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Noè Bordignon:
un brutto caso d’incuria e degrado artistico
di Marco Mondi
Nel catalogo della mostra su Noè Bordignon curato da Paolo Rizzi nel 1982, fu redatta un'interessantissima mappa del nostro entroterra dove furono evidenziate le chiese, le ville e gli edifici in genere per i quali l'artista lavorò. Si tratta di un territorio piuttosto vasto, che dalle cittadine gravitanti attorno alla natia Castelfranco si estende ad Ovest, passando per il bassanese, fino alle porte di Schio, a Nord, e poi ad Est, abbracciando una buona parte dell'asolano, fino a spingersi oltre Conegliano, mentre a Sud, nel veneziano, tocca paesi come Moniego, Robegano, Campocroce e, con i lavori realizzati nell'isola di San Lazzaro degli Armeni, entra in laguna. Tra questi lavori, molti sono affreschi e vale la pena sottolineare che gli affreschi eseguiti nel nostro territorio tra gli ultimi decenni del XIX ed i primi del XX secolo, rappresentano un "fenomeno" che andrebbe affrontato ed approfondito con uno studio a parte, soprattutto qualora si considerassero prevalentemente gli affreschi esterni. Essi, infatti, rappresentano una singolare e sintomatica fioritura di un gusto per la decorazione parietale che, dalla grande stagione prima medievale e poi rinascimentale, andò gradualmente scemando, per mantenere la tradizione viva solo in pochi casi, e piuttosto circoscritti nelle dimensioni, legati prevalentemente ad esigenze popolari di carattere votivo. Dalla seconda metà dell'Ottocento, non a caso dopo la liberazione dal dominio austriaco e l'annessione del nostro territorio al Regno d'Italia, quindi in un clima di generale euforia, di ripresa economica e di ricostruzione edilizia, che sentiva forte la necessità di riappropriarsi di una cultura strettamente autoctona riallacciandosi, nel nostro caso, ad una delle più floride tradizioni figurative venete, ci fu la tendenza a tornare ad affrescare, oltre che gli spazi interni, anche le facciate esterne di chiese e palazzi. In questo senso, Noè Bordignon fu sicuramente uno tra gli artisti veneti che più si prodigarono nell'attività di frescante. E la suddetta mappa ne è, come già detto, un'interessantissima testimonianza.
Questo "fenomeno", non mancò di toccare la bella cittadina di Castello di Godego, centro antichissimo e particolarmente ricco di preziosi e prestigiosi edifici. Edifici, contro molti dei quali, purtroppo, negli ultimi decenni si sono perpetrate mutilazioni, demolizioni e vere proprie devastazioni di quello che un tempo era il loro naturale habitat architettonico-paesaggistico, al punto che, per taluni contesti urbanistici, la città ha assunto un volto del tutto diverso ed oramai quasi non più identificabile con quello che la caratterizzò e la impreziosì per molti secoli. Castello di Godego, in quel suo centro cittadino che oggi, almeno nella piazza principale, si fatica ad identificare col suo centro storico, conserva ancora la "struttura ossea" di un gioiellino dell'architettura veneta qual è l'antica chiesa abbaziale di Santa Maria, per la quale il Bordignon Favero cautamente ha suggerito il nome di Giorgio Massari, come architetto, per la sua ristrutturazione settecentesca. La chiesa è oggi abbandonata ad un lento ed inevitabile degrado, tanto più funesto quanto più "innaturale" è il suo attuale impiego; e può essere assunta ad esempio non tanto, o non solo, del poco valore ed amore con cui la città guarda ai suoi più preziosi tesori, quanto di una non efficace attività di soprintendenza esercitata per decenni e decenni dalle istituzioni statali preposte per legge a conservare, tutelare e valorizzare il nostro patrimonio storico-artistico. Se un ente pubblico la cui funzione istituzionale è di conservare, tutelare e valorizzare, consente determinati interventi architettonico-urbanistici o non interviene con tempestività, o non interviene affatto, evidentemente c'è qualcosa che non funziona e la causa, o la colpa, deve ricercarsi là, piuttosto che in una o in un'altra volontà ecclesiastica, là, piuttosto che in uno o in un altro architetto, là, piuttosto che in una o in un'altra amministrazione comunale, la quale ha anche altre esigenze e necessità, e la quale deve comunque attenersi alle decisioni e alle autorizzazioni delle competenti Soprintendenze.
Quando, negli primi anni del XX secolo, Noè Bordignon ricevette l'incarico di affrescare il soffitto ed alcune pareti della parrocchiale di Santa Maria di Castello di Godego, si può quasi affermare che la chiesa così concludesse la lunga ristrutturazione iniziata circa due secoli prima e caldamente ripresa alla metà del XVIII secolo dall'arciprete Nuzio Querini, al quale spetta il merito di aver ottenuto per sé e per il suoi successori il titolo e la dignità di abbaziali (Giampaolo Bordignon Favero). Nei primi anni del Novecento la chiesa di Santa Maria dovette forse vivere i suoi "anni migliori". Ad un secolo di distanza, purtroppo, a causa di una disastroso “cambio d’uso” fatto negli anni del dopoguerra, ben altro è il suo destino! Così, anche per gli affreschi di Noè Bordignon.
Noè Raimondo Bordignon nasce a Salvarosa di Castelfranco Veneto il 3 settembre 1841 da una famiglia di umile estrazione. Grazie a vari aiuti, può iscriversi alla Regia Accademia di Belle Arti di Venezia, dove frequenta i corsi di Michelangelo Grigoletti, Carlo De Blaas e Pompeo Molmenti. Suoi amici e compagni di studio sono alcuni tra i massimi esponenti della pittura veneta dell’Ottocento, come Guglielmo Ciardi, Luigi Nono, Giacomo Favretto. La sua prima formazione artistica, quindi, avviene subito dopo la metà del secolo, in un clima culturale ancora tutto farcito di un Romanticismo d’impostazione storica, mitologica e religiosa.
In ambito scolastico, le sue capacità sono presto notate e nel 1865, alla conclusione degli studi, vince una borsa di studio governativa per il perfezionamento artistico a Roma, dove soggiorna fino al 1868 e ha modo di approfondire i propri interessi, specie per la pittura dei Puristi e dei Nazareni, ma anche per l'antichità classica, il Rinascimento (Michelangelo in particolar modo), il Barocco e il classicismo dei Carracci e di Poussin, e poi di David e di Ingres. Assiduo frequentatore del caffè "Greco", è fatto socio dell'Associazione Artistica Internazionale. Di ritorno da Roma, si ferma alcuni mesi a Firenze, dove entra in diretto contatto con i Macchiaioli e s’iscrive all'Associazione degli Artisti Italiani, nella quale il suo nome comparirà fino alla morte.
Nel 1869, al suo rientro a Castelfranco e a Venezia, Bordignon è quindi un giovane artista con una propria personalità pittorica. Numerosi sono subito i lavori che gli sono affidati, commissionatigli principalmente nell'ambito della decorazione d'interni di chiese. Tra gli incarichi più importanti di questi anni, si ricordano il ciclo in affresco della Resurrezione della Carne, dipinto nel 1874 per la parrocchiale di Pagnano d'Asolo, quello della Gloria di S. Nicolò vescovo, del 1877, per la parrocchiale di Monfumo, e quello di Gesù Figlio di Dio, per la parrocchiale di Montaner, del 1877. Ma là dove ottiene forse il suo più alto raggiungimento in questo senso, è il ciclo affrescato per la chiesa di San Zenone degli Ezzelini (1869-1882): se nell'Assunta del soffitto, esplicito è il richiamo all'Assunta di Tiziano e, ad esempio, nel riquadro con il Beato Giordano Forzatè riaffiora l'impostazione storico-accademica, è nell’elaboratissimo Giudizio Universale dell'abside dove Bordignon dà sfogo a tutta la sua indole di drammatica rappresentazione romantica, inventata sul modello romano del Giudizio Universale di Michelangelo; limite oltre il quale il pittore non può che cambiare stilisticamente direzione per non cadere nella ripetizione manierata di se stesso. Non è casuale, infatti, se la sua attenzione si rivolge adesso principalmente al Realismo, con il quale si afferma a Venezia.
Capolavoro della fine degli anni Settanta è La mosca cieca della Civica Raccolta Comunale di Castelfranco Veneto, splendido dipinto la cui composizione accademico-classiccheggiante ed il modo di delineare e colorare le figure dei bambini che giocano nella campagna romana, forse dipinta non solo sulla base di ricordi, tradiscono un sapore partenopeo, ma anche fiorentino in talune minuziosità ed in taluni esiti cromatici, che andrà a perdersi negli anni successivi. E sulla base delle qualità stilistiche di questa tela, viene da supporre che Bordignon, durante il suo soggiorno romano, si sia spinto anche sin giù nel napoletano.
A partire dalla fine degli anni Settanta, ha inizio il suo cosiddetto "periodo veneziano", quando anch’egli, con grande respiro qualitativo, svolge un ruolo determinante nell’ambito del Realismo. Le opere realizzate a partire da questo momento, possono considerarsi quelle della sua piena maturità, e taluni saggi rappresentano alcuni tra i più alti raggiungimenti della pittura veneta allo scadere del secolo. Nascono, allora, lavori straordinari per l'ambientazione compositiva, per la resa dell'insieme e dei particolari, per le delicate e sapienti scelte luministico-cromatiche. Di questi anni sono dipinti come Cortile veneziano, Le pettegole o il Banco del lotto, i cui soggetti sono scorci di campielli o altre invenzioni nelle quali la vita quotidiana è ritratta nel suo svolgersi reale, colto attraverso la "lente" del pennello che ferma, come in un'istantanea (ed interessante sarebbe fare uno studio della pittura dell'artista in relazione alla fotografia), tanto il gesto dei personaggi e l'intimità del momento, quanto il panno disteso o l'oggetto minuto, apparentemente insignificante ma anch'esso vero, reale, come la scena stessa in tutto il suo insieme. Già a partire da questi anni, egli non si ferma alla sola ambientazione veneziana: i suoi soggiorni sempre più frequenti e lunghi nei luoghi natii dell'entroterra, dove verso la metà degli anni Novanta si ritirerà definitivamente a vivere, gli ispirano l'ambientazione della campagna veneta. Queste opere rappresentano forse la sua produzione di maggior rilievo artistico, e certo la più profondamente sentita, dove si riscontra sovente una riposante visione tra il pastorale e l'aneddotico, e dove la natura, la campagna ed il mondo rurale in genere sono sentiti come il luogo di una nuova e toccante armonia tra la presenza umana e l'ambiente circostante.
Nella prima metà degli anni Novanta, Bordignon dà vita a tre veri capolavori: Gli emigranti, databile verso il 1890 circa, La cresima, del 1893 circa, e La pappa al fogo, di uno o due anni dopo. Sono tre opere diverse tra loro, eppure di una coerenza straordinaria nella rappresentazione della stessa realtà sociale: quasi tre brani di "letteratura figurativa" che ci raccontano tre momenti diversi della vita dell'epoca e che ci sono presentati nella più lucida, oggettiva testimonianza con cui il sensibile occhio dell'artista li ha saputi cogliere. Gli emigranti, è una straordinaria composizione ambientata nella campagna veneta con tutta la naturalezza di chi vuol rendere, senza enfasi, una drammatica realtà sociale di quegli anni; La cresima, che pare quasi un omaggio al futuro papa santo, dove in un ampio scorcio dell'interno dei Frari, a Venezia, il pennello dell'artista va a cogliere la gioiosa, frizzante ed emozionante sacralità di un momento importante della liturgia cristiano-cattolica; e La pappa al fogo, concepita per presentarla alla prima Biennale veneziana del 1895, vero monumento innalzato alla tradizione "liturgico-rurale" del nostro entroterra attraverso il quale l’artista, senza immaginazione fantastica o enfatica volontà di letteraria ostentazione, senza drammaticità, né rassegnazione, e nemmeno intento polemico, presenta una realtà che ha una sua precisa dimensione sociale e politica, nella direzione di quel cattolicesimo che trovava allora il suo punto di riferimento nella Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, nell'ambito cioè di un pensiero cristiano-sociale attento alle condizioni di vita della classe contadina. E’, quest’ultima, una delle opere più importanti di tutta la pittura veneta di fine Ottocento.
L’importanza svolta dalle riviste e, successivamente, dalle visite alla Biennale di Venezia, come per altri pittori suoi coetanei, lo inducono gradualmente ad assimilare stilemi Liberty, dalle connotazioni simboliste. Lo si nota in molte opere eseguite a cavallo del secolo, dove le tematiche affrontate sono sovente le medesime di quelle degli anni precedenti, ma in esse vi si riscontra un fare più svolazzante e ricercato, che fa traspirare un senso più raffinato di enfasi espressiva e simbolicamente allusiva.
Il rientro in terraferma, gli comporta nuove commissioni di carattere pubblico, ancora una volta soprattutto in campo ecclesiastico. Numerosi sono gli affreschi che esegue perché molte sono le commissioni che gli sono affidate. In queste opere, che lo terranno impegnato fin negli ultimi anni di vita, egli esprime la sua vena decorativa in composizioni che adattano il soggetto di volta in volta richiestogli a soluzioni formali dalla vena religiosa storico-narrativa. Ed è proprio a questi anni, cioè attorno al 1908, che si può far risalire l'esecuzione del ciclo in affresco per l'antica chiesa abbaziale di Castello di Godego. In lavori come questi, infatti, analogamente a quanto faceva nelle pitture da cavalletto, Bordignon risolve le tematiche richiestegli su un impianto compositivo che rimane sotto più punti di vista fedele ai grandi cicli di affreschi degli anni Settanta; tuttavia, si mitigano alquanto le componenti di ascendenza purista a favore di composizioni ariose, maggiormente debitrici della gloriosa tradizione figurativista della pittura veneziana del Cinquecento (da Giorgione ai Bassano) e del Settecento, con un occhio di particolar riguardo sempre rivolto al Tiepolo, e anch'esse ormai immerse in una atmosfera pacatamente più simbolista.
Il nuovo secolo riserva a Bordignon anni difficili e funesti: nel 1906 muore il figlio Lazzaro (soprannominato Rino), a cui egli era particolarmente legato, anche per la sua predisposizione alla pittura; nel maggio del 1913, dopo sei anni di infermità, anche la moglie Maria lo abbandona. Nell'agosto dello stesso anno si ritira definitivamente nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, dove continua ad avere rapporti con pochi amici, tra i quali Teodoro Wolf Ferrari, Alessandro Milesi, Luigi Nono e Andrea Favero.
Nelle opere da cavalletto, uno tra i generi particolarmente preferiti adesso, è il ritratto. La sua pittura si fa pastosa e densa, con cromatismi meno accesi ma dalla grande forza espressiva. La sua arte lo mostra artista di grande qualità e talento, ma artista ancora profondamente legato al Realismo dell’Ottocento in anni nei quali l'arte moderna afferma con forza, e talvolta con clamore, il diritto ad una nuova libertà espressiva per lui (ma non è il solo) difficile da capire e difficile da condividere. Noè Bordignon, dopo una dolorosa caduta che gli procura la frattura del femore, si spegne il 7 dicembre 1920 nella sua casa di San Zenone degli Ezzelini, lasciando incompiuto un Autoritratto, il suo ultimo lavoro.
Queste, in breve, le vicende artistiche del pittore che affrescò soffitto e lunotti della chiesa di Santa Maria di Castello di Godego; affreschi coronati, tra l'altro, da raffinatissime e bellissime decorazioni in stucco. Lavori, s'è detto, la cui esecuzione è da far risalire, ritenendo attendibile la data riportata su uno di essi, al 1908: una ricerca tra la documentazione conservata negli archivi parrocchiali, dovrebbe facilmente confermarne la datazione, svelando probabilmente anche altri interessanti particolari. L'affresco rettangolare del soffitto, in una composizione magistralmente colta dal sotto in su, come nella più fastosa tradizione settecentesca veneta, raffigura una bellissima Natività, pittoricamente fresca e vivace nel suo dispiegarsi di personaggi che spiccano con cromatismi timbrici sotto ad un intenso cielo blu dove stanno, con la stessa luminosità delle spumeggianti nuvole bianche, gli angeli in volo. Di grande effetto scenografico e di sapore tiepolesco, a scandire un ritmo ascensionale sinuosamente zigzagato e leggermente tortile, è la figura elegantissima dell'angelo con le ali spiegate, caratterizzato, come tutte le altre figure angeliche, da una bellezza idealizzata, divina, celestiale. Al contrario, la dolcissima figura della Madonna e quella virile di San Giuseppe, sono presentate con tutto il loro realismo di esseri umani chiamati a dar vita alla nuova era del Cristianesimo. La stessa bravura pittorica, doveva caratterizzare il tondo del soffitto col Santo in gloria, oggi pesantemente ridipinto da renderne assai difficile la lettura. Quasi del tutto compromessi, invece, sono i quattro evangelisti dipinti sui lunotti ora inglobati in due stanzette drasticamente inventate nello spazio interno della chiesa. A tal proposito, le loro immagini qui pubblicate sono certo il commento più esaustivo.
Inutile dire che l'antica chiesa abbaziale dovrebbe essere recuperata nella sua integrità architettonica ed artistica (e, m'è stato detto, che il restauro dovrebbe essere imminente!), a meno che non ci sia la più "sensata" decisione di demolirla completamente per far spazio, ad esempio, ad un bel ed utile supermercato dalle grandi vetrine e dalle insegne ben luminose, completando così urbanisticamente l'oramai quasi totalmente "rinnovato" centro storico che, nella sua piazza principale, storico non è quasi più. I tesori della chiesetta però, e le sue decorazioni, potrebbero essere venduti a pezzi. Ci sarebbe un bel ritorno economico: in fondo, per parlare solo delle pitture, ci sono opere di Bordignon che nel mercato hanno raggiunto cifre, con le vecchie lire, ad otto zeri! Al contrario, se si pensa ad un restauro "come si deve", ai cittadini costerà non poco. E pensare che se ci fosse stata una continua, costante, normale manutenzione, probabilmente la chiesetta di Santa Maria non avrebbe bisogno di alcun restauro, quindi, ai cittadini non costerebbe nulla, o quasi. Infatti, come per ogni altro patrimonio storico-artistico, il miglio modo per conservarlo, tutelarlo, valorizzarlo, è viverlo, è usarlo, è goderlo, anche perché, comunque sia, esso è ciò che ci identifica, che ci identifica oggi per quello che siamo grazie, ed è bene non dimenticarlo, alla nostra cultura, al nostro passato, alla nostra storia, alla nostra arte.
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Sono opere come questa di Noè
Bordignon che hanno fatto e fanno grande la pittura veneta dell’Ottocento.
L’arte, da sempre, rivela figurativamente e qualitativamente la sintesi
dell’epoca in cui si esprime, della sua cultura, della sua storia, della sua
società. Quando l’Italia (e quindi i suoi stati) era al centro del mondo, la
sua arte era universale; quando le capitali della contemporaneità
dall’allora si sono spostate altrove, la nostra arte non ha potuto che
esprimere la situazione culturale, storica e sociale di un’area che era
stata costretta a divenire provincia. L’Unità d’Italia, nel suo intento di
“omogeneizzare” un territorio da secoli unito culturalmente ma da secoli
diviso politicamente in stati, generò la reazione opposta d’accentuare,
artisticamente e non solo, le divisioni “regionali” della penisola. Si
formarono ben presto le “scuole” veneta, lombarda, piemontese, toscana,
napoletana e così via. Il dialogo e lo scambio d’influenze e di reciproche
esperienze interregionali furono subito intensi, come intensi furono in
passato i dialoghi, gli scambi d’influenze e di reciproche esperienze tra
stato e stato della penisola; sempre, nell’Ottocento e nei secoli
precedenti, tutto questo avvenne anche, sebbene in grado minore, con gli
stati d’oltralpe. L’unica vera grande differenza tra quanto successe nel XIX
secolo e quanto successe nei secoli precedenti,
mutatis mutandis,
fu il trasferimento delle capitali dall’Italia all’estero, causato proprio
dall’illusione di dare una capitale a uno stato unitario ancora bel lungi da
venire. Per Venezia e il suo territorio questo avvenne con uno
sconvolgimento traumatico che portò, negli ultimi decenni dell’Ottocento,
una situazione economico-sociale per i più disastrosa, costringendo enormi
masse di persone a cercar fortuna emigrando addirittura in altri continenti.
In questo ambiente culturale, e sociale, si colloca anche l’”avventura”
artistica di Bordignon Noè il quale, di tutto ciò, ne era pienamente
cosciente, vivendolo in prima persona molto più a fondo di tanti altri suoi
colleghi pittori. L’entroterra veneto per Guglielmo Ciardi, Alessandro
Milesi, Luigi Nono e tanti dei più bei nomi della nostra pittura della
seconda metà del secolo, che l’hanno “ritratto” sotto mille angolature, alla
fine, per loro, rimaneva un universo al quale in realtà, da pittori “di
città”, non appartenevano. Il loro soggiornare nell’entroterra veneto, pur
con l’esplicito intento di dipingerlo, era come se conservasse il sapore di
una parte di quella villeggiatura che gli aristocratici e i signori di tempi
più antichi usavano trascorrere in determinate stagioni con l’intento di
svagarsi e al tempo stesso di curare i loro interessi di “Stato da terra”.
Tutto quanto gli altri pittori venivano a scoprire nella campagna veneta per
ispirare le loro composizioni, quasi fossero dei turisti di passaggio perché
la loro vera vita era altrove, per N. Bordignon, invece, rappresentava un
vissuto quotidiano profondamente amato perché era il suo, perché
rappresentava il mondo a cui egli apparteneva e di cui egli era parte
integrante. A tal proposito verrebbe anche da chiedersi se quelle diatribe e
quegli scontri avuti a un certo momento con l’ambiente artistico lagunare
che l’hanno fatto tanto soffrire al punto da scrivere, ad esempio, che la
sua Pappa al fogo, capolavoro
dipinto appositamente per essere esposto alla prima Biennale veneziana del
1895, fu «barbaramente
respinta» e che lo porteranno gradualmente a ritirarsi da Venezia nella
sua amata terraferma, lontano da polemiche, invidie e gelosie, non siano
state, contrariamente a quel che si suol pensare, alla base della sua vera
fortuna artistica. Ponendo fine, infatti, a una lunga formazione iniziata
con gli studi all’Accademia di Venezia, i viaggi studio a Roma, Firenze,
forse Napoli e in altre località italiane, e il rientro infine nella città
lagunare, dove ebbe per tanti anni il suo studio principale, il ritorno ai
luoghi natii fece di lui quello che è forse il più acuto e sensibile
rappresentante della cultura artistica del nostro entroterra a cavallo dei
due secoli. Bordignon N. non poté più sottrarsi dal contemplare con
partecipato trasporto la quotidianità della vita della sua gente e della sua
terra, al punto d’arrivare a trasferirne sulla tela l’animo più genuino e
l’emozione più veritiera di quell’epoca, di quella società e del suo
ambiente paesaggistico e umano, divenendo così quel cantore altissimo di una
realtà che fu sentita, partecipata e amata da dentro, e che fu vissuta e,
soprattutto, capita con una comprensione tale come forse solo Jacopo
Bassano, prima di lui, da noi, seppe fare. Vita
quotidiana a San Zenone,
apparentemente, pare non avere alcun intento sociale perché descrive
semplicemente (sembra) un felice momento di tranquilla quotidianità
campagnola di fine secolo. È la stessa osservazione che si può fare di primo
acchito anche per
La pappa al fogo di
Noè Bordignon: la tela raffigura, semplicemente, l'interno di una cucina,
dove la giovane madre e i due figlioletti sono ritratti nell'intimità della
loro umile vita quotidiana, tutto là. Eppure, ben presto ci si rende conto
che essa ha un substrato di profonde valenze che emergono pian piano davanti
ai nostri occhi; un substrato che ci parla di economia, di società, di
religione e fin anche di politica; che ci parla di Rerum Novarum e
del pensiero cristiano-cattolico verso le condizioni della classe contadina,
che ci parla della famiglia, dei suoi valori fondamentali e dell’importanza
del ruolo della donna, che ci parla del lavoro e dell’educazione dei figli;
che ci parla perfino di un nuovo modo di recuperare la poesia di Giorgione e
la spiritualità di Jacopo Bassano, di un nuovo modo di ridar vita alla
pastosità del colore veneto e alla vibrazione luministica della materia
sulla tela. Rispetto a La pappa al
fogo, Vita quotidiana a San Zenone
si muove in un’atmosfera ambientale totalmente diversa, tratta all’aria
aperta, in una tiepida giornata d’inizio primavera; eppure, anche per
quest’opera, si avverte presto che il suo vero intento va ben più al di là
di una semplice, per quanto bella e suadente, “finestra” aperta
sull’Ottocento. Se noi potessimo, infatti, immaginare d’alzarci a volo
d’uccello da una sorta di visualizzazione a livello suolo dell’inquadratura
raffigurata in Vita quotidiana a San Zenone
di Noè Bordignon,
grazie ad una specie di Google Earth ambientato nel passato, al tempo in cui
l’opera è stata dipinta, alzandoci sempre più in alto sull’Italia fino a
individuare Roma, la capitale, per poi zumare gradualmente sui palazzi del
potere politico entrandoci dentro per sbirciare nelle accese discussioni
dell’epoca sulla questione agraria e su quanto ad essa connesso, e poi
potessimo ripetere a ritroso il percorso appena fatto fino a ritornare a
inquadrare la nostra scena di Vita quotidiana a
San Zenone, ci parrebbe forse allora quasi di
poter udire le parole che Antonio
Fogazzaro, nel suo Daniele Cortis,
fa dire al conte Lao (Ladislao): «…ma
non come gli altri che vi guardano come se tirassero il mondo, e se loro, le
bestie, fossero più onorevoli di noi che ci lasciamo tirare. Adesso ti
spolitichiamo… Ti invillaniamo, ti mettiamo a urtar avanti l’Italia qua,
qua, con le mani e con i piedi, sui tuoi campi; altro che alla Camera con le
parole!». Ci si renderebbe conto, allora, di come
Vita quotidiana a San Zenone
non sia semplicemente la raffigurazione, felicissima, di un sereno momento
di vita quotidiana di fine secolo. Come ne’
La pappa al
fogo, anche in questo dipinto si avverte
ben presto che il soggetto raffigurato s’investe di significati profondi,
grazie ai quali questa
“finestra” aperta
sull’Ottocento ci racconta di una vita quotidiana piena di un’umanità, di un
vivere in armonia con e nella natura in un modo che oggi abbiamo perso o,
per lo meno, che la gran parte di noi oggi ha perso. È chiaro che il
confronto tra l’”aristocratico” Antonio
Fogazzaro
scrittore e il “campagnolo” Bordignon Noè
pittore è al quanto labile, scaturendo le loro personalità da due contesti
sociali profondamente diversi, che hanno reso il primo un cristiano
democratico dalle idee arditamente innovative a vantaggio di una nazione «sciolta
da qualunque legame con qualunque chiesa, ma profondamente rispettosa del
sentimento religioso», il secondo un cristiano cattolico praticante
fermamente convinto della grande funzione da sempre svolta dalla Chiesa in
ambito socio-educativo. Tuttavia, la posizione che Fogazzaro fa prendere al
conte Lao, che sotto certi aspetti rappresenta il passato legato alla storia
e alla tradizione della Serenissima, pur cogliendo la situazione
dall’angolatura privilegiata di un vecchio e nobile possidente, trova più
punti di contatto con la visione “semplice” ma altrettanto radicata di Noè
Bordignon, soprattutto quando la esprime in opere come
Vita quotidiana a San Zenone.
Il messaggio (o monito) che Noè Bordignon
sembra infatti volerci dare, si manifesta in un’architettura pittorica che
ritrae un universo che ha sedimentato l’armonia di vita tra uomo e natura
grazie a un’evoluzione durata secoli; un universo “cristallino” fatto di un
equilibrio bilanciato tra vita, lavoro, famiglia e natura, dove l’una non
può esistere senza l’altra perché dell’altra ne è un tutt’uno inscindibile;
un universo “estetico” dove si pratica un recupero della visione poetica
settecentesca (e, prima ancora, verrebbe da dire cinquecentesca e, ancora
una volta, paesaggisticamente giorgionesca) di un’arcadia pastorale e
idilliaca caricata, però, di una serietà di vita che il secolo precedente
non conosceva, perché investita di un significato sociale che nel XVIII
secolo troppo spesso si farciva di frivolo brio rococò; un universo
“sociale” che non necessità di un
Deus ex machina
per migliorare la sua condiziona di vita poiché questa, pur nella dura e
difficile esistenza quotidiana, ha raggiunto un tale grado di maturità
umana, morale e perfino culturale, per il quale un intervento dall’alto,
politico, non farebbe che sgretolarlo, com’è difatti poi successo; un
universo di “civiltà” che davvero avrebbe potuto dare il suo grande
contributo a «urtar
avanti l’Italia qua, qua», con un lavoro fatto «con
le mani e con i piedi, sui… campi», come ebbe a dire il conte Lao (ed è
su questo piano che avviene il punto di contatto tra lo scrittore Fogazzaro
e il pittore Bordignon). Noè Bordignon, in opere come
Vita quotidiana a San Zenone,
ha saputo rappresentare quella dignità del
lavoro generato, appunto, «con le
mani e con i piedi, sui… campi»; quella dignità del lavoro che si è
fatta parte integrante della vita umana, perché a essa non solo è legata ma
da essa ne è inscindibile; quella dignità del lavoro che ha fatto sì che un
secolo dopo da noi potesse rinascere il germe che ha portato il nostro
territorio, pur con non poche degenerazioni e contraddizioni, a quello che è
stato definito il boom del
Nord-Est (che oggi hanno voluto distruggere) o, meglio, la “mentalità” del
boom del Nord-Est, per cui la
vita coincideva col lavoro e viceversa, senza che uno togliesse all’altra la
gioia di essere persone positive, moralmente sensibili, religiosamente
rispettose, umanamente civili ed economicamente produttive. E ciò ha portato
un notevole cambiamento della prospettiva con cui si è guardata la realtà
del nostro entroterra fino a pochi anni fa, o di come l’ha guardata e l’ha
proposta Bordignon Noè un secolo fa, poiché così la si è potuta, e la si
poteva, riscattare dalla costrizione provinciale per farla tornare ad avere
valenza universale (motivo per cui il cosiddetto
boom del Nord-Est è diventato un
modello imprenditoriale per tutta l’Italia e un modello imprenditoriale
anche per l’estero, se si pensa che persino i Giapponesi e gli Americani
venivano a studiarlo). È come se Bordignon N, avesse voluto rispondere alla
nascente civiltà dell’industria e della politica centralista del neonato
Stato italiano parlando volutamente uno schietto idioma che da dialetto è
ritornato a essere lingua, letteratura, poesia.
Vita quotidiana a San Zenone,
allora, ci porta a considerare il significato della sua rappresentazione
spingendoci ad andare ben più in là di quanto di primo acchito si presenta
come una bella e suadente “finestra” aperta sull’Ottocento veneto. Ma N.
Bordignon non sarebbe stato l’artista alto e sensibile che fu, se non fosse
stato in grado di esprimersi figurativamente con un
ductus pittorico di
altissima qualità, capace di fondere il contenuto con la forma, i valori
della sua epoca con il linguaggio espressivo dei suoi tempi, condizioni
tutte indispensabile affinché possa nascere il capolavoro in arte: per
questo, Vita quotidiana a San Zenone
è un capolavoro della pittura veneta dell’Ottocento. Che Noè Bordignon fosse
emotivamente sensibile e profondamente coinvolto dal soggetto di una
raffigurazione come questa, lo prova il fatto stesso che la quotidianità e i
luoghi ritratti erano quelli che ogni giorno lui aveva davanti ai suoi
occhi: lo scorcio di San Zenone rappresentato, infatti, è quello che egli
poteva vedere, un po’ più in lontananza, da casa sua. Il punto esatto dove
ha posato il cavalletto è a poche decine di metri dalla sua abitazione e si
può dire che oggi, tutto sommato, questo scorcio, topograficamente non è
cambiato molto: davanti agli edifici passa una strada e solo il casone a
sinistra è adesso nascosto da un’abitazione di recente costruzione. Andando
nel luogo, ci si accorge subito, però, che quel che è più cambiato è proprio
quel senso di armonia tra uomo, natura, lavoro e quotidianità che trapela
forte da Vita quotidiana a San Zenone.
In questo dipinto, la composizione è piuttosto semplice e riprende in modo
abbastanza tradizionale una veduta paesaggistica veneta di fine secolo.
Un’ampia distesa di prato apre la profondità prospettica scandendola dal
ritmo delle diagonali tracciate dal falcio dell’erba e s’incunea verso
destra fino al primo casolare, trovando i suoi limiti in prossimità del
filare di viti e dei panni bianchi stesi al sole. A misurare le distanze, vi
è prima la bambina seduta in basso e poi l’uomo seduto in alto, il quale
coincide quasi esattamente con il centro del dipinto in modo tale da far sì
che, dopo l’accesa nota cromatica della bambina, alla quale spetta la
funzione di un “la” introduttivo, questi divenga l’elemento che ci conduce,
tracciando un’altra direttiva visiva (bambina, uomo al centro, gli altri
personaggi), al gruppo di figure posto giusto all’incrocio di tutte le
diagonali della metà inferiore del dipinto; da questo punto, allora, si
aprono le due linee prospettiche di profondità che portano alle lontananze
del secondo piano, dove, quella che segue perpendicolare i casolari di
destra, assieme a quella breve del casolare a sinistra, sposta il nuovo
punto di fuga prospettico nell’orizzonte lontano della vegetazione e delle
collinette. Al di sopra di tutto, un cielo azzurro solcato da soffici e
bianche nuvole conclude la composizione, marcando la solarità della luce che
accende tutta la raffigurazione sottostante, nella quale la proiezione delle
ombre permette di stabilire con una certa precisione l’ora del giorno,
oramai prossima al mezzogiorno. Così come, più ancora degli alberi e della
vegetazione non ancora fiorita o delle viti ancora lungi dal dare il loro
frutto, è sempre la luce a indicarci la stagione dell’anno in un inizio di
primavera che porta nell’aria ancora un po’ di frizzante frescura invernale
ma dove il sole già scalda e ristora, inondando il verde del prato di
pallide tonalità di vita che ben presto si caricheranno di cromatismi ben
più rigogliosi. E questa luce, è una luce tipicamente veneta; una luce che
riscopriamo negli stessi anni anche in opere di altri pittori, come Giacomo
Favretto, Luigi Nono o, soprattutto, Guglielmo Ciardi. Una luce che non è
quella dei Macchiaioli, fatta di giustapposte e pure campiture cromatiche, e
neppure quella solare e calda dei Napoletani, bensì quella
della materia che si fa “magma vulcanico” in Tiziano e
in Jacopo o che è tratta in accese e incandescenti sciabolate in Tintoretto:
si osservi, a tal proposito, come il cielo terso esalti i fasci d’onde
verdi-giallastri dell’erba del prato, vibrati tutti di una luminosità che si
percepisce, con un fare quasi impressionistico, in tutto il suo valore solo
a una cera distanza, o il magma della materia cromatica fatta di tocchi
pastosi e di getto che accende di bagliori le vesti della bambina in primo
piano, il suo cesto e il panno bianco che vi sta dentro, o, ancora, quella
magistrali pennellatine di “sole” che delineano alcuni dei contorni
dell’uomo seduto al centro e che danno vita credibile al filare di viti poco
dietro. Con quella che sembra una sorprendente facilità di dipingere grazie
a un pennello che si muove con sicurezza sulla tela e che tradisce un
profondo amore per quello che sta ritraendo, Noè Bordignon dà prova di saper
rappresentare un istante reale della quotidianità del suo mondo senza mai
tradirsi alzando la voce verso un linguaggio figurativo retorico o di messa
in scena teatrale che vuol rappresentare il vero fingendo la realtà. La
sincerità della pittura di Noè Bordignon, ci parla con un idioma autentico e
schietto, ponendo davanti ai nostri occhi il sentimento, l’emozione e la
moralità di una “civiltà contadina” che aveva ancora molto da insegnare a
una società proto-industriale, quella di fine inizio secolo, che,
prediligendo i grandi agglomerati cittadini, rischiava di sradicare il
nostro entroterra dal suo habitat
di sempre per condurlo, come poi in parte ha fatto, verso un’alienazione e
uno stato di disagio dove pareva quasi si volesse estraniare la coscienza di
tutto un territorio da se stessa. Bordignon Noè, con la qualità silenziosa
della sua pittura, ci presenta un mondo, il suo, ancora ricco di dignità
morale e di etica sociale, che sono tra le peculiarità più preziose del
nostro entroterra. La stessa scenetta di lavoro domestico e agricolo che ci
propone nel secondo piano in prossimità dei primi casolari, si svolge
all’ombra di una serenità generalizzata di cui essa stessa è parte unitaria,
allo stesso modo per cui il realismo con cui sono delineati gli edifici
nella loro semplice ma comoda e funzionale essenzialità abitativa, si fonde
armoniosamente col paesaggio naturale che li circonda. Si fonde con il
paesaggio naturale ma anche, verrebbe da dire, con il “paesaggio storico”
del luogo: si noti solo, a tal riguardo, come si può intuire che
l’architettura del primo caseggiato di destra risalga verosimilmente al
tardo Cinquecento, o come, nella parete del terzo edificio, sopravvivano
lacerti di un affresco antico (che tuttora esiste e che dovrebbe raffigurare
una Madonna e un santo, forse san Giuseppe o san Cristoforo col Bambino Gesù
sulle spalle) tratti con pochi tocchi materia cromatica. La minuziosità
descrittiva dei più minuti particolari, infatti, si risolve in un tratto
compendiario che, come s’è già detto per il prato, trova talvolta assonanze
con spunti impressionistici, quando in realtà, però, non è altro che il modo
di dipingere con pennellate di colore-luce, che è la caratteristica prima
della pittura veneta da Giorgione in poi. Stilisticamente,
Vita quotidiana a San Zenone
di Noè Bordignon
può sensatamente essere databile all’ultimo decennio del XIX secolo, o forse
anche a qualche anno prima, e i timbri con la scritta “Made in Italy” posti
sul verso della tela assieme alla scritta a matita in inglese sul telaio (“Landscape
by Bordignon”) e alla presenza di un’etichetta col numero “24”, ci porta a
supporre che il pittore, a un certo momento, l’abbia inviata a una mostra
all’estero, come spesso ha fatto anche con altre sue opere. La tela di
Noè Bordignon
è tornata in Italia dopo essere stata acquistata negli Stati Uniti, in una
città nei pressi di Filadelfia, e anche questo fa supporre l’invio
dell’opera in America per una mostra, come, ad esempio, aveva fatto per la
Cresima, già
premiata a Berlino nel 1894 e inviata all’Esposizione Universale di Saint
Louis il 18 febbraio 1904. Vita quotidiana a
San Zenone di
Noè Bordignon,
se così fu, dovette essere considerata dall’artista stesso come un’opera
degna di rappresentarlo all’estero, cosciente di esporre non un semplice
dipinto, ma una tela in grado di testimoniare i valori della sua terra,
presentati in una sintesi figurativa che fosse capace di elevarsi fin quasi
a una sacralità spirituale di un Realismo veneto interpretato davvero con il
cuore e dove le figure sedute della bambina e dell’uomo paiono riallacciarsi
alla una tradizione genuinamente nostrana delle cosiddette “figure
accoudée”, con le
quali, per taluni critici, Jacopo Bassano combinava forma e contenuto in una
rappresentazione espressiva che vorrebbe significare forse sofferenza ma
forse anche contemplazione, ammirazione, rispetto per un mondo che noi oggi
possiamo solo guardare con meraviglia perché forse non ci appartiene più.
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Lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni, galleria d’arte ed antiquariato di Castelfranco Veneto, propone in vendita dipinti antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e dipinti moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900) con particolare attenzione per i pittori veneti e, soprattutto, per i pittori veneti legati al territorio di Castelfranco Veneto. Tra questi, artisti come Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, sono quelli di cui lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni principalmente s’interessa. Pur non trattando prevalentemente arte contemporanea, lo Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni acquista e vende anche quadri di pittori contemporanei legati al territorio di Castelfranco Veneto, come, ad esempio, Giorgio Dario Paolucci. Pertanto, cerca e compra opere di Noè Bordignon, Vittorio Tessari, Romolo Tessari, Bruno Gherri Moro, Luigi Serena, Luigi Cima, Teodoro Wolf Ferrari, Francesco Sartorelli, Giuseppe Vizzotto Alberti, Enrico Vizzotto Alberti, Zaccaria Dal Bò, Giorgio Dario Paolucci, oltre, ovviamente a quadri di pittori antichi (del Quattrocento, del Cinquecento, del Seicento, del Settecento – del XV secolo, del XVI secolo, del XVII, secolo, del XVIII secolo – del ‘400, del ‘500, del ‘600, del ‘700) e di pittori moderni (dell’Ottocento – del XIX secolo - dell’800 – fino ai primi decenni del Novecento – del XX secolo - del ‘900).
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