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GIORGIO DARIO PAOLUCCI (Venezia, 1926), Paesaggio di Castelfranco, prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo circa, olio su tela, cm 51 x 70.

GIORGIO DARIO PAOLUCCI (Venezia, 1926), Paesaggio di Castelfranco, prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo circa, olio su tela, cm 51 x 70 (non più disponibile).

STUDIO MONDI DIPINTI ANTICHI E MODERNI, dott. FABIO MONDI (antichi), dott. MARCO MONDI (moderni), Galleria d'arte, antichità ed antiquariato, Corso XXIX Aprile, 7, 31033 Castelfranco Veneto (TV)   Italia, tel. 0423/723110, 0347/8158124, 0368/7311457, fax 0423/723110, ore: 10.00 - 12.30, 16.00 - 19.30, chiuso domenica e lunedì mattina, e-mail: studiomondi@tiscalinet.it - E' iscritto all'Associazione Trevigiana Antiquari.

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GIORGIO DARIO PAOLUCCI (Venezia, 1926), Paesaggio di Castelfranco, prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo circa, olio su tela, cm 51 x 70.

GIORGIO DARIO PAOLUCCI (Venezia, 1926), Paesaggio di Castelfranco, prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo circa, olio su tela, cm 51 x 70 (non più disponibile).

 

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GIORGIO DARIO PAOLUCCI (Venezia, 1926), Paesaggio di Castelfranco, prima metà degli anni Cinquanta del XX secolo circa, olio su tela, cm 51 x 70 (non più disponibile).

Alla XXVII Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia del 1954 (cfr. cat, 3^ ed., Venezia, 1954, p. 109), Giorgio Dario Paolucci espose quattro opere, tra le quali risulta un Paesaggio di Castelfranco (id. opus A.S.A.C. 309519), che dovrebbe poi essere quello pubblicato a colori nella monografia dedicatagli nel 1964 (cfr. Giorgio Dario-Paolucci, dal 1943 al 1963, Rebellato Editore, Padova, 1964, tav. IV, p. 75) col titolo La terra e che in quell’occasione ne fu tratta anche una cartolina a colori nel cui verso si riporta, oltre al titolo, la datazione (1954), la tecnica (olio su tela) e le misure (cm 60 x 80), anche la partecipazione alla XXVII edizione della Biennale di Venezia e l’assegnazione, in quell’occasione, del Premio O. Soppelsa. Si precisa, comunque, che alla Biennale di Venezia del 1958 Paolucci espose un altro dipinto intitolato La terra (cfr. cat, 3^ ed., Venezia, 1958, p. 137, id. opus A.S.A.C. 319984). Nonostante nel Paesaggio di Castelfranco su menzionato sullo sfondo s’intraveda il profilo della cinta muraria cittadina e presenti alcune varianti compositive e cromatiche, il dipinto qui preso in esame può certamente essere messo in relazione a quell’opera ed esserne considerato un’altra versione, artisticamente altrettanto forte ed espressiva. Entrambe le opere sono sostanzialmente dei notturni e la dilagante espressività che investe le tele è tutta giocata su tonalità blu-verde-marronastre che conferiscono all’opera un’omogeneità quasi monocromatica e che pure, però, vive di una resa luministica straordinaria, fatta di mille tonalità che fluiscono dall’orizzonte come una cascata di lava fluida che scorre violenta a invadere lo spazio psicologico di chi guarda. Anzi, bisogna dire che nell’opera qui presa in esame, questa sensazione di “invadenza vulcanica” verso lo spettatore è ancora più accentuata rispetto all’opera esposta alla Biennale e questo proprio grazie alla linea d’orizzonte qua ben più alta rispetto all’altra tela, dove tale linea è posta poco sopra la metà orizzontale del dipinto, placando pertanto quell’irruenza della materia che qua pare quasi voglia travolgere e uscir fuori dai limiti fisici della composizione. La pennellata con cui è tratto il paesaggio è una pennellata d’azione, gestuale, lunga e decisa, rapida, trascinante anche là dove si segmenta o si fa sinuosa; e la sua virilità allucinata trasforma la “veduta” in una sorta di incubo visivo violento e invadente al punto che, pure ogni riferimento alle opere di Edvard Munch (che qui ben si può fare) o alle opere dell’Espressionismo tedesco d’avanguardia e degli anni Cinquanta, è del tutto superato da una interpretazione che s’è fatta tutta veneta, sua, perché tanto il gesto pittorico che plasma il colore quanto lo stesso cromatismo che nelle tonalità scure pur si fa, anzi, s’infuoca di luce, è voluto per portar quasi all’ultimo stadio una evoluzione del paesaggio veneto che ha la sua origine in Giorgione e che qui par quasi venga distorta, sporcata, stravolta in un modo alquanto analogo a quanto ha fatto Francis Bacon con i ritratti di papa Innocenzo X. Là quanto qua, la distorsione vuol essere anche denuncia. Tra i giovani che allora frequentavano l’innovato ambiente artistico veneziano, vi erano, con molteplici sfumature e differenze, quelli che vollero rimanere legati al "figurativo" e quelli che si staccarono da esso, virando verso forme "astratte". Le ricerche degli uni, però, non poterono mai prescindere da quelle degli altri. Paolucci fu sempre fedele al figurativo, anche nelle sue composizioni più allucinate, com’è questa, e la sua poetica mantenne sempre un continuo contatto e rapporto dialettico diretto con la natura. Natura che va intesa nel senso dell'essere un tutt'uno con l'uomo. Quella natura rurale veneta antica, atavica, an­cestrale, che per secoli l'uomo ha modificato ma, nell'inseparabile sofferto e sudato rapporto, ha modellato e formato l'uomo stesso. In questo senso Paolucci coglie uno dei caratteri più profondi e rappre­sentativi della civiltà veneta; di quella civiltà veneta che s'è sem­pre occultata dietro le glorie della Serenissima, ma che al raggiun­gimento di quelle glorie ha contribuito senza sosta quale parte silen­ziosa e discreta, integrante, impossibile da scindere da quella che fu, per seco­li, la Repubblica veneta. Il rapporto tra uomo e natura aveva trovato in passato vertici assoluti di armonia, di equilibrio e di rispetto reciproco scaturiti grazie a quella pax del buon governo che aveva da­to origine, tra le altre cose, al fenomeno unico e irripetibile quale fu quello delle ville venete, dell'architettura-natura delle creazioni del Palladio e dei "palladiani", della solarità e della sontuosità delle pitture del Veronese e dei "veronesiani", del «dialogo di vil­la». L'armonia tra uomo e natura fu uno dei vertici più alti toccati dalla cultura veneta. Paolucci reagì da subito ai tradizionali accade­mismi oramai stantii e decaduti. Percorse con convinzione la strada dell'espressionismo figurativo e realistico, nella quale sono ravvisabi­li precisi rimandi alle lezioni dei grandi maestri storici e di quelli contemporanei; lezioni che gli son servite per dar vita a un linguag­gio forte, cromaticamente violento, gestualmente talvolta addirittura offensivo, ma sempre originalmente e personalmente veneto, suo. Perché? La pittura di Paolucci, come in questo bello e inquietante dipinto, descrive il paesaggio non nella mimesi, che è quasi un pre­testo, ma nella sua tradizione storica che va irrimediabilmente e i­neluttabilmente scomparendo. Le sue opere stanno agli antipodi dei raggiungimenti della grande pittura veneta del Rinascimento, ma da quelli discendono per via diretta. Sotto sotto, il linguaggio è lo stesso, traspira lo stesso sentimento, lo stesso amore, solo che non può più essere come un tempo testimonianza di armonia e di sintonia; il suo lessico deve adesso per forza di cose testimoniare la crisi profonda di un mondo in agonia. In questo sta l'espressionismo violen­to della pittura di Paolucci. La sua poetica è una denuncia urlata e sofferta di una civiltà in via di estinzione, di una civiltà veneta dell'entroterra che sopravvive solo in alcuni aspetti, non in tutti, di un mondo rurale che miracolosamente, come uno spettro, può ancora essere scoperto incontaminato, genuino; di un mondo che sopravvive nei lineamenti e nelle espressioni di certi volti scalfiti e modellati dalla fatica, di certi interni di case e di chiese, di certe "strego­nerie" popolari. Paolucci, in questo senso, è stato e rimane l'unico artista veneto a rivendicare l'essenza più profonda della nostra cul­tura legata alla natura in quanto tutt'uno con essa, nella vera tradi­zione della natura veneta, ed egli, di nobili origini, nella sua gio­vanile violenta e totale ribellione al nuovo conformismo, si trovò a combattere per la propria terra con lo spirito più nobile e antico. Forse, sempre in questo senso, deve essere letto anche il suo ritiro campestre (ritiro che risale al 1966, dopo la sua ultima partecipazio­ne alla Biennale veneziana, in cui espose opere che riassumevano i no­ti "interni" e "esterni" della nostra civiltà scomparsa), dove, come un eremita dell'arte chiuso nella sua roccaforte, continua in silenzio la sua ricerca verso la propria esperienza di inesauribile perfezione e agonia.

 

Venezia, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, rimane uno dei principali centri artistici della penisola dove, a volte prima che altrove, la nuova generazione di pittori avverte subito la necessità di adeguare e aggiornare l’arte italiana al clima culturale non più, oramai, solo europeo, ma mondiale. Le esposizioni della Biennale, con tutte le sue costanti, immancabili polemiche, continuano a essere il principale polo nazionale dove esporre e dove vedere quanto di nuovo s’è fatto in campo internazionale: il Segretario Generale Rodolfo Pallucchini iniziò, con la Biennale del 1948 (fino al 1956), un ciclo di mostre che aveva lo scopo di dare, per la prima volta nel nostro paese, un’approfondita panoramica delle avanguardie storiche europee (e, incredibile a dirsi, la Biennale del 1948 fu la prima nella quale si esposero opere di Picasso!). Su questo humus qualitativo straordinariamente stimolante, si educò tutta una serie di giovani artisti che saranno, da lì a poco, aprendosi definitivamente all’arte internazionale e allacciando con essa rapporti sempre più diretti e stretti, alcuni tra i principali protagonisti dell’arte italiana della seconda metà del XX secolo. Gli anni che contano della pittura di Giorgio Dario Paolucci sono proprio questi: quelli che vanno dal primissimo dopoguerra ai primi anni Sessanta; dopo, causa anche il suo allontanamento da Venezia, non hanno più lo stesso valore e la sua arte diviene quasi una sorta d’imitazione di se stessa e inevitabilmente viene a scadere. Dispiace davvero, allora, che a un certo punto della sua intensa attività pittorica egli, abbandonando la città lagunare per Asolo, abbia gradualmente rinunciato a quelle ricerche che, negli anni Cinquanta, erano viste da tanta critica con grande interesse e facevano di lui una delle promesse più interessanti del panorama artistico veneto e nazionale alla metà del secolo (non è casuale, infatti, se nel 1954 fu premiato dal Presidente della Repubblica quale «migliore giovane pittore italiano» e se si meritò oltre cinquanta premi nazionali e internazionali). Giorgio Dario Paolucci fu, e rimase sempre, un pittore legato al figurativo. Lo si può, cioè, collocare in quella schiera di artisti che, a Venezia, portò a vanti un discorso espressivo parallelo, e altrettanto aggiornato e di qualità, di quanto fece tutto quel gruppo di artisti che, con esperienze diverse, intraprese la strada dell’astratto. Una delle principali mancanze della critica contemporanea è quella di aver indagato e ben approfondito ogni aspetto di questa seconda schiera di artisti e di aver contemporaneamente pressoché ignorato, o quasi, le opere del primo gruppo: il risultato è che, di quegli anni “eccezionali”, si ha una visione solo parziale e incompleta che aspetta ancora, e prima o poi qualcuno se ne accorgerà, di essere ripercorsa nella sua interezza. Anche perché, e il dipinto di Giorgio Dario Paolucci qui preso in esame ne è uno straordinario esempio, talvolta gli esiti raggiunti dall’uno e dall’altro dei due “schieramenti” sono di sorprendente simbiosi. S’è appena detto che Paolucci fu un pittore sempre saldamente legato al figurativo; ma il paesaggio raffigurato in quest’opera di pittura “figurativa” è stato talmente distorto dalla necessità di rendere una visione altamente espressiva e allucinata del dato reale, da rasentare, nella sua sintesi figurativa, l’astratto: per cui, non sembra azzardato, parlare di “astrattismo” figurativo. Da questo punto di vista, ma non solo, il dipinto qui preso in esame è da  considerarsi un’opera particolarmente importante, non solo per essere stata esposta a più mostre e per aver trovato spazio nella pubblicazione dedicata all’artista del 1964 (e per la sua stessa originaria provenienza dall’importante collezione Deana della Trattoria “La colomba” di Venezia, già sede di un prestigioso premio internazionale di pittura e frequentata da artisti come Picasso, De Chirico, Morandi, Vedova, ecc.), bensì anche perché il paesaggio dei colli asolani raffigurato (che in catalogo porta la sintomatica titolazione di “Paesaggio nero”) il dato reale del “veduta” è stato tradotto sulla tela con un impeto tanto spinto, aggressivo e graffiante da far vivere all’opera una sua autonomia compositiva ed una sua autonomia cromatica, allontanandola decisamente dal dato reale per darne una visione tutta costruita su accordi compositivi e sul dialogo gestuale della violenta forza del segno grafico, che si reggono da soli nella loro sintesi formale e coloristica nei continui scambi dialettici tra i vari elementi che la compongono, e tutto ciò ben al di là della mimesi. La lettura del dipinto, ci porta a valutare la composizione dando netta prevalenza all’impeto esecutivo di una pennellata decisa ed espressiva, che trasmette tutta la “violenza” di un sentire la materia pittorica per la sua qualità gestuale d’impasto, per la sua qualità di materia liquida e diluita o densa e materica, per la sua capacità di modellare forme e di generare effetti cromatici tra loro qua accordati e là contrastanti, ma carichi sempre di un valore luministico, e quindi di vere e proprie accensioni di luce (anche intese in negativo, nel contrasto improvviso con gli scuri), che è la vera qualità e la vera forza dell’opera. Inutile cercare, allora, solo gli stimoli, molteplici, che Paolucci ha colto forse proprio dalle opere di quelle avanguardie che Pallucchini aveva presentato alla Biennale: la maturità dell’artista è ormai compiuta in un linguaggio espressivo tutto suo che, in opere come queste, si presenta come una sorta di stupefacente sintesi, o momento di passaggio, tra le allucinate visioni delle sue cosiddette “stregonerie” e la sua pittura di “paesaggio” che è, tutto sommato, in un certo senso più convenzionale. L’astrazione figurativa a cui è saputo giungere, rappresenta uno dei vertici dell’arte veneziana di quegli anni e non sorprende notare come questi risultati trovino riscontro in quelli raggiunti da altre forti personalità di quest’ambiente artistico, prima fra tutte, forse proprio quella dell’amico Tancredi. Ma se Paolucci e Tancredi in alcune loro opere talvolta paiono, con linguaggi diversi, trovare diversi punti di contatto (e non solo tra le “stregonerie” del primo e i “matti” del secondo), il vigore creativo di un’opera come questa, della quale pur si può trovare un’origine lontana che parte da Gino Rossi, attraversa Munch e si lega all’espressionismo tedesco, sembra più mettersi in sintonia con alcune di quelle “macchine” d’espressionismo astratto alle quali, in questi stessi anni, un Emilio Vedova, ad esempio, dava forma.

 

 

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Lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni, galleria d’arte ed antiquariato di Castelfranco Veneto, propone in vendita dipinti antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e dipinti moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900) con particolare attenzione per i pittori veneti e, soprattutto, per i pittori veneti legati al territorio di Castelfranco Veneto. Tra questi, artisti come Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, sono quelli di cui lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni principalmente s’interessa. Pur non trattando prevalentemente arte contemporanea, lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni acquista e vende anche quadri di pittori contemporanei legati al territorio di Castelfranco Veneto, come, ad esempio, Giorgio Dario Paolucci. Pertanto, cerca e compra opere di Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, Giorgio Dario Paolucci, oltre, ovviamente a quadri di pittori antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e di pittori moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900).

 

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