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Galleria d’Arte ed Antiquariato

 

GIORGIONE

di Marco Mondi

  Per diversi decenni del Quattrocento, a Venezia e nel Territorio della Serenissima la tradizione figurativa, rispetto ad altri centri della penisola, continua a mantenersi legata a forme espressive d'ascendenza gotica, nella veste assunta dal "fiorito". Durante la prima metà del secolo, sono gli stessi artisti toscani a portare in laguna le prime testimonianze dello spirito rinascimentale. In città, infatti, sono chiamati a lavorare Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e più tardi lavora per Venezia pure il Verrocchio. Artisti veneziani, come ad esempio Jacopo Bellini, soggiornano a Firenze, rinnovando così il loro linguaggio sugli ideali del Rinascimento, ma rimanendo sempre sostanzialmente vincolati, in termini di modernità, come tutta la cultura veneta di quegli anni, ad un lessico figurativo oramai sorpassato. Questa generale situazione di refrattarietà nei confronti delle nuove teorie artistiche dipende, almeno in parte, dalla volontà stessa del governo di San Marco, che ritiene politicamente ed economicamente più vantaggiosa una siffatta presa di posizione, anche in considerazione dei continui e lucrosi rapporti commerciali mantenuti vivi per secoli tanto con l'Oriente quanto col nord d'Europa. Non stupisce, allora, se la spinta decisiva verso il Rinascimento parta, piuttosto che dalla capitale, da una città decisamente più aperta a recepire nuovi stimoli culturali come Padova, sede di un'importante università rinomata in tutta Europa. Ed a Padova, tra il 1446 ed il 1450, è chiamato a lavorare Donatello, uno dei più importanti artisti del primo Rinascimento italiano. Il soggiorno dell'artista nella città del Santo riveste un'importanza storica eccezionale, colta subito dal Mantegna che, istruitosi sulla visione diretta delle sue opere, fa mutare radicalmente, nel volger di pochi anni, la situazione culturale non solo in terra veneta, ma nell'intero settentrione. Sugli esempi del Mantegna, prende avvio la straordinaria avventura artistica di Giovanni Bellini, personalità fondamentale della cultura figurativa veneziana della seconda metà del Quattrocento. Importantissimo, per il pittore veneziano, è l'incontro con l'opera di Antonello da Messina, stabilendosi in città tra il 1474 e il 1475, il quale assume un ruolo d'enorme rilevanza nel diffondere una visione figurativa elaborata sull'intrecciarsi d'influenze fiamminghe e, soprattutto, pierfrancescane, che si concretizzano nei suoi dipinti con altissimi risultati d'equilibrio tra forma e spazio e tra volume e luce. Sugli esempi di Antonello, a partire dall'ottavo decennio, il Bellini sviluppa la propria "religiosità" artistica in composizioni dove la luce, attraverso il colore, crea ricercati effetti di fusione atmosferica e di geometrica e rigorosa tornitura delle forme. Al volger del secolo, Giovanni Bellini, diviene così la personalità artistica di maggior rilievo della città lagunare, dove tuttavia lavorano fervidamente altri pittori dal ruolo non certo marginale, come il fratello stesso di Giovanni, Gentile, o, più ancora, Vittore Carpaccio, impegnato a ridurre la propria visione fantastica della storia in una sorta di leggenda di un presente immaginario. A completare il panorama artistico lagunare a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in relazione alla formazione del giovane Giorgione, bisogna considerare, inoltre, i soggiorni di Albrecht Durer (da mettersi in relazione anche alla presenza in città di un importantissimo fondaco quale era quello dei Tedeschi - una sorta di centro commerciale dei mercanti d'oltralpe), avvenuti, il primo, all'età di ventitré anni, tra il 1494 ed il 1495, ed il secondo tra il 1505 ed il 1507. Altre influenze nordiche, giungono a Venezia attraverso le incisioni e attraverso la presenza dei dipinti stessi portati dai viaggi di commercio fatti nelle città dell'Europa settentrionale. Un altro rilevante punto di riferimento per l'arte lagunare di questi anni, è l'influsso della pittura di Leonardo, che giunge di riflesso importata dagli artisti lombardi attivi in città e direttamente durante il brevissimo periodo di permanenza (1500) dopo la fuga da Milano, a seguito della caduta degli Sforza: Leonardo ha quarantasette anni e gode di una fama grandissima, tant'è vero che il governo di San Marco non perde l'occasione per affidargli il progetto di un piano di difese contro la minaccia di un'invasione turca. Infine, forme toscane e dell'Italia centrale possono essere messe in relazione con la prima attività artistica del Giorgione per mezzo di mediazioni emiliane, quali quelle di Francesco Francia e Lorenzo Costa.

  Per avere ora un'idea visiva di opere, dalle quali si possono velocemente chiarire alcune caratteristiche formali e compositive recepite da Giorgione agli inizi e durante la sua attività figurativa, andiamo a vedere i seguenti dipinti (che l'artista poté anche non conoscere, ma che aiutano lo stesso a capire quale fu probabilmente l'ambiente artistico in cui si formò e lavorò). Nella chiesa di San Cassiano a Venezia, per tutti i primi decenni del Cinquecento, si conservava ancora la pala con la Madonna in trono col Bambino e Santi (fig. 280), dipinta da Antonello da Messina nel periodo del suo soggiorno veneziano (1474-75): di questa oggi ne esistono solo alcune parti. La ricostruzione della composizione fatta dal Mather nel 1924, mostra la scena sacra ambientata all'interno di un'architettura coperta da una volta a crociera, al di là della quale, dietro una sorta di tendaggio, che racchiude lo spazio sino all'altezza dei braccioli del trono, si apre un ipotetico cielo solcato da nuvole. La successiva, e più attendibile, ricostruzione tentata dal Wilde (1929), mostra la scena ambientata all'interno di un'architettura più complessa, chiusa in alto da una volta, davanti alla quale s'intravede, in parte, la cupola; a chiudere la composizione sullo sfondo, s'erge un alto parapetto, che sovrasta in altezza tutte le figure, compresa quella della Madonna, lasciando libera solo una parte del lunotto delimitato dalla volta. La resa spaziale e di luministica tornitura volumetrica delle figure è chiaramente intuibile dalla visione del particolare della Madonna in trono. Giovanni Bellini, sotto l'influsso di Antonello, dipinge attorno al 1487 la Pala di San Giobbe (fig. 281),  oggi conservata alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, che è un chiaro esempio di composizione e costruzione spaziale di tipica pala d'altare veneta della fine del Quattrocento e dei primissimi anni del Cinquecento, perlomeno. In questo momento, il Bellini sviluppa la sua concezione di "mito religioso" con una tecnica pittorica sempre più direzionata verso una luminosità atmosferica tutta giocata col colore. Nel nuovo secolo, l'anziano maestro si mostra capace di rinnovare ancora la propria poetica sugli influssi stessi del Giorgione, che nella sua bottega aveva forse avuto i primi insegnamenti. Nella Madonna in trono con Bambino e Santi (fig. 345), dipinta nel 1505 per la chiesa di San Zaccaria, l'architettura mostra solo una timida apertura paesaggistica verticale ai lati estremi, mentre il colore, sfumando in penombre ricchissime e ammorbidendosi in larghe campiture tonali, si aggiorna ad una resa atmosferica più accentuata. Nella Madonna col Bambino benedicente (fig. 346) di Brera, del 1510, l'artista persiste sulla strada del rinnovamento di Giorgione e Tiziano, sentendo però qui il bisogno di separare con una tenda le figure sacre dal paesaggio circostante; mentre nella Donna nuda allo specchio (fig. 347) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, dipinta un anno prima di morire, l'anziano maestro presenta un tema di chiara ispirazione giorgionesca. Del fratello di Giovanni, Gentile Bellini, famose sono le grandiose composizioni di vario soggetto ambientate a Venezia, la cui realizzazione, però, si mostra di un livello qualitativo decisamente inferiore  rispetto a Giovanni. Gentile fu anche un discreto ritrattista, come appare pure nel Ritratto di Caterina Cornaro (fig. 348) del Szépmuvészeti Muzeum di Budapest. Vittore Carpaccio, pur sempre in modi avvicinabili al Giambellino, dipinge straordinari cicli pittorici come quello delle Storie di Sant'Orsola, eseguito attorno al 1495 (si veda, ad esempio, il particolare del Rimpatrio degli ambasciatori inglesi - fig. 282 -, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia di Venezia), che con ogni probabilità Giorgione ha avuto occasione di ammirare, considerato il gusto carpaccesco di certe  composizioni di figure, e delle figure stesse,  in alcune sue opere. Di sapore belliniano è pure il Ritratto di donna (fig. 349), oggi al Staatliche Museen di Berlino, di Albrecht Durer, eseguito a Venezia durante il suo secondo soggiorno (1505-1507), la cui configurazione iconografica è alquanto simile ad alcuni volti di Giorgione stesso (si persi a quello della Giuditta, ad esempio), ma assolutamente lontano per quanto riguarda il linguaggio figurativo. L'incisività grafica del grandissimo maestro tedesco appare decisamente più evidente in opere come il Gesù fra i dottori (fig. 350), della collezione Thyssen di Lugano, dipinta nel 1506 con uno spirito legato ad una tradizione ancora fondamentalmente e musicalmente gotica. Giorgione, inoltre, dovette conoscere altre pitture nordiche attraverso la visione diretta di dipinti conservati in città e certamente anche attraverso le stampe: si confronti, ad esempio, il manto della Madonna di Castelfranco con quelli graficamente descritti in incisioni come la Madonna col Bambino (fig. 351) di Martin Schongauer, del 1475-80 circa. L'influenza leonardesca si mostra evidente nella risoluzione tonale dello sfumato adottata nei dipinti del Giorgione, che il pittore di Castelfranco può aver recepito anche indipendentemente dalla visione diretta delle opere del maestro, attraverso la conoscenza dei lavori di pittori lombardi attivi in città; tuttavia lo sfumato di Leonardo, che avvolge col "fenomeno" atmosfera paesaggio e figure (come nella Gioconda - fig. 288), è risolto dal nostro con tutt'altra importanza cromatica. L'impostazione iconografica della Pala di Castelfranco, infine, mostra delle affinità compositive con opere degli emiliani Francesco Francia e Lorenzo Costa (si veda il confronto con la Madonna e Santi della Pinacoteca di Bologna del primo, e con la Madonna e Santi di San Petronio o, più ancora, con il San Petronio e Santi dello stesso museo bolognese, del secondo - fig. 352).

  Arriviamo ora direttamente a trattare il "problema" Giorgione (fig. 352bis). Su questo artista si sa pochissimo e pochissime sono le fonti contemporanee che ci parlano dell'artista, al punto che la stessa origine castelfranchese è stata, e talvolta lo è ancora, messa in dubbio. Aperto e vivacissimo è il dibattito tanto sull'attribuzione delle opere quanto sulla datazione delle stesse. Pochissime sono quelle rintracciate sulle indicazioni fornite dalle fonti antiche; la principale, e fondamentale, delle quali è costituita dal libriccino di appunti presi nelle collezioni veneziane, tra il 1525 ed il 1543, dal patrizio Marcantonio Michiel, che recensisce quattordici dipinti del maestro, tra opere certe e meno (il nome di Giorgione ricorre diciotto volte). Ma il libriccino fu trovato solo nell'Ottocento dall'abate Morelli; fino a quel giorno la critica giorgionesca, per più secoli, ha viaggiato ai margini del mito. Dei dipinti là menzionati, solo un ristretto numero è stato rintracciato dalla critica moderna, generalmente però accolto con parere unanime. Il Vasari, nella prima edizione delle sue Vite (1550), composta sulle indicazioni raccolte durante il suo soggiorno a Venezia del 1541-42, ne cita sei e appena il doppio nella seconda edizione (1568): quasi tutti sono introvabili o male attribuiti. Dopo quasi cent'anni (1648) il Ridolfi, ne' Le meraviglie dell'arte, fa un elenco di sessantacinque pitture (tra le quali, per la prima volta, si cita la Pala di Castelfranco), quasi tutte oggi irreperibili, mentre altre sono state riconosciute di altra mano (tra esse vi sono persino dei falsi fatti dall'abile Pietro Vecchia): è evidente che a quella data Giorgione era già entrato nel mito. Gli storiografi successivi proseguono sostanzialmente per la via del Ridolfi, almeno fino a giungere ai rigorosi ed attenti studi del Cavalcaselle (1871) e a quelli "scientifici" del Morelli (1880-91), ma il catalogo di Giorgione esce ridotto a meno di una ventina di opere. Si inizia così un'altalena di attribuzioni che giunge talvolta a superare il centinaio di opere, talaltra (con i due volumi dell'Hourticq del 1919-30) a ridimensionarle a sole sei. Oggi, grazie ad un maggior rigore storico-artistico e scientifico, almeno per i dipinti (per i disegni la situazione appare ancora più controversa), il catalogo dell'attività artistica del Giorgione viene generalmente riconosciuto in un ventaglio che va dalle venti alle trenta opere, solo un ristretto numero delle quali messo in seria discussione; cinquanta-sessanta opere, un tempo date al maestro, sono invece oggetto delle più vive diatribe: un numero ristrettissimo di queste riferibili con prudenza al maestro, le altre generalmente date ad altri autori sulla base di ipotesi alquanto solide.

  Giorgione nasce probabilmente a Castelfranco Veneto intorno al 1577-78. E' il Vasari a dircelo: nelle Vite del 1550, lo fa nascere nel 1477 e morire di peste a Venezia nel 1511, all'età di trentaquattro anni; nella seconda edizione del 1568 mantiene invariati gli anni e la data di morte, mentre la data di nascita è corretta al 1578. La duchessa Isabella d'Este, in una lettera scritta da Mantova il 25 ottobre 1510, ci dà indirettamente la prima indicazione precisa sulla data di morte: <<Intendemo che in le cose et heredità de Zorzo da Castelfrancho pictore...>>, ne parla, cioè, come già morto a quella data. La conferma ci viene dalla lettera di risposta alla duchessa, scritta da Taddeo Albano in data 7 novembre 1510: <<A che rispondo a V. Ex. che ditto Zorzo morì più di fanno da peste...>>. Nelle due lettere, Giorgione è chiamato Zorzo da (o de) Castelfrancho, questo a testimonianza del suo luogo d'origine. D'altra parte, pure in altri documenti che precedono il 1510, al nome dell'artista è fatto seguire il nome di Castelfranco: così appare nei documenti del 1507 relativi ad un'opera per Palazzo Ducale, dov'è chiamato Maistro Zorzi da Chastel franco, e così è chiamato anche nei documenti del 1508 relativi agli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Null'altro di certo si sa a riguardo della sua nascita e della sua famiglia, argomenti pure questi ricchi, sin dal Ridolfi, delle più disparate ipotesi, talvolta alquanto suggestive. Certo è che, per un artista nato in un paesotto di provincia quale è Castelfranco, i contatti o i "legami" con personalità importanti del luogo devono, senza ombra di dubbio, esserci stati. E' la sua stessa pittura a darcene conferma: senza un apprendistato giovanile a Venezia, opere di tale livello qualitativo e novità rivoluzionarie (a partire dalla stessa Pala di Castelfranco - tra i suoi primi lavori sicuri, riconosciuta tale da tutta la critica, qualunque sia la sua vera data d'esecuzione), non sarebbero spiegabili altrimenti, nemmeno per un giovane dotato di straordinarie capacità artistiche quale egli era. Ma non è solo questo. Pressoché nulla (o svelato, sovente ipoteticamente, solo in parte) è rimasto dei significati complessi, reconditi ed ermetici dei suoi soggetti, che sfuggivano, e il Vasari lo ammette, ai contemporanei stessi. Essi, però, sono la prova tangibile del livello culturale dell'artista, ricordato non a caso dalle fonti (tanto le più antiche, quanto le successive) come un giovane dalle fattezze affascinanti ed imponenti (da cui la distorsione del nome in Zorzon), amante della musica e delle belle maniere, una figura dalla grande vivacità spirituale, immersa profondamente nel tessuto più vivo della giovane società colta ed elegante del suo tempo, nonché, quel che più a noi interessa, innovatore della pittura veneziana. Se anche fosse stato quale lo vuole il Vasari (<<nato di umilissima stirpe>>), o quale lo vuole il Ridolfi (nato <<in Vedelago d'una delle più comode famiglie di quel contado, di padre facoltoso>>; ma il Ridolfi gli ha anche già dato un cognome, Barbarella, che è probabilmente un'invenzione seicentesca - a meno che, dietro questa rivendicazione fatta da parte di un'importante famiglia stabilitasi a Castelfranco da non molto tempo, non possa essere visto un lontano, se non lontanissimo, indiretto legame di parentela con la famiglia dell'artista, che non giustifica in ogni caso l'avergli affibbiato il cognome), rimane comunque un giovane che ha avuto la possibilità, per appoggio di qualcuno o per nascita, di educarsi in un ambiente sociale estremamente colto e raffinato. Le fonti, infatti, lo ricordano a Venezia alla bottega del Bellini, (tuttavia Venezia, allora, era per gran parte "belliniana") per quel che riguarda il suo apprendistato pittorico, e fattosi da sé, come afferma il Vasari. Dietro a quel da sé si nasconde forse proprio l'ambiente colto, di ascendenza culturale più neoplatonica che aristotelica, degli amici, che formano poi anche gran parte della sua committenza. Dalle su nominate documentazioni, da pochissime altre fonti antiche e dalle sue stesse opere, possono essere desunte altre importantissime considerazioni proprio sulla committenza. L'artista ha incarichi ufficiali da parte dello Stato veneziano (Fondaco dei Tedeschi, ad esempio), ma la maggior parte delle sue opere conosciute sono state eseguite per una cerchia ristretta e selezionata di conoscenti che, come più d'uno ha notato, sono quasi tutti giovani: Girolamo Marcello, che tra gli altri quadri di Giorgione ha in casa la Venere, è suo coetaneo; Taddeo Contarini, proprietario dei Tre Filosofi, è addirittura più giovane, come più giovane è anche Marcantonio Michiel; Alvise Soranzo, che fa affrescare il palazzo di San Polo, è un giovane che viene da Castelfranco, e così via. Non è quindi improbabile che questa cerchia di giovani amanti dell'arte frequentasse contemporaneamente, e con loro lo stesso Giorgione, anche il colto cenacolo formatosi in terraferma, tra Asolo ed Altivole, attorno alla corte della spodestata regina di Cipro, Caterina Cornaro. La consonanza tra la sensibilità poetica del nostro e quella, ad esempio, del Pietro Bembo degli Asolani (che ha pochi anni più lui), sembrerebbe confermarlo. A tal proposito aiuta la stessa Pala di Castelfranco, commissionata all'artista da Tuzio Costanzo, fedelissimo della Caterina Cornaro sin dai tempi di Cipro. Bisogna considerare, in più, che Giorgione fu sicuramente in contatto con i circoli umanistici, oltre che veneziani, anche padovani. I suoi committenti, inoltre, tenevano tanto alle sue opere da non volersene separare, o da separarsene con fatica: alla richiesta d'Isabella d'Este per acquistare una <<pictura de una nocte, molto bella et singulare>>, Taddeo Albani risponde che con quel soggetto a Venezia ne conosce due, ma <<sichondo m'è stato afirmatto né l'una né l'altra non sono da vendere per pretio nesuno, però che le hanno fatte fare per volerle godere per loro; sicché mi doglio non poter satisfar al dexiderio de quella...>>.

  Premesso che l'attività artistica di Giorgione abbraccia sostanzialmente il lasso di tempo di un decennio, o poco più, e che il Vasari fissa al 1507 la data d'inizio di quella che egli chiama la <<maniera nuova>> del <<dipingere solo con i colori stessi senz'altro studio di disegnare in carta>>, vediamo adesso velocemente quali sono alcune delle opere, oggi conosciute, che le fonti più antiche riferiscono a Giorgione, rintracciate dalla critica moderna con sicurezza, anche sulla base della comparazione stilistica. Collocabili entro il primo lustro del secolo sono tutta una serie di lavori dove forte si sente l'influsso di Giovanni Bellini. E' il caso delle due tavole raffiguranti rispettivamente la Prova di Mosè (figg. 353- 355) ed il Giudizio di Salomone (figg. 356, 357) degli Uffizi di Firenze, lasciate forse incompiute e finite da un seguace nei modi del Carpaccio. La mano del maestro è ravvisabile con maggior certezza nelle figure centrali del Mosè e nel paesaggio del Salomone. La Giuditta con la testa di Oloferne (figg. 358, 359), del Museo dell'Ermitage di Pietroburgo, appare alquanto prossima nei modi alla pala del Duomo di Castelfranco con La Madonna in trono tra Santi (figg. 360-364). Quest'ultima viene per la prima volta menzionata in occasione della visita pastorale del 1603, allor quando il vescovo Molin, sulla spinta delle precise prescrizioni della Controriforma, ne mette in evidenza il notevole stato di degrado, ordinando che l'altare dei Costanzo sia <<...provisto di una palla nova... levandosi poi via la palla vecchia...>>; ordine per fortuna non ascoltato. La sua particolare vulnerabilità a danni di varia natura, ha fatto sì che il dipinto, nel corso dei secoli, subisse numerosi restauri. Tra questi, alcuni si sono rivelati sensibilmente deleteri, come quello che nel secolo scorso ha portato a parchettare il retro del dipinto con un legno che reagisce  agli agenti atmosferici ed ambientali in modo diverso da quello della tavola, causando tutt'oggi sollevamenti e cadute della pellicola pittorica (la fig. 365 illustra le parti che nel corso del tempo sono andate irrimediabilmente perdute e sostituite da ridipinture). A riferirla per la prima volta al Giorgione è invece il Ridolfi, nel 1648. La sua data di realizzazione è stata dalla Anderson recentemente anticipata di alcuni anni rispetto a quella del 1504-05, forse più veritiera, tradizionalmente accettata. Committente del dipinto rimane comunque il generale Tuzio Costanzo, che la fa eseguire per collocarla all'interno della cappella di famiglia, dedicata a San Giorgio, nella vecchia chiesa di San Liberale di Castelfranco (fig. 365bis), che una tradizione locale, documentata però solo dal 1803, vuole fatta erigere per commemorare il figlio Matteo, giovane guerriero morto nel 1504 (come informa la scritta sulla sua pietra tombale, conservata oggi assieme alla Pala nella nuova cappella del Duomo settecentesco). Tuttavia è probabile che i Costanzo avessero un loro cappella già prima della morte del figlio. Il Melchiori, sulle tracce del Ridolfi, ricorda la cappella tutta affrescata, e fa il nome di Giorgione pure per quei dipinti. La composizione dell'opera si fonda su di uno schema piramidale creato, nella parte antistante il parapetto rosso, con pochi elementi di profondità spaziale e geometrica: il pavimento ed il baldacchino col trono. L'uno e l'altro, nella visione d'insieme, presentano dei presunti errori prospettici: le mattonelle del pavimento penetrano la profondità dello spazio ben oltre a quella che appare la volumetria del baldacchino e del trono; la base del trono è colta da un punto di vista rialzato, mentre i braccioli sono colti dal basso. Il Bellavitis, sulla base della prospettiva del pavimento, ha realizzato una ricostruzione della pianta e dell'alzato della Pala, evidenziando un risultato sorprendente (fig. 365ter): la base del trono, che riporta il tondo con lo stemma dei Costanzo, verrebbe ad avere la profondità sufficiente ad accogliervi sopra la pietra tombale di Matteo. Ciononostante, chi guarda il dipinto non ha la sensazione di tale profondità, perché? Penso sia poco credibile imputare al maestro, per quanto giovane potesse essere al momento della realizzazione di quest'opera, un errore di prospettiva così grossolano che, per di più, permette la ricostruzione fatta dal Bellavitis. Un'altra "ingenuità" di questo tipo la si nota nella figura della Madonna: è stato ripetutamente notato come il busto ed il volto siano sproporzionatamente troppo piccoli rispetto alle gambe coperte dal manto. Le radiografie, inoltre, evidenziano diversi ripensamenti nella costruzione prospettica dello spazio. Tutto ciò fa pensare che il Giorgione, impegnato ad completare la tavola, magari a Venezia, abbia avuto, in fase ancora di esecuzione, un cambiamento di richiesta da parte del committente, e a seguito delle nuove esigenze abbia risolto la Pala come la vediamo noi oggi, "salvando ed adattando il salvabile" della sua prima idea. A riguardo degli errori prospettici del trono, questi scomparirebbero se la Pala fosse stata pensata per essere vista da una distanza ravvicinata, con lo sguardo giusto all'altezza del grembo della Madonna, punto verso il quale convergono tutte le linee prospettiche. A tal proposito, alcuni studiosi hanno supposto che, nella collocazione originaria, la tavola fosse posta in un luogo ribassato. Nella risoluzione di tutti questi enigmi, ci può forse venire in aiuto la pietra tombale di Matteo Costanzo (fig. 366); essa stessa fonte di altri problemi, che cercheremo di elencare di seguito, in sintesi. Sulla base del ritrovato testamento di Tuzio Costanzo, la Anderson sostiene che tale pietra dovesse essere in origine posta sul muro. Così, infatti si legge nel testamento del 1510: <<...voglio che corpo mio sia... seppelido... ne la nostra capella devo è sepulto el corpo di Matteo mio carissimo fiolo defuncto... facendo nel muro di detta capella un altro deposito over sepulcro de marmoro>>. Tuttavia, non si deve forse prendere alla lettera quel che allora poteva essere semplicemente un modo di dire, intendendo in realtà che volesse essere sepolto nel pavimento, dov'è più probabile. Guardando la pietra tombale di Matteo, è difficile pensare che essa sia stata fatta per trovar posto sul muro: appesa in verticale (come lo fu quando fu trasportata all'interno del Museo all'inizio del secolo) rappresenterebbe un unicum nella storia iconografica dei sepolcri dell'epoca; inserita orizzontale in una parete, magari pure scavata a nicchia, risulterebbe lo stesso alquanto improbabile, considerato che è scolpita a basso rilievo (e non ad alto come lo sono quelle che sono pensate sin dall'inizio per una siffatta collocazione, cioè per essere viste di piatto, orizzontalmente e di lato), pertanto sarebbe ben poco visibile ed illeggibili sarebbero tanto le scritte su di essa incise, quanto lo stemma di famiglia. Per la pietra tombale, probabilmente fatta in relazione alla Pala, verrebbe da chiedersi chi l'ha scolpita, se per la Pala i Costanzo hanno voluto Giorgione! Le condizioni della lapide non permetteranno forse mai di trovare una risposta; ma è proprio il suo stato di conservazione (consunto da secoli di usura) che fa supporre una logica collocazione su un punto che, col tempo, ne abbia causato tanto degrado (fosse stata sul muro, lo stato di conservazione sarebbe buono, o al massimo avrebbe subito danni di altro genere; sarebbe stata magari scheggiata, o magari la lastra marmorea sarebbe stata spezzata in più parti, ma non avrebbe certo avuto l'usura causata da secoli di strofinio, come dimostra la sua superficie).

  Abbandonando in questa sede tutto questo genere di problematiche, che nella lettura artistica dell'opera sono alquanto marginali, se non fossero in relazione anche alla sua datazione (così come i problemi sorti sull'identificazione del Santo armato sulla sinistra), la tavola di Giorgione presenta a livello iconografico una novità sensazionale rispetto alle rappresentazioni delle pale d'altare con Madonna e Santi fino ad allora viste (almeno da noi): il paesaggio retrostante. La riduzione dei Santi, si accompagna all'eliminazione della tradizionale architettura con la nicchia absidale, entro la quale si svolgeva la scena sacra, che è sostituita da un vasto paesaggio aperto sullo sfondo, al di là di un parapetto rosso; al di qua, le figure sono disposte in un'inedita composizione triangolare ed il loro atteggiarsi non è più distaccato, ma borghesemente disponibile ad un colloquio silenzioso di sguardi malinconici, specie nella Madonna, che assomiglia ad una pastorella dell'Arcadia. L'opera traspira ancora di richiami belliniani, ma il colore è steso con maggior libertà, in modo tale che su di esso la luce possa reagire esaltando al massimo la capacita evocativa del tono, dando così forma ad un'atmosfera diffusa e vibrante, che diviene l'elemento coordinatore dell'insieme (ma l'opera deve essere vista tanto nel suo "macrocosmo", ovvero nell'insieme, quanto nel "microcosmo" dei singoli particolari, dove l'artista mostra una qualità tale, ed una paziente e lenta grazia esecutiva, fatta di continue modulazioni a pennelli fini, ricche di tocchi e velature leggere, da poterlo considerare quasi il Raffaello veneto). E' il colore, dunque, inteso non più come riempitivo, che permette a Giorgione di fondere in una visione unitaria il primo piano col paesaggio retrostante, dove la natura non è architettata a modo di scenografia, come nei dipinti quattrocenteschi, ma è sentita per qualità di toni, per rapporti tra masse cromatiche. La Pala non è ancora dipinta in quella <<maniera nuova>> del <<dipingere solo con i colori stessi senz'altro studio di disegnare in carta>>, tuttavia è la sintesi di quanto di più moderno c'era allora, in arte, in area veneta. Il punto di partenza è lo sviluppo atmosferico e "plastico" maturato dal Bellini (e dal Carpaccio) sugli esempi di Antonello, ma la composizione, come abbiamo visto, è rivoluzionaria e solo attraverso il linguaggio espressivo dei rapporti tonali, l'artista risolve la divisione tra primo piano e fondo. Rapporto tonale, significa contrapporre una massa cromatica all'altra nella loro capacità di reagire alla luce, ed in questo senso il Giorgione, qui, è in una fase di ricerca: sente che lo sfumato leonardesco lo aiuta nel modulare i passaggi tonali all'interno dei singoli elementi o dei singoli particolari, ma le figure e le masse volumetriche del primo piano (e del primo piano con lo sfondo) persistono nell'essere legate tra loro da una costruzione prospettica, che è quasi un vincolo alla straordinaria libertà cromatica. Da un'opera come questa, si intuisce già quale sarà il passo successivo fatto dall'artista verso quel <<dipingere solo con i colori stessi>>, perché solo così, quello che nella Pala è ancora un vincolo, nelle opere successive sarà pura poesia del colore. Infatti, se noi andiamo a seguire i punti del primo piano dove la costruzione di una forma architettonica, o di una massa volumetrica delle figure, si contrappone in maniera piuttosto netta nei confronti degli elementi figurativo-cromatici retrostanti, vediamo come Giorgione è costretto a risolvere il contrasto ricorrendo ad un disegno sottostante che ne risolva spazialmente la profondità. Guardando, ad esempio, il manto rosso della Vergine (ed in modo particolare il lembo in basso a destra, a contatto diretto col paesaggio), si sente come solo attraverso la voluminosità delle pieghe elaborata, con le sue spigolature, su iconografie nordiche, possa spazialmente far emergere in avanti la massa cromatica: in una costruzione complessiva pensata come nella Pala, una soluzione diversa, di puro volume cromatico, avrebbe costretto l'artista a ribaltare totalmente l'impianto architettonico, probabilmente sino ad eliminare la barriera stessa del parapetto rosso (che invece, nel contesto particolare di quest'opera, è un elemento che unisce cromaticamente, non divide, il primo piano dallo sfondo). E' lo stesso problema, in termini diversi, che ha imposto all'artista il leggero rialzo dello scalino sul pavimento, dove poggia il piede della gamba non portante del Santo in armatura: se la costruzione si sviluppa su di uno spazio inteso geometricamente, è attraverso la geometria (il rialzo del gradino) che deve essere risolto. La situazione, quasi per incanto, cambia radicalmente nel paesaggio: là, infatti, tutto si risolve attraverso fusioni cromatiche e continue variazioni di rapporti tonali, sin nel sentiero che si snoda sinuoso alla destra del trono o nel colloquio pacifico dei due guerrieri sul prato, nelle fronde degli alberi o negli stessi edifici sulla sinistra. Il paesaggio esprime, già da quest'opera, la rappresentazione visiva del legame vitale che unisce l'uomo alle cose e alla natura attraverso l'esperienza fatta vivendo in esse. Il motivo centrale dell'arte del Giorgione si può allora dire che diviene, da subito (e più ancora poi nelle opere successive, al di là degli stessi particolari ed enigmatici temi trattati), la relazione profonda e vitale tra uomo e natura, il perpetuo, cioè, rinnovarsi della natura nell'atto di "ri-velarsi" alla contemplazione umana. La Pala di Castelfranco, confrontata ad un'opera presumibilmente contemporanea come, ad esempio, la Madonna in trono con Bambino e Santi (fig. 345), dipinta nel 1505 dal Bellini per la chiesa di San Zaccaria in Venezia, è di una novità sconcertante, al punto tale da suscitare la reazione del Lotto con la Pala di Santa Cristina al Trivarone (fig. 309), del 1507. Un'opera tanto complessa ed innovativa come questa, che mostra il giovane Giorgione aggiornato su quanto, in area veneta, vi era di più moderno, è difficile sentirla eseguita al di fuori dell'ambiente di Venezia città, ed impensabile dipinta a Castelfranco prima di un soggiorno proficuo dell'artista nella città lagunare.

  Di questi primi anni di attività di Giorgione, la critica moderna è generalmente propensa ad attribuirgli anche l'Adorazione dei Magi (figg. 367, 368) della National Gallery di Londra, la Sacra Famiglia Benson (fig. 369) della National Gallery di Washington, l'Adorazione dei Pastori Allendale (figg. 370, 371), il Ritratto Giustiniani (fig. 372) della Gemaldegalerie di Berlino, il Ritratto Terris (fig. 273) del Museum of Art di San Diego (da taluni storici, però, posticipato nella datazione), I tre Filosofi (figg. 374, 375) (ricordati in casa di Taddeo Contarini dal Michiel, che li dice cominciati da Giorgione e finiti da Sebastiano del Piombo), la cosiddetta Laura (fig. 376, 377) e l'Eros con freccia (fig. 378) (ricordato in casa di Antonio Pasqualigo dal Michiel) del Kunsthistorisches Museum di Vienna. In queste opere, l'artista viene maturando un graduale maggior legame tra uomo e natura, cercando una composizione architettonica delle figure in accordo musicale con lo spazio sfumato dell'ambiente e del paesaggio, dove il valore tonale del colore diviene l'elemento supremo di fusione unitaria. I soggetti, come ad esempio nei Tre Filosofi o nella stessa Laura, si fanno di una comprensione sempre più ermetica ed enigmatica, segno chiarificatore di una visione artistica maturata in un ambiente culturale estremamente colto e ristretto, che era quello stesso per il quale le opere erano dipinte. Altre lavori, collocabili probabilmente in questi anni, vengono riferiti al maestro con minor sicurezza. E' il caso de' Le tre età dell'Uomo (figg. 379, 379bis) di Palazzo Pitti di Firenze, che taluni pensano di Tiziano, mentre recentemente altri studiosi sono propensi a considerarli opera autografa del maestro. Molti altri dipinti aprono discussioni attributive ancora più accese, come il Cristo portacroce (fig. 380) dell'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, che si pensa possa essere una copia da un'originale giovanile perduto; tuttavia la raf­figurazione del Cristo portacroce è un soggetto tipico della scuola veneziana della prima metà del XVI secolo, ed è stata affronta­ta da molti maestri di questo ambiente, compreso Giovanni Bellini, al quale taluni riferiscono il dipinto di Boston. Sempre più difficile, invece, risulta mantenere l'attribuzione dei fregi in affresco della Casa di Giorgione di Castelfranco Veneto, raffiguranti le cosiddette Arti liberali e meccaniche (figg. 381, 382), che più studiosi hanno pensato di togliere dal catalogo del maestro (e problematico appare, in caso di un'eventuale attribuzione, il momento della loro realizzazione, che spazierebbe dal periodo giovanile a quello estremo). Non accettati come autografi sembrano essere anche il Triplo ritratto (fig. 383) dell'Institute of Arts di Detroit (forse del Palma),  il Guerriero con scudiero (fig. 384) degli Uffizi di Firenze, il Pastorello con flauto (fig. 385) delle Collezioni Reali di Hampton Court, l'Omaggio ad un poeta  (fig. 386) della National Gallery di Londra, il Concerto (cosiddetto Sansone deriso) (fig. 387) di collezione privata a Milano, la Madonna che legge al Bambino (fig. 388) dell'Ashmolean Museum di Oxford, la Leda con cigno (fig. 389) ed il Paride ritrovato del Museo Civico di Padova. Mentre sembra ormai certa la paternità ad altri artisti per dipinti come la Santa Maria Maddalena (fig. 390), già Firenze, collezione privata (data da taluni al Lotto, da altri al Pennacchi) o il Giudizio di Salomone (fig. 391), in collezione R. Bankes, Kingston Lacy, Wimburne, Dorsetshire, opera oramai data definitivamente a Sebastiano del Piombo.

  L'evoluzione artistica di Giorgione, a partire dalla seconda metà del decennio, si concentra sempre più a trattare figure e paesaggio come impressioni visive che si calano direttamente nelle immagini ottenute con le variazioni e gli accordi tonali del colore. Per giungere ad una resa massima di risoluzione dell'idea nel momento esecutivo, cioè nel momento stesso del dipingere, smorzando una nota calda con una fredda, abbassando o alzando i toni e così via, Giorgione arriva ad eliminare il disegno per dipingere solo col colore. E' un passo rivoluzionario, che conclude un lungo lavoro di "sperimentazione" del quale ne abbiamo esaminato una tappa con la lettura della Pala di Castelfranco. La Tempesta (figg. 392-395) delle Gallerie dell'Accademia di Venezia (ricordata dal Michiel in casa di Gabriele Vendramin), è forse una delle opere più esemplari a tal proposito. Al di là della comprensione del tema trattato (le cui interpretazione sono numerosissime), quest'opera, che senza le due figure in primo piano parrebbe quasi una "veduta", ha una profondità spaziale che non è da meno, ad esempio, di quella di un dipinto di Raffaello. Ma Raffaello ottiene la profondità creando uno schema compositivo basato su di una rigorosa, perfetta, prospettiva, delineata con la precisione del disegno; Giorgione, fa sparire il disegno, dipinge direttamente col colore, ottiene cioè la profondità spaziale solo attraverso le variazioni cromatiche e tonali. Le radiografie della tela lo confermano, mostrando inoltre come l'artista così facendo abbia mutato la composizione stessa del quadro mentre lo faceva: in una prima versione, al posto del pastorello alla sinistra, Giorgione aveva pensato un'altra figura femminile nuda (fig. 396). Nella Tempesta, la composizione non si concede all'occhio gradualmente, secondo le esigenze di una "storia" che viene rappresentata, nella quale pian piano si segue un racconto visivo con causa ed effetto. Qui, l'intera opera si dà nella sua interezza figurativa in un unico istante, quasi come in un'istantanea, che blocca anche il lampo nel cielo minaccioso. E' il colore che permette la creazione di questo miracolo, perché il colore coglie con la stessa importanza e nello stesso momento, variando solo nella tonalità, nell'intensità, nel cromatismo, tanto il particolare del primo piano quanto l'alberello o l'edificio più lontano, tanto l'uomo quanto la natura. Ed è appunto in questa relazione, verrebbe quasi da dire in questa fusione, tra uomo e natura che Giorgione costruisce la propria poesia, dando così vita all'opera con l'esperienza emotiva che va facendo mentre dipinge. Era un passo rivoluzionario, in forte contrapposizione col disegno-pittura tosco-romano, dove il colore "riempiva" le zone delineate dal disegno: il Vasari, infatti, non manca di coglierlo in tutta la sua novità, definendolo quella <<maniera mo­derna>> con la quale da' <<...l'anno circa 1507... cominciò a dare al­le sue opere più morbidezza e maggiore rilievo con bella maniera; u­sando non di meno di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori, e macchiarle con le tinte crude e dolci, secondo che il vivo mostrava, senza far disegno; tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi, senz'al­tro studio di disegnare in carta, fusse il vero e miglior modo di fare ed il vero disegno>>.

  Di questo secondo momento dell'attività del Giorgione vi è, come in precedenza, un ristretto numero di opere che la critica moderna, talvolta (raramente) su indicazioni anche delle pochissime fonti, assegna con certezza; altre rimangono ancora discusse e sovente assegnate ad altri maestri. Tra le opere riferite al pittore di Castelfranco, assieme all'unico disegno che concordemente tutti son propensi ad attribuirgli, la Veduta del castello di Montagnana (fig. 397) del Museum Boymans-van Beuningen di Rotterdam, si ricordano il cosiddetto Tramonto Donà (fig. 398) della National Gallery di Londra, lo straordinario capolavoro della Vecchia (figg. 399, 400) delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, il Cristo portacroce (figg. 401, 402) della Scuola Grande di San Rocco di Venezia, il Ritratto di armato (Ritratto di Gerolamo Marcello) (fig. 403) del Kunsthistorisches Museum di Vienna (ricordato dal Michiel in casa di Gerolamo Marcello e successivamente copiato ed inciso da David Teniers, che copiò in più occasioni alcune opere di Giorgione, o ad egli allora date, come ad esempio per la Giuditta - della quale ne esiste una versione simile di Vincenzo Catena conservata alla Querini Stampalia di Venezia - o per l'Orfeo, copiato in pittura nella versione della collezione Suida-Manning di New York, ed in incisione - fig. 404; in altre opere ancora, dipinte dal Teniers, s'intravedono dipinti del nostro, come nelle tele con l'Arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria di Bruxelles - fig. 405 - del Kunsthistorisches Museum di Vienna e con la Galleria di pittura dell'arciduca Leopoldo Guglielmo - fig. 406 - del Museo del Prado di Madrid).

  La decorazione ad affresco del Fondaco dei Tedeschi, a Venezia (fig. 407), edificio di­strutto da un incendio nel 1505, e ricostruito in breve tempo, fu af­fidata a Giorgione ed era, come annota il diarista Sanudo, in corso di esecuzione nell'agosto del 1508 (qualcuno ha supposto che i tedeschi avessero candidato il loro Dürer per l'esecuzione dell'intero ciclo). Il lavoro fu terminato l'8 novembre dello stesso anno (sebbene altri studiosi ne anticipano la conclusione di alcuni mesi). Il Dolce ci fa sapere che anche Tiziano colla­borò alla decorazione <<...affrescando la facciata sulla Merceria>>. La commissione a Tiziano fu, però, probabil­mente indipendente da quella di Giorgione. Giorgione affrescò, oltre a quelle interne, le facciate sopra il Canal Grande e sopra il rio, di­pingendovi fregi e vari gruppi di figure. Il Vasari, nella sua prima edizione delle Vite, ci riferisce che il Morto da Feltre <<...si mise a aiutarlo, facendo gli ornamenti di quell'opera>>. Questo ciclo, che fu la causa della cosiddetta "controversia" tra Giorgione e Tiziano (scoperti gli affreschi, ci informa il Dolce, che Tiziano <<vi fece una Giudit (fig. 408) mirabilissima di disegno e di colorito, a tale che, credendosi comunemente... che ella fusse opera di Giorgione, tutti i suoi amico seco si rallegravano come della miglior cosa di gran lunga ch'egli avesse fatto. Onde Giorgione, con grandissimo suo dispiacere, rispondeva ch'era di mano del discepolo... che Giorgione ebbe a dire, che Tiziano insino nel ventre di sua madre era pittore>>), rappresenta per la conoscenza dell'artista di Castelfranco un punto di riferimento fondamentale in quanto, assieme alla certezza dell'autografia e della data di esecuzione, ci aiuta a meglio comprendere la sua <<maniera mo­derna>>. Particolarmente problematica era comunque, già a metà del Cinquecento, la lettura tematica del testo pittorico raffigurato. Secondo le più accreditate interpretazioni, considerando il delicato momento politico dell'esecuzione, che sentiva prossima la minaccia dei grandi stati europei allora in confabulazione contro la Repubblica di San Marco, quelle immagini dovevano servire da monito ai fomentatori di attentati contro la Serenissima, oppure, e­saltare l'amicizia tra Venezia e la Germania. Gli affreschi, col tempo, andarono velocemente deteriorandosi e lo Za­netti, quando dette alla luce le sue Varie Pitture a Fresco de' Prin­cipali Maestri Veneziani, stampate a Venezia nel 1760 (dove sono riprodotti in incisioni alcuni brani di quelle pitture, tra le quali la Nuda - fig. 409 -, l'Uomo seduto ed il Nudo femminile seduto - fig. 410), ebbe la fortuna di am­mirarli, ed acutamente descriverli, in uno stato di conservazione che ancora ne permetteva una lettura piuttosto soddisfacente. A quell'epo­ca vi erano ancora brani poi scomparsi per sempre. Egli ne sottolineò, tra le sue molte altre preziose osservazioni, la poderosa colorazione fatta come un <<...gran fuoco... nell'ombre forti e nel soverchio ros­seggiar delle tinte>>. La sua incisione raffigurante la Nuda (fig. 409), riproduce di Giorgione l'unico affresco superstite del ciclo del Fondaco dei Tedeschi (fig. 411), oggi conservato, dopo lo strappo effettuato nel 1937, nelle Gallerie della Ca' d'Oro di Venezia. L'opera era collocata sulla fac­ciata del Fondaco tra la quinta e la sesta finestra a partire da sini­stra, subito sotto il cornicione. Forse un altro frammento degli affreschi del Fondaco può essere identificato nel Cupido (fig. 412) del Castello di Saltwood nel Kent.

  A questo ultimo periodo, gli vengono generalmente attribuiti pure il cosiddetto Autoritratto in veste di David (figg. 413, 414) dell'Herzog Anton Ulrich-Museum di Brunswick (anche se qualcuno lo pensa della cerchia del maestro), il Ritratto di giovane uomo (Ritratto di Vittore Cappello o di Antonio Broccardo) (fig. 415) del Szépmuvészeti Muzeum di Budapest e la splendida Venere (figg. 416, 417) della Gemaldegalerie di Dresda, ricordata in casa di Gerolamo Marcello dal Michiel, il quale ci fa sapere anche che <<lo paese et Cupidine forono finiti da Tiziano>>. Le radiografie, infatti, fanno vedere sotto ad una successiva ridipintura il Cupido, come mostra la ricostruzione del dipinto fatta dal Posse (fig. 418). La tela rappresenta quindi uno straordinario esempio della differenza tra la pittura del Giorgione e quella del primo Tiziano: tutta delicata poesia pastorale di sfumature tonali negli incarnati, per il primo; virile forza evocativa nel cuscino e nel drappo rigonfi di prepotente colore, per il secondo.

  Controversa è l'attribuzione al maestro di Castelfranco del famoso Concerto campestre (fig. 419) del Luovre di Parigi, opera nota anche col titolo di Pa­storale (soprattutto in antichità). Recentemente, come già in tempi più remoti, s'è tornati a pensare a Giorgione, sebbene in passato l'attribuzione sia stata sovente messa in dubbio e si sia più volte creduto opportuno riferire l'opera a Ti­ziano giovane o ad altro artista. Altri studiosi hanno proposto di riconoscere l'ideazione di Giorgione, ma con realizzazione solo parziale a causa della soprag­giunta morte, e quindi la conclusione da parte di Tiziano. Attribuzioni controverse riguardano, ad esempio, anche il dipinto raffigurante David con la testa di Golia (fig. 420) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, che è considerato una copia di un originale perduto. Mentre molti critici sono propensi a rifiutare, tra le altre, opere quali il Cantore appassionato (fig. 421) ed il Suonatore di Flauto (fig. 422) della Galleria Borghese di Roma, il Doppio ritratto (fig. 423) del Museo di Palazzo Venezia a Roma, il Ritratto di gentiluomo (fig. 424) della National Gallery di Washington (dato generalmente a Tiziano), la Venere e cupido (fig. 425) della National Gallery di Washington ed il Tempo e Orfeo (fig. 426) (detto anche l'Astrologo) della Phillips Collection di Washington.

  Durante il corso dei primi decenni del Cinquecento, in terra veneta, la pittura di Giorgione, soprattutto nelle tematiche trattate, ebbe un seguito vastissimo, al punto di poter parlare di "giorgionismo". Molti furono gli artisti che si ispirarono alla sua poesia o che da essa presero spunto per elaborazioni originali e di qualità (da Sebastiano del Piombo a Domenico Mancini, da Giulio Campagnola al Torbido, dal Cariani al Pennacchi, fino allo stesso Lotto, almeno in alcune opere). Tra questi pittori, bisogna inoltre cercare gli autori di tanti dipinti un tempo riferiti al maestro (e ricercare anche, oltre a quelli già conosciuti, coloro che, alla sopravvenuta morte dell'artista, ne finirono le opere). Tuttavia se artisti, come ad esempio Palma il Vecchio, furono geniali continuatori dei modi giorgioneschi (si vedano la Madonna in trono fra Santa Barbara e Santa Giustina e due committenti - fig. 427 -, della Galleria Borghese di Roma, la Madonna in trono e Santi - fig. 428 -, di Santo Stefano di Vicenza, o Le tre sorelle - fig. 429 -, della Gemaldegalerie di Dresda), tra i suoi "discepoli", Tiziano Vecellio fu certo colui che non solo colse l'eredità del maestro, ma la rinvigorì e la reinventò esaltando la potenza espressiva del colore, come già appare chiaro in opere giovanili quali l'Amor sacro e l'Amor profano (fig. 430) della Galleria Borghese di Roma o nel ciclo d'affreschi per la Scuola del Santo di Padova (si veda il Miracolo del neonato - fig. 431), dipinti a solo un anno di distanza dalla morte di Giorgione.

 

 

 

 

Alcune considerazioni su Giorgione

e sulla Pala di Castelfranco

di Marco Mondi

  Si riportano di seguito alcune considerazioni relative alla figura di Giorgione ed alla sua opera conservata a Castelfranco, emerse durante la preparazione del catalogo della mostra sulle Opere del­la Civica Collezione Museale, tenutasi alla fine dello scorso anno in città.

  La personalità di Giorgione, che fu indiscutibilmente riconosciuto na­tivo di Castelfranco (o del suo territorio) da tutta la critica del passato, rappresentò per la città, soprattutto nel corso del XIX seco­lo, un punto di onore e vanto tale da far sorgere tutta una letteratu­ra storico-critica locale, spesso alquanto romanzata, che ha voluto indagarne la genialità sotto ogni aspetto. Sul finire dell'Ottocento, il massimo tributo offerto all'artista dalla città fu certamente l'in­nalzamento del monumento del Benvenuti (del quale si darà un cenno veloce più sotto), in oc­casione della ricorrenza del quarto centenario della sua nascita, con tutti i festeggiamenti legati all'avvenimento. Tutto ciò rappresentò un ulteriore stimolo per incrementare l'attenzione rivolta al grande genio, già di per sé sempre alquanto feconda anche al di fuori di Ca­stelfranco. Quando pochi anni dopo si istituì il Museo cittadino per merito di Francesco Marta, ov­viamente particolare interesse fu rivolto da subito al raccogliere quanta più documentazione possibile intorno all'artista. Con gli anni, si formò un vero e proprio "archivio" di ogni genere, comprese le curiosità: dal souvenir alle copie di dipinti a quell'epoca ad egli riferiti, dalle fotografie ai libri, ai manoscritti che lo riguardavano e a do­cumentazioni di ogni sorta, fino a quella splendida raccolta di imma­gini sulle opere dell'artista, o giorgionesche, qual è l'album regala­to al Museo dal Bordigioni, del quale pure parleremo brevemente più avanti. Tra i carteg­gi più vecchi relativi al Museo che si sono conservati, non poche sono le lettere o i documenti in cui si fa menzione ad opere, allora ritenu­te del maestro, proposte per essere acquistate dal Comune (la documentazione ne permette la chiara individuazione di almeno tre). Accanto alla raccolta di una notevole bibliografia sull'artista, si è andata col tempo formando anche una discreta collezione di incisioni e stampe, formata da oltre una sessantina di fogli, che riproducono presunti ri­tratti (fig. 432), o autoritratti, di Giorgione nonché dipinti ad egli riferiti: di questi ultimi, la critica oggi ne riconosce come autografi ben po­chi.

  Durante i primi quattro decenni del nostro secolo, quando cioè il Museo a Castelfranco esisteva, nelle sue sale sono giunte diverse opere provenienti dalla collezione ottocentesca di Luigi Tescari (che meriterebbe un approfondito studio a parte), appassionato collezionista, soprattutto di dipinti, che poteva vantare una vastissima raccolta formata da oltre 370 opere dove figuravano, come risulta dal catalogo pubblicato nel 1875, secondo le attribuzioni di un tempo, nomi quali Mantegna, Carpaccio, Tiepolo, ed altri ancora, nonché, ovviamente, Giorgione. Di quest'ultimo, il catalogo, infatti, conta quattro opere, e più precisamente riporta: <<86. Testa al naturale coronata di lauro con espressione risentita. Alto 0:62 Largo 0:62 Ovale sopra un pezzo di muro. Giorgione>>, si tratta del frammento d'affresco strappato dal fregio della Casa di Giorgione; <<268. Ritratto con busto di persona grave risentita molto. Metà del naturale. Alto 0:34 Largo 0:25 In tela con cornice dorata. attribuito per tradizione a Giorgione.>>; <<328. Madonna Vergine seduta su alto trono col divino suo Figlio sulle ginocchia. Paesaggio non terminato con una torre ed una scala. Alto 0:80 Largo 0:65 In tela con cornice dorata. Barbarella detto il Giorgione.>>; <<340. Ritratto di donna con libro in mano in costume del secolo XIV. PREZIOSO RITRATTO. Mezza figura. Alto 0:40 Largo 0:38 In tela con cornice dorata a grande intaglio. Giorgione.>>; <<347. Ritratto di Madonna Laura del Petrarca. Alto 0:40 Largo 0:32 In tavola con cornice bianca. Scuola di Giorgione.>>. Ma, al di là delle attribuzioni ottocentesche oggi sicuramente insostenibili se le opere fossero rintracciate (dello strappo dal fregio di Casa Giorgione si conosce l'ubicazione), la notizia più interessante emerge  proprio a riguardo della Pala, con l'opera descritta al n. 328 (negli anni Trenta risulta in una collezione privata di Venezia), che deve probabilmente essere stata una copia antica, allora però ritenuta di mano del maestro. Così, infatti, si legge nella presentazione del catalogo: <<Ebbe il Tescari la ventura di poter divenire possessore di un dipinto ch'è ritenuto dagli intelligenti la prima idea di quest'opera insigne. Sebbene in esso non vi sia che la Madonna col Bambino e vi manchino quindi i due Santi che si veggono ai lati, le dimensioni delle figure sono le stesse, e vi scorge soltanto qualche diversità nelle pieghe e nel fondo, il colorito è bellissimo>>. Un'altra copia antica della Pala era conservata in una chiesa non lontano da Castelfranco.

  Ancora, tra le altre opere raccolte dal Museo, si ricorda una curiosa incisione ottocentesca raffigurante la Pala del Duomo (fig. 433) ed uno splendido album contenente una raccolta di immagini sull'opera di Giorgione. Album  commissionato dal dott. Giovanni Bordigioni, probabilmente nel 1895, all'edi­tore e fotografo di Venezia Ferdinando Ongania. Fu certamente l'Ongania a commissionare a sua volta al giovane Zaccaria Dal Bò, gli acquerelli contenuti nella raccolta e raffiguranti gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi; acquerelli eseguiti probabilmente subito dopo l'intervento di consolidamento delle pitture fatto alla fine del secolo scorso. Autore, invece, della stesura delle scritte, delle miniature e dei disegni a penna fu V. Scarpa. Il dott. Bordigioni commissionò l'opera con l'in­tento esplicito di donarla al neo-nato Museo cittadino, come attesta la dedica fatta scrivere sulla facciata n. 9: <<Alla / sua città natia / di / Castelfranco / per / l'incipiente Museo Comunale / fondato nell'anno 1889 / dal / D.r Francesco Marta / il Dottor / Giovanni Bor­digioni / dedica>>. Recuperato in occasione della mostra, esso viene menzionato in alcune documentazioni del Museo conservate in Biblioteca, compreso lo scam­bio epistolare del 1934 tra lo studioso di Giorgione George M. Richter e l'allora conservatore cav. Elia Favero. Il volume è riccamente rilegato, ad opera della legatoria veneziana V. De Toldo, con una copertina lavorata ad incisione e decorata in oro a motivi fitomorfi e stilizzati, con lo stemma di Castelfranco sul da­vanti ed il Leone marciano sul di dietro. Esso contiene 72 fogli in cartoncino biancastro con le facciate occupate come segue: facciata n. 2, disegno a china con il ritratto di Giorgione tratto dall'opera di Carlo Ridolfi; facciata n. 3, fron­tespizio; facciata n. 7, altro titolo; facciata n. 8, timbro e firma di Ferdinando Ongania; facciata n. 9, dedica; facciata n. 11, veduta  di Venezia, disegnata a china, tratta da una stampa del XV secolo e, scritto a mano, brano tratto dal dramma di P. Cossa "Cecilia", atto I, scena IV; facciata n. 12, continuazione del brano suddetto e sotto disegno ad acquerelli con Leone marciano; facciata n. 13, disegno a china raffigurante la ve­duta delle mura di Castelfranco nel suo lato meridionale (il disegno è tratto dalla foto posta sulla facciata n. 113) e altro brano scritto a mano tratto dal suddetto dramma; facciate nn. 15 e 16, indice; faccia­ta n. 17, scritta; facciata n. 19, fotografia incollata della Pala di Castelfranco; facciata n. 20, la scritta, a mano, <<Vieni Cecilia / Vieni t'affretta / Il tuo t'aspetta / Giorgio...>>; facciate nn. 21, 23 e 25, cromolitografie incollate raffiguranti particolari della Pala di Castelfranco; facciata n. 27, fotografia incollata di un dettaglio della pianta di Venezia di Jacopo de' Barbari; facciata n. 29, foto­grafia incollata del prospetto della cosiddetta "Casa di Giorgione" a San Silvestro in Venezia; facciata n. 31, fotografia incollata del prospetto sul Canal Grande del Fondaco dei Tedeschi; facciata n. 33, acquerello di Zaccaria Dal Bò raffi­gurante la Nuda di Giorgione (fig. 434); facciata n. 34, acquerello di Zaccaria Dal Bò raffigurante la parte degli affreschi di Tiziano dipinti sulla facciata sopra l'attuale calle del Fontego dell'omonimo edificio veneziano (fig. 435); facciata n. 35, altro acque­rello dello stesso autore con altro particolare degli affreschi di quest'ultima facciata del Fondaco (fig. 436); facciata n. 36, come sopra (fig. 437); facciate dispari di destra nn. 37-109, n. 38 fotografie incollate raffiguranti opere di Giorgione, o ri­tenute allora di Giorgione (una delle foto è un particolare dell'opera riprodotta alla pagina precedente; alla facciata n. 59 vi sono incol­late due foto); facciata n. 111, due acquerelli, probabilmente di Zac­caria Dal Bò, eseguiti su due fogli di carta in­collati alla pagina e raffiguranti la parte allora conosciuta dei fre­gi della Casa di Giorgione a Castelfranco (fig. 438); facciate nn. 113, 115 e 117, fotografie incollate con vedute di Castelfranco; facciata n. 117, fotografia incollata del Monumento al Giorgione del Benvenuti; faccia­te nn. 121 e 122, firme; facciata n. 141, stemma disegnato ad acque­rello di Ferdinando Ongania e sotto: <<VENEZIA / M.DCCC.XCVI>>; fac­ciata n. 142, la seguente scritta: <<Miniature, disegni a penna, scrittura di V. Scarpa>>. Le fotografie sono per la maggior parte scatti Anderson ed Alinari. L'importanza dell'album, oltre a rappresentare una testimonianza sto­rica della conoscenza che allora si aveva sull'opera di Giorgione e dell'estremo interesse che i cittadini più illustri della città e, ovviamente, il Museo riservavano al grande genio del Cinque­cento, consiste nella documentazione fornita dagli acquerelli di Zaccaria Dal Bò. Essi, infatti, riproducono al completo gli affreschi di Tiziano allora visibili sulla facciata del Fondaco verso la Merce­ria e, certo con l'interpretazione dell'artista che li copiò, il valo­re cromatico di quell'opera; così come l'acquerello alla facciata n. 33 evidenzia il cromatismo allora visibile nella Nuda, l'unico degli affreschi copiati eseguito da Giorgione. Il ciclo commissionato dalla Serenissima a Tiziano nel 1508 subì, anche se in misura minore rispet­to a quello di Giorgione, un rapido degrado. Prima del 1967, la criti­ca aveva dato per irrecuperabile ogni traccia di questa decorazione, a causa anche dei materiali usati nell'intervento di restauro della fine degli anni Trenta del nostro secolo, che aveva portato all'annerimento pressoché totale dei brani superstiti. Nel 1967, a cura della Soprin­tendenza alle Gallerie e Opere d'Arte di Venezia, i frammenti furono strappati e trasferiti alle Gallerie dell'Accademia. In occasione della mostra Giorgione a Venezia, tenuta alle Gallerie dell'Accademia nel 1978, venne ricostruito il ciclo degli af­freschi superstiti di Tiziano al Fondaco. Rispetto a quella ricostruzione i nostri acquerelli mo­strano più frammenti: soprattutto per la parte del fregio che corre sotto la teoria delle finestre; qua e là qualche piccolo brano per la decorazione dipinta sopra le finestre e negli inter-spazi esistenti tra di esse; mentre risulta chiaramente più leggibile di quanto non lo sia oggi la figura del Compagno della calza (l'ultimo a destra del ci­clo), strappato nel 1937 assieme alla Nuda di Giorgione. Infine, è in­teressante notare come, per quel che riguarda la parte dei fregi allo­ra visibile nella Casa di Giorgione di Castelfranco, il secondo acque­rello incollato sulla facciata n. 111 presenti una qualche differenza, rispetto alla situazione attuale, nella testa dipinta tra le due ta­belle con i motti in latino.

  Al Museo si conservava appesa ad una parete, tra le altre opere, anche la pietra tombale di Matteo Costanzo.

  Tra le documentazione relative al Museo, vi sono degli scritti che chiariscono alcune vicende passate dalla Pala nel secolo scorso o che ad essa si riferiscono. Da questi documenti si desume che fu su iniziativa di Francesco Trevisan, medico castellano e un personaggio di notevole rilievo per la città, che la pala del Giorgione, portata in casa sua, venne restaurata nel 1831 da Giuseppe Gallo Lorenzi. Quest'ultimo fu aiutato da un certo Dal Moro (altre fonti parlano di un Dal Negro), che ne effet­tuò la parchettatura. Secondo quanto precisa il Valcanover, infatti, fu il Gallo Lorenzi a dipingere il tempietto di gusto neoclassico sul paesaggio alla destra del trono della Madonna. Aggiunta rimossa dal Pelliccioli nel 1934. E' il Crico a farne per primo menzione in una lettera del 5 ottobre 1831: <<...deh! se voi aveste veduto, o signore, questa tavola, giorni fa, in casa del dottor Francesco Trevisan, dove il valoroso pittore Lorenzi ne fece lodatis­simo restauro, voi ne l'avreste creduta una miniatura in avorio, da rilevarne un lavoro sì diligente che nulla più. Quegli alberi fronzuti d'intorno al castello, quelle piante bellissime d'accosto al tempiet­to, fra le quali esce il suo frontespizio elegante, pareano muovere le fronde...>>. Vale la pena rilevare che sempre il Crico, nel 1822, parlando della pala così scrive: <<...il vaghissi­mo paesaggio ch'è nell'indietro, con un castello da un lato, e chie­setta con campanile dall'altro...>>. Ciò sta a significare che il tempietto dipinto dal Gallo Lorenzi si sovrappo­neva ad una preesistente chiesetta con campanile, la stessa probabil­mente che si vede nella litografia che riproduce la Pala a cui su si è accennato. Ancora in relazione al restauro del Gallo Lorenzi, il Pedrocco, nel 1978, sostiene che la scritta (<<Cara Cecilia / vieni t'affretta / il tuo t'aspetta / Giorgio Barbarella>>) rinvenuta sul verso della tavola del Giorgione in occasione del restauro del 1803, e non trovata al tempo del restauro del Pellicioli (1934), fu fatta scompa­rire con la parchettatura della tavola effettuata nel 1831. Tuttavia, tra le lettere relative al Museo con­servate in Biblioteca, se ne conserva una di Domenico Moresco, datata 3 febbraio 1896, la quale attesta che la scritta era visibile anche in occasione dell'allora ultimo restauro, quindi quello del 1851-52 fatto da Paolo Fabris d'Alpago, e riporta alcune interessanti osservazioni: <<Dichiaro con tutta sicurezza, che le testuali parole che vidi con i miei propri occhi dietro la Palla del Giorgione nell'occasione del suo ultimo ristauro affidato al ben compianto Dottor Sebastiano Guidozzi in allora fabbriciere del Duomo, sono le seguenti: Vieni Cecilia / Vieni t'affretta / Il tuo t'aspetta / Giorgio... (e  null'altro). Nell'occasione poi del Monumento del Medesimo fui io che feci il pos­sibile onde Augusto Benvenuti ve le scrivesse di sotto la tavolozza. Ricordo che il defunto D. Giuseppe V. Bianchetti volle di sua testa farvi aggiungere la parola (Barbarella) che nella Palla non esisteva. Che possano essere state raschiate non lo ammetto neppure, perché an­che non fossero di proprio pugno del Giorgione, nessuno potrà asserir il contrario. Un altro testimonio potrebbe essere il Cavaliere D. Giu­seppe Ferrarini, il quale a par di me abitava in casa dell'Avvocato Guidozzi...>>. In un'altra lettera, conservata sempre in Biblioteca a Castelfranco, scritta da Francesco Marta il 5 febbraio 1896, si preci­sa infine: <<Il Signor Arciprete Luigi Camavitto di qui dichiara: che quando il quadro del Giorgione esistente nel Coro del Duomo, fu infis­so nel muro d'ordine del Municipio, fu eseguito un lavoro straordina­rio per assicurarvelo mediante ferri stabili e che a tergo fu coperto d'una lamina pure di ferro e poiché questa non poteva adattarsi bene a causa dell'irregolarità della tavola (contenente il dipinto) si usò purtroppo la pialla nella superficie della tavola medesima e (secondo lo stesso Arciprete) distruggendo quasi tutte le parole che vi aveva segnato col pennello il sommo nostro Artista>>.

  Al di fuori dei suoi impegni istituzionali, il Museo svolse un ruolo di notevole importanza nei riguardi dell'opera del Giorgione conservata al Duomo prima dello scoppio della guerra, quando venne deciso il suo traspor­to, tra una vera e propria sommossa popolare, prima a Vicenza e poi a Roma, <<...nei forzieri dello Sta­to>>. Per paura che il dipinto non potesse più far ritorno in città, infatti, la popolazione di Castelfranco ebbe una focosa reazione, al punto che il trasposto dell'opera fu organizzato in sordina, affinché fosse fatto senza <<...suscitare alcun rumore in paese>>. Inizialmente l'opera doveva essere portata a Venezia per essere sottopo­sta a restauro, poi, per motivi di sicurezza dovuti allo scoppio della guerra, fu portata altrove. Tuttavia, la promessa che <<...sarà resti­tuita non appena saranno cessate le attuali condizioni [l'evento bel­lico] che ne hanno consigliato il temporaneo allontanamento>>, dovette preoccupare non poco le autorità cittadine, le quali decisero di affi­dare tutto un esemplare del fascicolo della corrispondenza relativa al conservatore del Museo <<...affinché sia informato in modo completo di quanto riguarda tale asportazione e voglia conservarle per memoria ed eventuale rivendicazione al momento opportuno>>. Era il riemergere della stessa antica paura che aveva contribuito a far nascere i musei civici quando, di fronte all'accentramento dello stato unitario, che avrebbe voluto la collocazione dei massimi capolavori dell'arte ita­liana nei musei di stato, la periferia rischiava di perdere i propri beni più preziosi, icone di un'identità culturale autoctona mai dimen­ticata.

  Per quel che riguarda il Monumento al Giorgione, il Consiglio Comunale, costituendo un apposito comitato, ne deliberò nel 1876 l'erezione in occasione dei quattro­cento anni dalla nascita dell'artista. In Biblioteca a Castelfranco si conserva un ricco carteggio (anche tra gli "Autografi") a tal proposi­to. L'inaugurazione, per difficoltà insorte e non previste dalla Giun­ta Municipale e dal Comitato, fu rinviata dal settembre 1877, come i­nizialmente era stato previsto, al 1878. Vi furono diversi artisti che mostrarono il desiderio di concorre alla gara indetta ma, alla fine, parteciparono solo tre scultori: Augusto Benvenuti, Luigi Borro e Do­menico Stradiotto. Ogni artista presentò dei bozzetti. Il Benvenuti ne espose due, uno dei quali ancora oggi conservato nella Raccolta comunale, che è una variante dell'altro, poi eseguito: nel primo, il Giorgione, la cui immagine venne suggerita dal soldato della Tempesta, è raffigurato nell'atto di disegnare a matita; nell'altro, è figurato mentre dipinge con pennelli e tavolozza in mano: sul piedistallo era inizialmente previsto un put­to, genio della pittura e paggio ad un tempo, in atto di arrampicarsi su per i gradini con in mano gli emblemi della pittura e lo stemma del Municipio. Anche lo Stradiotto presentò due modelli, uno per essere eseguito in bronzo, l'altro in marmo. Il Borro, allora artista accla­mato, ne presentò solo uno, ma chiese per la sua esecuzione una somma quasi doppia rispetto agli altri, cosa che comportò quasi subito la sua automatica esclusione. Le opere furono esposte nel corso del 1877 nelle sale del Municipio affinché il pubblico le potesse vedere e giu­dicare. Il Comitato, prima di scegliere, sentì il consiglio di alcuni riconosciuti esperti, gran parte dei quali espressero parere favorevo­le nei confronti del Benvenuti, artista dotato ma allora ancora poco conosciuto. Nella primavera del 1877 il bozzetto del Benvenuti venne approvato vincitore, e allo scultore fu commissionata l'esecuzione della statua da farsi in marmo, dopo aver modellato un bozzettone in gesso a grandezza definitiva, che è quello oggi conservato in Munici­pio. Per la scelta dell'ubicazione del Monumento venne costituita una appo­sita commissione composta dal cav. Antonio Negrin di Vicenza, dal dottor Gaspare Polese e dallo stesso Benvenuti. Questa, dopo aver va­lutato a lungo ogni possibilità, scelse l'area in cui il Monumento tutt'oggi sorge. Fu quindi presentata una relazione con i relativi progetti e disegni di dove e come collocare la statua, compresi quelli per la sistemazione dell'isolotto in roccia circondato dall'acqua del fossato, appositamente pensato dall'architetto Negrin. La proposta fatta dalla commissione fu approvata dal Municipio. L'inaugurazione avvenne nella mattina di sabato 5 ottobre 1878, e coll'occasione vennero allestiti tutta una serie di paralleli festeggiamenti tra cui una gara al tiro a segno con vari doni posti in palio: come primo premio figurava una statua al na­turale, offerta dal Benvenuti, di una bambina intitolata L'ambizione. Contemporaneamente all'inaugurazione si collocava nel Municipio la la­pide commemorativa per i caduti nelle patrie battaglie. Come già detto, nei su menzio­nati incartamenti, si conserva una lettera di Domenico Moresco, datata 3 febbraio 1896, che attesta quanto segue: <<Nell'occasione poi del Monumento del Medesimo fui io che feci il possibile onde Augusto Ben­venuti ve le scrivesse [le parole "Cara Cecilia / vieni t'affretta / il tuo t'aspetta / Giorgio Barbarella] di sotto la tavolozza. Ricordo che il defunto D. Giuseppe V. Bianchetti volle di sua testa farvi ag­giungere la parola (Barbarella) che nella Palla non esisteva>>.

 

 

 

ELENCO DELLE OPERE CITATE NEI TESTI:

 

Fig. 345: GIOVANNI BELLINI, Madonna in trono con Bambino e Santi, Venezia, Chiesa di San Zaccaria. Fig. 346: GIOVANNI BELLINI, Madonna col Bambino benedicente,Milano, Brera. Fig. 347: GIOVANNI BELLINI, Donna nuda allo specchio,Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 348: GENTILE BELLINI, Ritratto di Caterina Cornaro,Budapest, Szépmuvészeti Muzeum. Fig. 349: ALBRECHT DURER, Ritratto di donna, Berlino, Staatliche Museen. Fig. 350: ALBRECHT DURER, Gesù fra i dottori, Lugano, collezione Thyssen. Fig. 351: MARTIN SCHONGAUER, Madonna col Bambino, incisione. Fig. 352: FRANCESCO FRANCIA, Madonna e Santi, Bologna, Pinacoteca; GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,Castelfranco Veneto, Duomo; LORENZO COSTA, Madonna e Santi, Bologna, Chiesa di San Petronio; LORENZO COSTA, San Petronio e Santi, Bologna, Pinacoteca. Fig. 352bis: Ritratto di Giorgione, dal Vasari. Fig. 353: GIORGIONE e pittore dell'inizio del sec. XVI, Prova di Mosè, Firenze, Uffizi. Fig. 354: GIORGIONE e pittore dell'inizio del sec. XVI, Prova di Mosè, part. Fig. 355: GIORGIONE e pittore dell'inizio del sec. XVI, Prova di Mosè, part. Fig. 356: GIORGIONE e pittore dell'inizio del sec. XVI, Giudizio di Salomone, Firenze, Uffizi. Fig. 357: GIORGIONE e pittore dell'inizio del sec. XVI, Giudizio di Salomone,part. Fig. 358: GIORGIONE, Giuditta con la testa di Oloferne,Pietroburgo, Museo dell'Ermitage. Fig. 359: GIORGIONE, Giuditta con la testa di Oloferne, part. Fig. 360: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,Castelfranco Veneto, Duomo. Fig. 361: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,part. Fig. 362: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,part. Fig. 363: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,part. Fig. 364: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi,part. Fig. 365: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi, alzatoe pianta secondo la ricostruzione del Bellavitis. Fig. 365bis: MAISTRO ZUANE BEGHETTO, planimetria e sezione della "chiesa vecchia" di Castelfranco Veneto. Fig. 365ter: GIORGIONE, La Madonna in trono tra Santi, zone interessate dai restauri e dalle ridipinture. Fig. 366: pietra tombale di Matteo Costanzo, Castelfranco Veneto, Duomo. Fig. 367: GIORGIONE, Adorazione dei Magi, Londra, National Gallery. Fig. 368: GIORGIONE, Adorazione dei Magi, part. Fig. 369: GIORGIONE, Sacra Famiglia Benson, Washington, National Gallery. Fig. 370: GIORGIONE, l'Adorazione dei Pastori Allendale, Washington, National Gallery. Fig. 371: GIORGIONE, l'Adorazione dei Pastori Allendale, part. Fig. 372: GIORGIONE, Ritratto Giustiniani,Berlino, Gemaldegalerie. Fig. 373: GIORGIONE, Ritratto Terris, San Diego, Museum of Art. Fig. 374: GIORGIONE e SEBASTIANO DEL PIOMBO ?, I tre Filosofi, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 375: GIORGIONE e SEBASTIANO DEL PIOMBO ?, I tre Filosofi, part. Fig. 376: GIORGIONE, Laura, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 377: GIORGIONE, Laura, part. Fig. 378: GIORGIONE, l'Eros con freccia, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 379: GIORGIONE ?, Le tre età dell'Uomo, Firenze, Palazzo Pitti. Fig. 379bis: GIORGIONE ?, Le tre età dell'Uomo, part. Fig. 380: GIOVANNI BELLINI ?, Cristo portacroce, BOSTON, Isabella Stewart Gardner Museum. Fig. 381: pittore degli inizi del sec. XVI, Arti liberali e meccaniche,part., Castelfranco Veneto, Casa di Giorgione. Fig. 382: pittore degli inizi del sec. XVI, Arti liberali e meccaniche,part., Castelfranco Veneto, Casa di Giorgione. Fig. 383: PALMA IL VECCHIO ?, Triplo ritratto, Detroit,Institute of Arts. Fig. 384: pittore del sec. XVI, Guerriero con scudiero, Firenze, Uffizi. Fig. 385: pittore del sec. XVI, Pastorello con flauto, Hampton Court, Collezioni Reali. Fig. 386: pittore del sec. XVI, Omaggio ad un poeta, Londra, National Gallery. Fig. 387: pittore del sec. XVI, Concerto (cosiddetto Sansone deriso), Milano, collezione privata. Fig. 388: GIORGIONE ?, Madonna che legge al Bambino, Oxford, Ashmolean Museum. Fig. 389: pittore del sec. XVI,  Leda con cigno, Padova, Museo Civico. Fig. 390: PENNACCHI, Santa Maria Maddalena, già Firenze, collezione privata. Fig. 391: SEBASTIANO DEL PIOMBO, Giudizio di Salomone, prima e dopo il restauro, collezione R. Bankes, Kingston Lacy, Wimburne, Dorsetshire. Fig. 392: GIORGIONE, Tempesta, Venezia, Gallerie dell'Accademia. Fig. 393: GIORGIONE, Tempesta, part. Fig. 394: GIORGIONE, Tempesta, part. Fig. 395: GIORGIONE, Tempesta, part. Fig. 396: radiografia della Tempesta. Fig. 397: GIORGIONE, Veduta del castello di Montagnana,Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen. Fig. 398: GIORGIONE, Tramonto Donà,Londra, National Gallery. Fig. 399: GIORGIONE, Vecchia,Venezia, Gallerie dell'Accademia. Fig. 400: GIORGIONE, Vecchia,part. Fig. 401: GIORGIONE ?, Cristo portacroce, Venezia, Scuola Grande di San Rocco. Fig. 402: GIORGIONE ?, Cristo portacroce,part. Fig. 403: GIORGIONE, Ritratto di armato (Ritratto di Gerolamo Marcello), Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 404: DAVID TENIERS, Giuditta, incisione; VINCENZO CATENA, Giuditta, Venezia, Querini Stampalia; DAVID TENIERS, Orfeo, incisione; DAVID TENIERS, Orfeo, New York, collezione Suida-Manning. Fig. 405: DAVID TENIERS, L'Arciduca Leopoldo Guglielmo nella sua Galleria di Bruxelles,Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 406: DAVID TENIERS, Galleria di pittura dell'arciduca Leopoldo Guglielmo, Madrid, Prado. Fig. 407: ricostruzione della facciata sul Canal Grande del Fondaco dei Tedeschi a Venezia. Fig. 408: TIZIANO, Giuditta, Venezia, Ca' d'Oro. Fig. 409: ANTON MARIA ZANETTI, Nuda, incisione, da Giorgione. Fig. 410: ANTON MARIA ZANETTI, Uomo seduto e Nudo femminile seduto, incisione, da Giorgione. Fig. 411: GIORGIONE, Nuda, Venezia, Ca' d'Oro. Fig. 412: GIORGIONE ?, Cupido,Kent, Castello di Saltwood. Fig. 413: GIORGIONE ?, Autoritratto in veste di David, Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Museum. Fig. 414: GIORGIONE, Autoritratto in veste di David,part. Fig. 415: GIORGIONE, Ritratto di giovane uomo (Ritratto di Vittore Cappello o di Antonio Broccardo), Budapest, Szépmuvészeti Muzeum. Fig. 416: GIORGIONE e TIZIANO, Venere, Dresda, Gemaldegalerie. Fig. 417: GIORGIONE e TIZIANO, Venere,part. Fig. 418: ricostruzione della Venere fatta dal Posse. Fig. 419: GIORGIONE ?, Concerto campestre,Parigi, Louvre. Fig. 420: GIORGIONE (copia da ?), David con la testa di Golia,Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 421: pittore del sec. XVI, Cantore appassionato, Roma, Galleria Borghese. Fig. 422: pittore del sec. XVI, Suonatore di Flauto,  Roma, Galleria Borghese. Fig. 423: pittore del sec. XVI, Doppio ritratto, Roma, Palazzo Venezia. Fig. 424: TIZIANO, Ritratto di gentiluomo, Washington, National Gallery. Fig. 425: pittore del sec. XVI, Venere e cupido, Washington, National Gallery. Fig. 426: pittore del sec. XVI, Tempo e Orfeo, Washington, Phillips Collection. Fig. 427: PALMA IL VECCHIO, Madonna in trono fra Santi, Roma, Galleria Borghese. Fig. 428: PALMA IL VECCHIO, Madonna in trono e Santi, Vicenza, Santo Stefano. Fig. 429: PALMA IL VECCHIO, Le tre sorelle, Dresda, Gemaldegalerie. Fig. 430: TIZIANO, Amor sacro e l'Amor profano, Roma, Galleria Borghese. Fig. 431: TIZIANO, Miracolo del neonato, dal ciclo di affreschi con I miracoli di Sant'Antonio, Padova, Scuola del Santo. Fig. 432: VICTOR PILANUS (?), Ritratto di Giorgione,Castelfranco Veneto, Biblioteca Comunale. Fig. 433: G.B., La Madonna in trono tra Santi,incisione, Castelfranco Veneto, depositi del Museo Civico. Fig. 434: ZACCARIA DAL BO', Nuda (dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di Giorgione), Castelfranco Veneto, depositi del Museo Civico. Fig. 435: ZACCARIA DAL BO', dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di Tiziano, Castelfranco Veneto, dep. Museo Civico. Fig. 436: ZACCARIA DAL BO', dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di Tiziano, Castelfranco Veneto, dep. Museo Civico. Fig. 437: ZACCARIA DAL BO', dagli affreschi del Fondaco dei Tedeschi di Tiziano, Castelfranco Veneto, dep. Museo Civico. Fig. 438: ZACCARIA DAL BO' (?), dal fregio cosidedetto delle Arti liberali e meccaniche della Casa di Giorgione di Castelfranco Veneto, Castelfranco Veneto, depositi del Museo Civico.

 

 

Bibliografia usufruita:

 

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Senza data: BCCV, AMCCV, Carteggi relativi alla documentazione del Museo. BCCV, AMCCV, Dallan G. (?), Museo Civico, documentazione Museo. BCCV, AMCCV, Inventario provvisorio del Museo di Castelfranco Veneto. BCCV, AMCCV, Registro degli Inventari, Inventario dei beni mobili de­maniali del Comune di Castelfranco Veneto. BCCV, Registri generali cronologici d'entrata. BCCV, Camavitto L., Castelfranco e il suo Distretto, Illustrazione storico-artistica, [sec. XIX], 3 fascicoli, ms. 157 0-3/5, 12 577, 74 734, 74 735 R.I.

Elenco delle abbreviazioni: BCCV = Biblioteca Comunale di Castelfranco Veneto. AMCCV = Archivio Museo Civico di Castelfranco Veneto. ACCV = Archivio Comunale di Castelfranco Veneto.

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