, di una strada, di un luna park, come confermano poi le titolazioni delle opere: Attraversando la città, Manhattan, Notte di festa, Milano, Metrò, Luna Park, Linea 6, Caffè, Cabaret e così via. Gli interni stessi, grazie all'atmosfera creata formalmente e cromaticamente dai suoi personaggi, suggeriscono un'ambientazione esterna cittadina, metropolitana. E' come se egli mettesse sulla tela la colorata sintesi figurativa di un momento di vita quotidiana fermato per incanto da un'istantanea che non si preoccupa di coglierlo mimeticamente, perché vuol andare oltre la mimesi stessa, trasfigurandolo, deformandolo e quasi mascherandolo pur di svelarne la sua essenza più profonda. E l'essenza più profonda svelata dalle opere di Prota è la presenza umana dei suoi personaggi, poiché sono le persone ed è la loro umanità a fare l'ambiente, la strada, il quartiere, la città.

    Anche la sua modernità è una "modernità" dell'intelletto; non è contemporaneità in senso stretto. Le sue figure sembrano uscire dai "tempi moderni" così come lo erano negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta. Non perché egli rinneghi la nostra contemporaneità, ma perché così sente di recuperare dentro di sé l'idea di una modernità primordiale della società contemporanea, quando la modernità stessa era già in tutto e per tutto la nostra, ma lo era in un modo più libero, più sincero, più carico di umanità, quasi come fosse una modernità "vissuta mentalmente" nella sua infanzia o nella sua essenza e, pertanto, più facile da cogliere nella sua genuinità e nella sua verità interiore. E' una modernità iconograficamente "databile" ma non è "datata", nel senso di passata, sorpassata: essa, infatti, è attuale; attuale come lo è, ad esempio, Charlot o la modernità fantastica di Fritz Lang o, ancora, certe soluzioni surreali (l'uccello a cucù) di René Clair. Ed è per questo che la modernità dei suoi personaggi, che sono più moderni che modernizzati, si traduce anche in una sorta di loro innata nobiltà d'animo e d'eleganza d'atteggiamenti, di positure, di movimenti. Tanto nella loro vivace giocosità "ironico-cromatica" e quasi burattinesca (che è poi tanto simile a quella del burattino Pinocchio, oggi tornato prepotentemente alla ribalta), quanto nella forzatura e nell'affettazione della loro "messa in posa" da "presenza" cinematografica, non vi è mai uno scadere di stile che faccia sentire le differenze razziali o sociali come elementi disgreganti. Anzi, al contrario, il cosmopolitivismo che traspare nelle opere di Bruno Prota sta proprio in questo: i suoi personaggi sono cosmopoliti sia che si trovino a vivere tra le strade di New York, sia che si trovino tra gli spalti di un circo di provincia. Tra loro, non ci sono confini razziali, nazionali, sociali e nemmeno culturali. Bruno Prota ci presenta contesti ed ambientazioni dove regna, prima moralmente e civilmente, poi compositivamente e coloristicamente, un'armonia ideale, quindi ancora una volta vissuta mentalmente, intellettualmente.

    Se in Prota vi si può scovare una vena di Romanticismo, è in questa direzione che la si deve cercare, vale a dire nel suo guardare ad una modernità culturalmente cosmopolita ed ideale, intellettualisticamente stereotipata nella composizione e, verrebbe da dire, sognata nei colori.

    Eppure, è proprio in questo intellettualismo di ricerca dell'interiorità umana nella quotidianità della metropoli che egli ci "s-vela", con un trasportato e quasi giocoso senso ironico, anche un'alienante e generalizzato senso di solitudine, di isolamento o, meglio ancora, di straniamento, come direbbe Hegel, tanto più accentuato quanto più le sue tele si affollano di personaggi. E' una solitudine, un isolamento profondo, endocrino, che traspare sia nei personaggi che dai personaggi, per dilatarsi all'ambiente, agli oggetti, agli edifici, all'aria stessa, che sovente ha la medesima consistenza materica e cromatica di ogni altro elemento del dipinto. E' questa solitudine interiore che scalfisce, scheggia, taglia l'espressione acuta di quegli sguardi così spesso rivolti con minacciosa inquietudine verso lo spettatore; è questa solitudine interiore, esistenziale, che taglia le volumetrie dei volti, degli incarnati, degli abiti; che dertermina il dinamismo dei movimenti, l'espressione degli atteggiamenti, l'affastellarsi della profondità spaziale, la volumetria delle superfici degli oggetti, delle pareti, della città. Ed è ancora questa solitudine interiore ad esaltare e a scandire il ritmo musicale, spezzato ed acuto, delle violente e squillanti note cromatiche, che riempiono le tele di Bruno Prota di una necessità di coprire formalmente e coloristicamente ogni più piccolo spazio della loro superficie, fino a costruire un horror vacui compositivo che idealmente rimanda a quello dell'antica pittura medievale, ma interpretato in chiave moderna, metropolitana. E' una solitudine interiore che isola un personaggio dall'altro chiudendolo in quegli sguardi inquietanti, minacciosi, seri, anzi troppo seri. Tuttavia, è proprio questa solitudine interiore ad accomunarli, a renderli partecipi di un'unica realtà di vita, di un'unica realtà di sentimento, di un'unica realtà quotidiana.

    Il linguaggio figurativo di Prota è in questo senso espressionista. Ma il suo è un espressionismo che si esprime nella violenza assopita, silenziosa, frustrante di un sentimento umano presentatoci nella sua valenza cromatica e formale. Di per sé, la sua pennellata non è affatto violenta, oltraggiosa, offensiva, tratta con impeto sulla tela. Al contrario, è una pennellata meditata, riflessiva e si potrebbe quasi dire razionale, che tende a rendere figurativamente una sintesi di forme-volumi-colori. Non è casuale, infatti, se egli impiega anche ben più di un mese per realizzare un suo dipinto. Sotto alle sue opere, si penserebbe di trovarvi un disegno preparatorio di ascendenza cubista, di un cubismo sintetico alla Léger o magari, considerati gli esiti finali dell'opera, di Ritorno all'ordine nella maniera metallica di una Tamara de Lempicka, ad esempio. Chi ha avuto la fortuna di vedere il disegno che compositivamente sta alla base dell'intera architettura di un suo dipinto, invece, vi scopre sorprendentemente un segno elegante, aggraziato, sinuoso e squisitamente descrittivo. Perché Prota è un grande disegnatore, si può dire, alla maniera "tradizionale", come in un certo senso lo furono Otto Dix o George Grosz; sicuro di sé, sicuro della capacità della sua mano, sicuro anche di un certo virtuosismo grafico, elegante e raffinato nel suo essere crudo e descrittivo. Ma è su queste note delicate che si sviluppa lentamente, poco alla volta, grado per grado, un crescendo sinfonico di forme e di note cromatiche forti, violente e, queste sì, espressionistiche, grazie alle quali fa emergere l'interiorità umana dei suoi personaggi e crea quella civilissima atmosfera d'aristocratica bohémien cosmopolita e metropolitana. In questo, sta gran parte del fascino delle sue opere: egli sembra essere il descrittore o, forse meglio, il cronista lucido, spietato di una realtà metropolitana alienantemente umana, fin troppo umana nella sua interiorità psicologica e morale.

    La maggior parte delle composizioni delle sue tele, a livello formale, è sapientemente bilanciata, equilibrata e, da questo punto di vista, quasi classica: se una figura domina lo spazio da un lato, subito dall'altro vi è un'altra figura o un altro elemento che la bilancia; e per far questo si serve anche del colore: una nota più squillante, bilancia una nota meno accesa che però si espande su di una superficie più ampia. Sovente, le sue opere mancano volutamente di un vero fulcro compositivo. Tuttavia, l'armonia dell'insieme non ne è assolutamente intaccata. E non ne è intaccata nemmeno dai ritmi zigzagati e spezzati attraverso i quali si penetra otticamente nella profondità spaziale delle raffigurazioni. Lo spazio stesso, non è definito da una prospettiva rigorosamente euclidea perché, sebbene sia uno spazio pensato, risolto mentalmente, è uno spazio che deve descrivere come un'istantanea un brano di vita quotidiana. Il punto di ripresa della scena è quasi sempre rialzato, quasi a volo d'uccello, il che produce il ribaltamento in avanti della prospettiva ed un senso di instabilità spaziale dove, però, le figure e gli oggetti occupano comunque solidamente una loro voluminosa posizione nello spazio. La marcata composizione plastica e volumetrica delle figure e della scena, conferisce ad ogni elemento una sorta di educata fissità: una volta in più, è come se per un attimo una macchina fotografica avesse fermato il tempo, e con il tempo i dinamismi dei movimenti. Tuttavia, un'analisi siffatta non sarebbe completa perché nelle opere di Bruno Prota è il colore, che è luce, a creare la forma, ed è il colore che, creando la forma, costruisce i volumi delle figure e dello spazio; ed è il colore, ancora, che guida e rimette in moto i movimenti, che restituisce la dinamicità all'intera composizione, che accende di vita le espressioni, gli sguardi, gli atteggiamenti, i sentimenti dei personaggi. Ed è attraverso il colore, in fine, che Prota trasforma la "realtà oggettiva" in "realtà intellettuale". Cromaticamente, infatti, pare voglia tradurre il concetto di caos metropolitano in note di colore gestite intuitivamente e spontaneamente dall'intelletto, con non poche analogie con talune musiche Jazz, o anche di Stravinsky o di Schömberg. La costruzione coloristica delle sue opere è, pertanto, una costruzione plastica, che crea lo spazio, e nella quale sembra riportarvi un'ironia cromatica e formale avvicinabile, sotto alcuni aspetti, a quella di certi "personaggi-manichino" di Seurat e di Signac. In ultima analisi, l'arte di Prota si pone il problema di affrontare figurativamente la duplice valenza del colore, cioè quella di colore-sensazione (intuitivo, istintivo e spontaneo) e quella del colore volume (ragionato, pensato, intellettuale). Sviluppa una nuova funzione plastico-costruttiva della materia cromatica, che trova le sue radici in Cézanne, nei Fauves anche e, ovviamente, nel Cubismo, non quello analitico bensì quello sintetico. Da qui la sua resa "oggettiva" del reale (si badi, oggettiva, non mimetica), che si regge sulla geometria del colore e dei volumi. Ma, per scovare l'umanità dei personaggi e della loro quotidianità metropolitana, ne esaspera i cromatismi entrando in una visione che è anche anticlassica e talvolta, se non irreale, almeno fantastica; per cui nelle sue opere diviene "naturale" una deformazione schematico-coloristica della figura e non sorprende, allora, se taluni personaggi si librano in una sorta di fiaba metropolitana che fa tornare alla mente certe favole figurative cantate da Chagall. Prota, infatti, nel suo voler cogliere il lato intellettualmente umano della nostra realtà quotidianità, si trasforma così in sofisticato cantore di una moderna favola metropolitana.

 

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